Il processo in assenza dell’imputato: problemi interpretativi ed applicativi

Il processo in assenza dell’imputato: problemi interpretativi ed applicativi

1. La partecipazione dell’imputato al procedimento a suo carico: evoluzione storico-normativa.

La partecipazione dell’imputato al processo penale è stata da sempre intesa, nel nostro ordinamento processual-penalistico, come il risultato di una sua libera e volontaria scelta. Espressione, in altri termini, del sacrosanto diritto di difesa ex art. 24 Cost., ancor più, del c.d. «diritto di non collaborare» alla stregua dello ius tacendi[1]. Si tratta, invero, di una scelta legislativa adottata fin dal Codice di Procedura Penale del 1930, sebbene nella disciplina originaria quel che realmente contava era la regolarità formale della notificazione del primo atto introduttivo del giudizio, dalla quale discendeva, inesorabilmente, la conoscenza legale del processo da parte dell’imputato. Solo la riforma del 1955 introdusse qualche temperamento alla disciplina in questione, attraverso, soprattutto, l’istituto della restituzione nel termine. In ogni caso, per il legislatore italiano la presenza dell’interessato allo svolgimento del rito, può e deve essere una facoltà dello stesso, senza alcuna forma di coercizione. E ciò, diversamente da quanto accade in altri Stati ove, invece, si alternano “modelli a presenza necessaria” con accompagnamento coattivo dell’interessato per i reati più gravi (è il caso, ad esempio, dei sistemi di common law, Spagna, Germania) e “modelli a presenza obbligatoria” con sanzioni a carico dell’assente (è il caso del sistema penale francese prima della “Legge Perben”, che ha sancito l’adeguamento ai principi della giurisprudenza CEDU sul punto).

Con la Legge n. 67/2014, in adeguamento ai principi via via sanciti dalla giurisprudenza comunitaria sulla tematica, ha fatto ingresso, nell’ordinamento giuridico italiano, la nuova disciplina del c.d. processo in absentia che ha sostituito quella della contumacia, vigente fin dal codice di rito del 1930.

2. Dall’istituto della contumacia a quello dell’absentia nel solco della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Prima della novella introdotta con la Legge n. 67/2014, la partecipazione dell’interessato al processo penale celebrato a suo carico, come poc’anzi anticipato, afferiva all’istituto della contumacia (art. 420 e ss. c.p.p.). A norma del previgente art. 420 quater c.p.p., il giudice dichiarava la contumacia dell’imputato, libero o detenuto, che non compariva in udienza (la prima udienza di costituzione delle parti, s’intende) e, congiuntamente, non ricorrevano le seguenti condizioni:

1) nullità della notificazione, citazione, avviso, comunicazione;

2) mancata effettiva ed incolpevole conoscenza, da parte dell’imputato, dell’avviso dell’udienza preliminare, sempre che non vi fosse stata la notificazione del predetto avviso al difensore a norma degli artt. 159, 161 co. 4 e 169 c.p.p.;

3) legittimo impedimento dell’imputato a comparire all’udienza.

L’imputato dichiarato contumace era rappresentato dal difensore. Il risvolto – forse – più significativo della disciplina della contumacia era rappresentato dal termine per proporre impugnazione: invero, ai sensi del previgente art. 548 co. 3 c.p.p., la sentenza dibattimentale era notificata per estratto al contumace e, da tale momento, decorreva il termine per l’impugnazione.

Nella previgente disciplina erano, inoltre, previste due «forme di garanzia» a beneficio del contumace, nell’ipotesi di mancata incolpevole conoscenza del procedimento celebrato a suo carico: da un lato, l’art. 175, comma 2, c.p.p. sanciva la restituzione nel termine per proporre impugnazione ovvero opposizione al decreto penale di condanna, previo necessario accertamento compiuto dall’autorità giudiziaria[2]; dall’altro lato, se l’imputato, contumace in primo grado, nel giudizio di appello dimostrava di non essere potuto comparire per caso fortuito o forza maggiore oppure per mancata effettiva e incolpevole conoscenza dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, poteva chiedere la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. Richiesta sulla quale il giudice d’appello decideva sulla base dei canoni indicati nell’art. 603 c.p.p.[3]

