Il perfezionamento del procedimento di pubblicazione della sentenza nel processo civile
LA SVOLTA DELLE SEZIONI UNITE CIRCA IL MOMENTO IN CUI SI PERFEZIONA IL PROCEDIMENTO DI PUBBLICAZIONE DELLA SENTENZA, TRA DIRITTO DI DIFESA E DISFUNZIONI DELL’AMMINISTRAZIONE GIUDIZIARIA
(commento a S.U. 22.09.2016 n. 18569)
In una recentissima pronunzia, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno segnato la svolta su una questione censurata dalla Corte Costituzionale (n. 3 .2015) come patologia procedimentale grave per la sua rilevante incidenza sulle situazioni giuridiche degli interessati ovverosia la prassi, altamente disfunzionale, invalsa nei nostri Tribunali, in base alla quale è apposta una doppia data alle sentenze civili, il che ha, da decenni, comportato seri dubbi circa il momento in cui tale provvedimento giurisdizionale possa ritenersi perfetto, esistente, efficace ed irretrattabile.
Punto di partenza dell’analisi è l’individuazione del momento di perfezionamento dell’iter procedimentale che comporta il “venire giuridicamente ad esistenza della sentenza”, ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione.
Il procedimento di pubblicazione della sentenza, in materia civile, si compone, ex art. 133 c.p.c, di due momenti: il deposito, atto di volizione del giudice e la pubblicazione, attività affidata al cancelliere il quale dà atto dell’ avvenuto deposito apponendo, in calce al provvedimento, data e firma.
L’ art. 13 del d.m. 27 marzo 2000, n. 264 prevede, inoltre, l’inserimento della stessa nell'”elenco cronologico delle sentenze”, con l’attribuzione del relativo numero identificativo.
E’ di cristallina evidenza come il provvedimento giurisdizionale, stando alla lettera della legge, debba ritenersi perfezionato nel momento in cui venga compiuta tale seconda attività; ciò non pone problemi di sorta allorquando si sia al cospetto della fisiologica procedura di pubblicazione ovverosia quella in cui il cancelliere si premuri di “ufficializzare la sentenza” nella medesima data in cui il giudice abbia provveduto al deposito della stessa.
Nei casi patologici, al contrario (quelli in cui vi sia differimento temporale nell’attività de qua e, di conseguenza, in calce alla sentenza vengano apposte et la data del deposito, et quella della pubblicazione), la giurisprudenza, già a partire dal 1979 (S.u. n. 3501), ha ritenuto che la data rilevante ai fini del computo del termine lungo di decadenza ex art 327 c.p.c. (sei mesi), entro il quale esperire le impugnazioni, debba essere quella dell’avvenuto deposito ad opera del giudice.
La ratio di tale prospettazione teorica è, invero, del tutto comprensibile, data la seria e fondata preoccupazione di ricollegare l’esistenza di un provvedimento giurisdizionale ad una mera operazione di cancelleria , vi è più ove si consideri che, diversamente, la mera inerzia dell’operatore ovvero i disservizi dovuti a disfunzioni organizzative degli Uffici, ben potrebbero influenzare la durata del processo e dunque incidere sul tempo necessario alla formazione del giudicato e dunque comportare un vulnus al diritto alla ragionevole durata del processo tutelata a livello costituzionale dall’art. 111.2 Cost. ed a livello sovranazionale dall’art. 6.1 Cedu (n.d.r.).
Non si dimentichi, tra l’altro, come nelle more dell’intervento del cancelliere, ben potrebbe intervenire uno ius superveniens che, in applicazione del principio tempus regit actum operante in materia processuale, potrebbe comportare il potere-dovere di tornare a deliberare, per adeguare la decisione alla nuova norma applicabile alla fattispecie [1].
Ulteriore profilo di criticità della summenzionata opzione interpretativa è rappresentato dal potenziale vulnus al principio di garanzia ed effettività del diritto all’impugnazione visto che, computando come dies a quo per il calcolo del termine lungo di decadenza quella del mero deposito, non si tiene conto della concreta possibilità della parte di avere contezza della stessa e dunque del concreto rischio di incorrere incolpevolmente in preclusioni.
Al fine di ovviare a siffatta problematica, degno di menzione è l’intervento delle S.U. n. 13794 del 2012 che, nel ribadire come tutti gli effetti giuridici derivanti dalla pubblicazione della sentenza decorrono già dalla data del suo deposito, appone un correttivo all’esegesi classica statuendo che qualora il giudice dell’impugnazione ravvisi, anche d’ufficio, grave difficoltà per l’esercizio del diritto di difesa determinato dall’aver il cancelliere non reso conoscibile la data di deposito della sentenza prima della pubblicazione della stessa, avvenuta a notevole distanza di tempo ed in prossimità del termine di decadenza per l’impugnazione, la parte possa essere rimessa in termini ai sensi del novellato art. art. 153 comma 2 c.p.c. in base al quale “la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini”.