2.1. L’influenza della giurisprudenza della Corte CEDU.

L’imponente riforma del 2014, che ha sancito l’ingresso nel nostro sistema processuale dell’istituto dell’absentia, è stata l’epilogo di un pressante impulso della giurisprudenza comunitaria che, già da tempo, aveva enucleato alcuni canoni indefettibili in ordine al modello convenzionale di giusto processo in absentia:

1) il diritto ad essere presente è un diritto rinunciabile a determinate condizioni;

2) la rinuncia deve essere frutto di una libera volontà, manifestata in modo espresso o tacito, ma inequivoco[4];

3) occorre dimostrare che la persona è a conoscenza del procedimento penale a suo carico[5];

4) sussistono alcuni fatti dai quali è possibile desumere, in modo inequivoco, che l’interessato ha avuto conoscenza del procedimento e, ciononostante, intende non prendervi parte[6].

La giurisprudenza comunitaria, enunciando i predetti principi fondamentali ha, ineluttabilmente, indotto gli Stati membri, tra i quali l’Italia, a recepire l’orientamento e pertanto, a realizzare un adeguamento giuridico interno al modello europeo di giusto processo in absentia.

3. La Legge n. 67/2014 e il “nuovo” istituto dell’assenza: le modifiche correttive al Codice di procedura penale.

Date le ritrosìe del nostro Giudice delle Leggi[7], l’adeguamento vero e proprio del sistema processuale italiano ai canoni del diritto europeo in tema di “giusto” processo in absentia, è avvenuto con la – già annunciata – Legge delega n. 67 del 28 aprile 2014. La novella in parola, «nel ridisegnare i moduli procedurali nei casi di mancata costituzione in giudizio dell’imputato e nell’aderire a un’ottica pienamente restitutoria»[8], ha generato una serie di modifiche correttive all’impianto codicistico. Tali modifiche possono così sintetizzarsi:

– da un lato, se siamo in presenza di un “irreperibile”, il processo deve essere sospeso a norma del “nuovo” art. 420 quater c.p.p.;

– dall’altro, se vi è stata conoscenza effettiva dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare – o della prima udienza dibattimentale nei casi di citazione diretta a giudizio – oppure ricorre alcuno dei “fatti sintomatici” elencati al comma 2 del novellato art. 420 bis c.p.p., il rito prosegue nei confronti dell’imputato dichiarato assente (e rappresentato dal difensore).

Procediamo con ordine. Innanzitutto, al momento della costituzione delle parti (udienza preliminare ovvero prima udienza dibattimentale nei procedimenti a citazione diretta a giudizio), il giudice deve verificare la regolarità della notificazione dell’atto introduttivo (avviso di fissazione dell’udienza preliminare o decreto di citazione diretta a giudizio) all’imputato, nonché a tutte le altre parti per le quali il codice di rito impone la predetta notifica. Qualora la notificazione sia regolare, il giudice – ai sensi dell’art. 420 bis –dichiara l’assenza dell’imputato ed il processo prosegue nei confronti dell’imputato assente, il quale sarà rappresentato dal difensore. Sul punto nulla quaestio.

Il processo segue il suo corso, altresì, quando ricorre uno dei c.d. “fatti sintomatici” della conoscenza, che il codice individua nella dichiarazione o elezione di domicilio, arresto, fermo, applicazione di una misura cautelare, nomina di difensore di fiducia nonché in ogni fatto dal quale risulti con certezza che l’imputato è a conoscenza del procedimento o si è volontariamente sottratto alla conoscenza[9]. In altri termini, ove ricorra una delle situazioni anzidette, si è in presenza di una presunzione di conoscenza del procedimento e del processo da parte dell’interessato, tale per cui la macchina della giustizia non può e non deve fermare il suo corso.

Le modifiche all’impianto procedurale, introdotte dalla novella del 2014, non si esauriscono qui. In particolare, con riguardo al giudizio di appello l’art. 10, comma 5, L. n. 67 del 2014 ha abrogato l’art. 548, comma 3, c.p.p., che prevedeva «in ogni caso» la notificazione all’imputato contumace dell’avviso di deposito con l’estratto della sentenza, al fine di assicurare allo stesso la conoscenza dell’avvenuto deposito della sentenza e l’autonomo esercizio del diritto d’impugnazione. Di conseguenza, anche l’art. 585, comma 2, lett. d) è stato modificato dall’art. 11 della L. n. 67 mediante l’eliminazione, fra i termini per proporre impugnazione, del giorno «in cui è stata eseguita la notificazione dell’avviso di deposito con l’estratto del provvedimento, per l’imputato contumace». Sicché il dies a quo per proporre impugnazione, ai sensi dell’art. 585, comma 2, lett. c), decorre dalla scadenza del termine di deposito della sentenza stabilito dalla legge o determinato dal giudice, spettando al difensore l’avviso di deposito della sentenza, ai fini della tempestiva presentazione dell’impugnazione, solo in caso di mancato rispetto del termine prefissato.