Pietra tombale dell’interpretazione contra litteram data, sino ad oggi, all’art. 133 c.p.c. è la pronunzia della Corte Costituzionale n. 3 del 2015 la quale – nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 133, primo e secondo comma, e 327, primo comma, del codice di procedura civile, nel testo anteriore alla modifica introdotta dall’art. 46, comma 17, della legge 18 giugno 2009, n. 69 come interpretati dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, con la sentenza n. 13794 del 1° agosto 2012, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, e 24, primo e secondo comma, della Costituzione – ha fornito una interpretazione costituzionalmente orientata delle stesse, statuendo che: Per costituire “dies a quo” del termine per l’impugnazione, la data apposta in calce alla sentenza dal cancelliere deve essere qualificata dalla contestuale adozione delle misure volte a garantirne la conoscibilità e solo da questo concorso di elementi consegue tale effetto, situazione che, in presenza di una seconda data, deve ritenersi di regola realizzata solo in corrispondenza di quest’ultima. In caso di ritardato adempimento delle operazioni previste dall’art. 133 c.p.c., attestato dalla diversa data di pubblicazione, il ricorso all’istituto della rimessione in termini per causa non imputabile va inteso come doveroso riconoscimento d’ufficio di uno stato di fatto “contra legem” che, in quanto imputabile alla sola amministrazione giudiziaria, non può in alcun modo incidere sul fondamentale diritto all’impugnazione, riducendone i relativi termini.
La Corte sottolinea, altresì, il nesso biunivoco che corre tra i concetti di “pubblicità” e “conoscenza”, rammentando come solo con il compimento di tutte le operazioni richieste dalla legge possa dirsi realizzata quella “pubblicità”, prevista dalla norma, che rende possibile a chiunque l’acquisizione della conoscenza dei dati che ne costituiscono l’oggetto, possibilità che si traduce nella titolarità da parte dei potenziali interessati di puntuali situazioni giuridiche e in particolare del potere di prendere visione degli atti pubblicati e di estrarne copia.
Per quanto concerne, poi, l’istituto della rimessione in termini per causa non imputabile ex art. 153 c.p.c., la Corte ha sottolineato come esso vada inteso come doveroso riconoscimento d’ufficio di uno stato di fatto contra legem che, in quanto imputabile alla sola amministrazione giudiziaria, non può in alcun modo incidere sul fondamentale diritto all’impugnazione, riducendone, talvolta anche in misura significativa, i relativi termini, sottolineando quanto sia parte integrante del diritto di difesa che i soggetti interessati abbiano tempestiva conoscenza degli atti oggetto di una possibile impugnazione, in modo che siano utilizzabili nella loro interezza i termini di decadenza previsti per l’esperimento del gravame.
E’ importante sottolineare come, tra le righe di tale decisione, sia evincibile un invito ad attenta analisi dell’art. 133 comma 2 cpv. Cp.c., – introdotto dall’art. 45 comma 1 d.l. 24 giugno 2014 n. 90, conv. in L. n.114 2014- ove si legge: “La comunicazione non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all’art. 325” (n.d.r.).
La disposizione fu, probabilmente, introdotta dal legislatore proprio per offrire copertura legislativa all’interpretazione resa dalle summenzionate pronunce della Corte di Cassazione, dando rilievo, ai fini del computo del “termine lungo”, al solo deposito, non già alla pubblicazione né, tantomeno alla comunicazione che il cancelliere della stessa renda alle parti del processo.
Un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma impone di sottolineare come, ciò che non ha rilievo ai fini del calcolo del termine di decadenza è solo ed esclusivamente l’effettiva conoscenza, non già la conoscibilità della stessa.
Sulla scia della suesposta pronuncia, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con Sent. n. 18569 del 2016 hanno avuto modo di applicare l’interpretazione costituzionalmente orientata fornita dalla Consulta, ribaltando il precedente indirizzo interpretativo espresso da ultimo da S.U. n. 13794 del 2012 (oggetto di diretta censura costituzionale).
La Corte ha infatti statuito che il deposito e la pubblicazione della sentenza coincidono e si realizzano nel momento in cui il deposito ufficiale in cancelleria determina l’inserimento della sentenza nell’elenco cronologico con attribuzione del relativo numero identificativo e conseguente possibilità per gli interessati di venirne a conoscenza e richiederne copia autentica: da tale momento la sentenza “esiste” a tutti gli effetti e comincia a decorrere il cosiddetto termine lungo per la sua impugnazione.
Il percorso argomentativo seguito dalla Corte è particolarmente brillante ove scioglie efficacemente il nodo gordiano che la precedente giurisprudenza non era riuscita a districare: conciliare l’esigenza che il momento in cui la sentenza viene ad esistenza a tutti gli effetti sia riconducibile ad un atto di volizione del giudice – e non resti nella discrezionalità del cancelliere – con quella di ricondurre al momento della pubblicazione della stessa – attività propriamente di cancelleria – il suo venire ufficialmente ad esistenza.