Ancora, la novella del 2014 ha comportato la modificazione del testo dell’art. 603 c.p.p., mediante l’abrogazione del comma 4, che consentiva all’imputato, contumace in primo grado, che dimostrava l’incolpevole mancata conoscenza o partecipazione al giudizio, di chiedere e ottenere la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. All’art. 604 c.p.p. (Questioni di nullità) è stato aggiunto il comma 5 bis che sancisce un “nuovo” caso di nullità della sentenza di primo grado deducibile in appello, allorquando nel precedente grado di giudizio si era proceduto in assenza dell’imputato e sia data prova che, in realtà, si sarebbe dovuto procedere a norma dell’art. 420 ter (ossia, al rinvio dell’udienza e alla rinnovazione dell’avviso all’imputato per assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento)[10] o 420 quater (ossia, alla sospensione del processo per impossibilità di notificazione personale all’imputato ad opera della polizia giudiziaria)[11] c.p.p., ovvero l’imputato fornisca prova che la sua assenza in primo grado era stata dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo. In tale ultima ipotesi, l’imputato è rimesso nei termini per poter formulare richiesta di rito alternativo, stante il richiamo all’art. 489, co. 2, c.p.p.

Secondo una recente dottrina[12], la restituzione degli atti al giudice di primo grado a seguito della declaratoria di nullità della sentenza impugnata, non potrebbe lasciar ferma «la validità della pregressa attività processuale a fronte dell’accertamento di un error in procedendum che inficia ab initio la costituzione del rapporto processuale, per la violazione non solo del diritto di difesa dell’accusato ma anche del principio del contraddittorio, in una procedura che si è rivelata non dialettica in ordine alla ricostruzione probatoria dei fatti». Ciò contrariamente a quanto sostenuto, viceversa, da altra autorevole dottrina[13] secondo la quale la “retrocessione” prevista dall’art. 604, co. 5 bis, c.p.p. «non sembra comportare di per se una conseguenza invalidante degli atti compiuti nel precedente dibattimento, consistendo in una pronunzia del giudice d’appello sostitutiva di quella che il giudice di primo grado avrebbe dovuto adottare ai sensi dell’art. 420 bis, comma 4». Sembra di poter condividere la prima tesi, in quanto in perfetta linea con i principi fondamentali su cui si regge il nostro ordinamento giuridico, primi fra tutti quello dell’inviolabilità del diritto di difesa e del contraddittorio. Invero, la corretta instaurazione del procedimento penale, con l’effettiva conoscenza e partecipazione del “protagonista principale” (l’indagato/imputato), è esigenza primaria ed ineludibile al fine di rispettare l’ordine ed i dettami che il nostro codice di rito impone nei singoli momenti del processo penale. Discostarsi da queste “cadenze”, accuratamente stabilite, significherebbe non rispettare il percorso lineare nella formazione della prova e, conseguentemente, del giudizio tracciato dal nostro legislatore processuale.

Le modifiche al codice di procedura penale, a seguito dell’entrata in vigore del “nuovo” processo in absentia, riguardano anche il giudizio in Cassazione. Ed invero, l’art. 11, co. 4, della L. n. 67/2014 ha novellato la lett. b) dell’art. 623, co. 1, c.p.p. che, adesso, aggiunge ai casi di annullamento con rinvio al giudice di primo grado, anche quelli disciplinati dall’art. 604, commi 4 e 5 bis, c.p.p.[14]. Si tratta, in particolare, di specifici casi di nullità assoluta del provvedimento che dispone il giudizio o della sentenza di primo grado ai sensi dell’art. 179 c.p.p. ovvero di nullità a regime intermedio ex art. 180 c.p.p., da cui sia derivata la nullità del provvedimento che dispone il giudizio o della sentenza di primo grado (art. 604, co. 4, c.p.p.), nonché dei casi di nullità della sentenza per inosservanza delle norme in tema di assenza (art. 604, co. 5 bis, c.p.p. che, a sua volta, rimanda agli artt. 420 ter e 420 quater c.p.p.).