Per far ciò la Corte preliminarmente chiarisce, una volta per tutte, in cosa consista in concreto l’attività di deposito, ossia, in sostanza l’attività che rende conoscibile la sentenza secondo le regole del procedimento di pubblicazione.
Tale deposito sui generis, si sottolinea, è servente e preordinato alla pubblicazione tanto che la norma si riferisce ad un deposito “in cancelleria” del quale il cancelliere dia atto in calce alla sentenza; il luogo individuato per il deposito implica che solo ove lo stesso ivi avvenga possa avere carattere ufficiale e tale carattere, si afferma, non può “risultare” ufficialmente se non a seguito dell’inserimento dell’atto oggetto di deposito nell’elenco cronologico delle sentenze esistente presso la suddetta cancelleria, con assegnazione del numero identificativo, non fosse altro perchè una sentenza non identificabile non può neppure risultare ufficialmente depositata.
E’ pertanto l’inserimento nell’elenco cronologico delle sentenze il “mezzo” attraverso il quale si realizza ufficialmente il “deposito in cancelleria” della sentenza e, al contempo, la pubblicità necessaria alla conoscibilità della stessa.
In sostanza, in virtù del collegamento inscindibile tra i due momenti, è corretto affermare che deposito e pubblicazione coincidono non essendo logicamente ipotizzabile concepire la pubblicazione come mera attività del cancelliere diversa e successiva rispetto al deposito, il quale ultimo non può certo esaurirsi in una mera attestazione del cancelliere priva di qualunque ufficiale riscontro oggettivo.
La coincidenza strumentale tra deposito e pubblicazione comporta, inoltre, la necessità che le attività di deposito e pubblicazione intervengano senza soluzione di continuità o, quantomeno, che le suddette operazioni avvengano in breve tempo e comunque in un unico contesto soggettivo-temporale, senza che possa ritenersi esaurito il rapporto tra il giudice depositante, la sentenza depositanda e il cancelliere preposto alle attività di “recepimento” in cancelleria (id est: nell’elenco cronologico esistente presso la stessa) e relativa attestazione.
Ciò posto, si afferma la sussistenza di una sorta di responsabilità del giudice al controllo dell’attività di cancelleria, il quale avrebbe il dovere di accertarsi che il completamento del procedimento di notificazione venga attestato, intervenga al più presto e risulti certificato dall’apposizione della relativa (unica) data in calce alla sentenza.
In mancanza, egli sarebbe tenuto a segnalare particolari urgenze, denunciare inefficienze o sollecitare, attraverso l’intervento del capo dell’ufficio, un maggior controllo e, se del caso, una migliore organizzazione del lavoro e distribuzione del personale.
Un simile monito certamente lascia presagire l’opportunità di sanzioni disciplinari nei confronti dei dipendenti pubblici che ingiustificatamente si discostino da tali cristalline linee-guida (n.d.r.).
Nei casi in cui si realizzi un impropria e patologica scissione temporale tra i due momenti, il giudice del gravame è tenuto, in primis, a verificare, la tempestività dell’impugnazione proposta e per far ciò egli deve accertare il momento in cui la sentenza è divenuta conoscibile proprio attraverso il deposito ufficiale in cancelleria comportante l’inserimento di essa nell’elenco cronologico delle sentenze e l’attribuzione del relativo numero identificativo.
Rebus sic stantibus, logico corollario di una siffatta interpretazione è lo svilimento dell’applicabilità, nel caso in esame, dell’ istituto dalla rimessione in termini per causa non imputabile ex art. 153 c.p.c. ; lo stesso, infatti, mal si attaglia ad una situazione in cui il concetto stesso di deposito è legato a doppio filo a quello di astratta conoscibilità dell’esistenza del provvedimento, si che il difensore, con la diligenza dovuta in rebus suis, recandosi periodicamente in cancelleria per informarsi sull’esito di una causa della quale conosce la data di deliberazione, potrebbe, a partire dal momento del deposito, stante l’annotazione nell’elenco cronologico, venirne a conoscenza ed estrarne copia.
Né, tantomeno, con l’auspicio che giudicanti si adeguino in futuro al dictat delle Sezioni Unite, sarà possibile che si maturino decadenze di sorta nonostante la mancata conoscenza del provvedimento decisorio per causa non imputabile alle parti.
Conclusivamente, sulla scia di moniti, anche sovranazionali, circa lo snellimento dei procedimenti giurisdizionali e di effettività di tutela, la pronunzia in commento si inserisce a pieno titolo nel percorso per l’implementazione del buon andamento dell’Amministrazione, intesa in senso ampio ed onnicomprensivo nonché per incentivare la performance dei dipendenti pubblici.
Avv. Vincenza Maria Daniela Tarantino
[1] Giampiero Balena, “istituzioni di diritto processuale civile 2015”, Vol. I pag. 263
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