In ultimo, la riforma del 2014 ha introdotto un “nuovo strumento di impugnazione”, se così può essere definito: la rescissione del giudicato. Il “nuovo” art. 625 ter, infatti, accorda il diritto di chiedere la rescissione del giudicato all’imputato, condannato o sottoposto a misura di sicurezza con sentenza irrevocabile, nei cui confronti si sia proceduto in assenza per tutta la durata del processo e, di contro, fornisca la prova che l’assenza è stata dovuta ad un’incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo. La richiesta in parola dev’essere presentata, entro 30 giorni dall’avvenuta conoscenza del processo, dall’imputato, personalmente o a mezzo di difensore munito di procura speciale, e sulla stessa decide la Corte di Cassazione. In caso di accoglimento della richiesta di rescissione del giudicato, la Suprema Corte dispone la revoca della sentenza di condanna e restituisce gli atti al giudice di primo grado, con rimessione dell’imputato nei termini e nelle facoltà di cui all’art. 489, co. 2, c.p.p.

3.1. (Segue) La disciplina transitoria.

La Legge n. 67/2014 è stata aspramente criticata dalla dottrina per non aver, inizialmente, previsto una disciplina di diritto intertemporale[15], dando, così, spazio ad incertezze interpretative ma, soprattutto, applicative nel “nuovo” processo in absentia. Effettivamente, prendendo atto delle difficoltà pratiche che la nuova disciplina aveva generato per i processi in corso all’entrata in vigore della novella de qua, il nostro legislatore ha tentato di “rimediare” e, infatti, con la L. 11 agosto 2014, n. 118 ha introdotto l’art. 15 bis nel corpo della L. n. 67/2014. La norma transitoria, nello specifico, ha statuito l’applicabilità immediata della “nuova” disciplina dell’assenza, ex artt. 420 bis e ss. c.p.p., ai procedimenti in corso al momento dell’entrata in vigore della riforma, a condizione che non fosse stata emessa la sentenza di primo grado e sempre che l’imputato non fosse stato dichiarato contumace e non fosse stato emesso decreto di irreperibilità.

4. Questioni interpretative e ombre delle “nuove” norme in tema di absentia: la sospensione del processo per irreperibilità dell’imputato e le modifiche “mancate” alla disciplina dell’irreperibilità tout court. Profili problematici.

In realtà, bisognava capire che le questioni problematiche dell’imponente intervento legislativo del 2014 non si esaurivano nella mancanza di una disciplina transitoria, ma riguardavano – e continuano a riguardare – aspetti che attengono, innanzitutto, ad un mancato coordinamento delle nuove norme con altri istituti inseriti nel nostro codice di rito. Prima di tutto, la questione si presenta con riguardo al concetto di irreperibilità, in quanto la riforma del 2014 ha introdotto l’art. 420 quater che associa alla condizione in parola il “rimedio” della sospensione del processo ma, di contro, continuano a sopravvivere, senza modificazione alcuna, anche le “vecchie” norme sull’irreperibilità di cui agli artt. 159 e ss. c.p.p. 

In particolare, ai sensi del novellato art. 420 quater c.p.p., se l’imputato non è presente e l’Autorità Giudiziaria non deve dichiarare l’assenza a norma dell’art. 420 bis ovvero il legittimo impedimento a comparire ex art. 420 ter e non si è in presenza di un’ipotesi di nullità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, rinvia l’udienza e dispone che l’avviso sia notificato all’imputato «personalmente» ad opera della polizia giudiziaria. Ove “fallisca” la notifica personale, il giudice dispone, con ordinanza, la sospensione del processo nei confronti dell’imputato assente (sempre che non debba essere pronunciata sentenza a norma dell’art. 129 c.p.p.).

Il fatto che non sia stato possibile “recapitare personalmente” l’avviso dell’udienza all’interessato, significa, sostanzialmente, che lo stesso è risultato irreperibile. E qui arriva il punctum dolens. Occorre stabilire, in primo luogo, cosa debba intendersi per notifica “personale”. Non v’è alcun dubbio che la risposta al quesito risieda nelle disposizioni di cui agli artt. 157-159 c.p.p. e che, pertanto, al fine di esperire correttamente la notificazione prescritta dall’art. 420 quater c.p.p., la polizia giudiziaria debba seguire le modalità indicate nelle norme succitate[16]. Ma, se così è, quando si applicherebbe la disposizione di cui all’art. 159 c.p.p., ai sensi della quale «se non è possibile eseguire le notificazioni nei modi previsti dall’art. 157, l’autorità giudiziaria dispone nuove ricerche dell’imputato, particolarmente nel luogo di nascita, dell’ultima residenza anagrafica, dell’ultima dimora, in quello dove egli esercita abitualmente la sua attività lavorativa presso l’amministrazione carceraria centrale. Qualora le ricerche non diano esito positivo, l’autorità giudiziaria emette decreto di irreperibilità con il quale, dopo aver designato un difensore all’imputato che ne sia privo, ordina che la notificazione sia eseguita mediante consegna di copia al difensore»? In altri termini, quand’è che siamo di fronte ad un irreperibile ex art. 420 quater, per il quale si sospende processo (con tutti gli effetti conseguenti) e quando di fronte ad un irreperibile ex art. 159 c.p.p., il quale è rappresentato durante il processo dal difensore (di fiducia o, eventualmente, designato d’ufficio con il decreto di irreperibilità)?

La novella del 2014 nulla statuisce sul punto. Nel silenzio della legge, non ci resta che ricorrere all’attività ermeneutica, sebbene ancorandola a criteri sistematici e teleologici. Sembra poter affermare senza timore di incorrere in errore che, anche per la sua collocazione codicistica (Parte Seconda, Libro V, Titolo IX), la disciplina dell’irreperibilità ex art. 420 quater c.p.p. si applichi, essenzialmente, nel momento in cui si sia proceduto alla formalità della “costituzione delle parti” in giudizio. Quindi, nella fase “processuale” e non in quella “procedimentale”. Per cui, ove sia necessario, ad esempio, procedere alla notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari (art. 415 bis) – siamo, dunque, nella “fase procedimentale” – e le ricerche prescritte dagli artt. 157-159 c.p.p. dovessero risultare infruttuose, allora il Pubblico Ministero dovrà emettere il decreto di irreperibilità ai sensi dell’art. 159. Se, viceversa, siamo nella “fase processuale” – ad esempio, in udienza preliminare – e sia accertata l’irreperibilità dell’imputato – sempre attraverso le ricerche prescritte a norma degli artt. 157 e ss c.p.p. – il giudice non potrà più emettere decreto di irreperibilità (seppure ancora consentitogli in virtù del disposto dell’art. 160, co. 1, c.p.p.) ma dovrà sospendere il processo con ordinanza, a norma dell’art. 420 quater c.p.p.

È questa, nel silenzio della legge, l’unica chiave di lettura possibile della nuova disciplina in tema di irreperibilità dell’imputato/indagato nella fase procesuale. Fermo restando che, in assenza di qualsivoglia modifica correttiva, nulla vieta al giudice del “processo” di dichiarare l’irreperibilità dell’imputato con decreto, così come stabilito dall’art. 160, co. 1, c.p.p. (che ancora oggi recita: «Il decreto di irreperibilità emesso dal giudice o dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari […]). Il fatto che, tuttora, la norma in parola parli espressamente di decreto di irreperibilità emesso dal giudice, non consente, in astratto, di escludere che tale potere possa essere esercitato dal G.U.P. o dal giudice del dibattimento in luogo di quello sancito dall’art. 420 quater, ricorrendo un caso di irreperibilità dell’imputato. Resta, dunque, fermamente auspicabile l’esigenza di un intervento legislativo che operi un efficace ed esplicito coordinamento tra le norme del codice di rito, affinchè l’applicazione delle stesse non resti ancorata, solamente, all’interpretazione degli operatori del diritto.

4.1. (Segue) Le presunzioni di conoscenza ex art. 420 bis, comma 2, c.p.p.: in particolare, il caso della dichiarazione o elezione di domicilio.

Le questioni interpretative ed applicative, sollevate dalla novella del 2014 in tema di processo in absentia, non si esauriscono qui. Riguardano anche il momento cruciale dell’accertamento della volontaria rinuncia a comparire da parte dell’imputato. In particolare, la riforma – come già espresso – ha introdotto inedite fictiones in tema di conoscenza del processo, le quali, ricorrendo, fanno presumere la conoscenza del procedimento/processo da parte dell’interessato. Ma, come osservato da autorevole dottrina, l’effetto che deriva da questo meccanismo è dirompente: dalla conoscenza presunta del procedimento si ricava, a sua volta, in via presuntiva, la conoscenza dell’imputazione e della vocatio in iudicium; ancora, dalla conoscenza presunta dell’imputazione e della vocatio in iudicium, si presume la volontaria rinuncia a comparire. Il c.d. praesumptum de praesumpto, per dirla come i civilisti[17]. Il meccanismo in parola, evidentemente, risulta tutt’altro che garantista poiché, in presenza di alcuno dei fatti sintomatici indicati al comma secondo dell’art. 420 bis c.p.p., si ritiene vi sia piena ed effettiva cognizione da parte dell’interessato della macchina processuale che muove nei suoi confronti. In altri termini, ricorrendo una delle fictiones introdotte dal legislatore del 2014, si presume che l’imputato sia a conoscenza del “procedimento” e, conseguentemente, del “processo”. Nozioni – quelle di “procedimento” e di “processo” – che gli operatori del diritto sanno benissimo essere concettualmente diverse e separate. Ancor più se si tiene conto della circostanza che, nella realtà pratica, è tutt’altro che improbabile che dal compimento di un atto di indagine al momento del rinvio a giudizio passano, di regola, anni ed anni.

Se i dubbi possono, al momento, mettersi da parte con riguardo ai “fatti sintomatici” della nomina di fiducia, di una misura cautelare applicata, di un provvedimento di arresto o di fermo, viceversa, non possono tralasciarsi le questioni problematiche che, soprattutto sul piano applicativo, si pongono con riferimento alla dichiarazione o elezione di domicilio. Questo “fatto”, invero, non sempre può atteggiarsi a sinonimo di conoscenza del procedimento/processo da parte dell’interessato. Per spiegarci al meglio, consideriamo un caso pratico. Immaginiamo che le forze dell’ordine siano chiamate ad intervenire da una persona che denuncia di aver subito un furto di cellulare in un parco, ove stava tranquillamente passeggiando prima di essere avvicinato ed “agguantato” da un passante. Supponiamo ancora che, grazie alla tempestività dell’intervento, i militari riescano a raggiungere il ladro, che ancora si aggirava nei pressi della scena del delitto e che, a seguito di perquisizione personale, rinvengano la refurtiva oggetto della denuncia. Facciamo il caso che non si versi in ipotesi di arresto in flagranza e che, dunque, il ladro venga portato in caserma per gli incombenti di rito: essere identificato e redigere il verbale di perquisizione avvenuta. In tale momento, il ladro è invitato a dichiarare o eleggere domicilio, oltre che a nominare un difensore di fiducia. Facciamo conto, ancora, che il ladro non provveda a nominare un difensore di fiducia e che elegga domicilio presso la sua abitazione. Immaginiamo che, al momento della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari ex art. 415 bis c.p.p., il ladro, in seguito alle ricerche condotte ai sensi degli artt. 157 e ss. c.p.p., risulti irreperibile presso il domicilio eletto in precedenza e che, pertanto, il Pubblico Ministero titolare dell’indagine, previo provvedimento che dichiara l’irreperibilità dell’indagato ai sensi dell’art. 159 c.p.p., disponga la nomina di un difensore d’ufficio e la contestuale notifica, a quest’ultimo, dell’avviso ex art. 415 bis. Termina qui, dunque, la c.d. “fase procedimentale” che, notoriamente, coincide con quella delle indagini preliminari. Stessa sorte, nel caso di specie, toccherà al decreto di citazione diretta a giudizio, il quale sarà notificato al difensore d’ufficio, in proprio e per conto dell’imputato irreperibile. Siamo giunti alla fase “processuale”. Arriviamo così, dopo qualche tempo (può trattarsi di anni, visti i tempi tecnici ed ordinari della giustizia penale), alla prima udienza dibattimentale, ove è collocato il “fatidico” momento della costituzione delle parti, il momento in cui si decide se l’imputato è “dentro” o “fuori” dal processo a suo carico.

Verificandosi una situazione di questo tipo – tutt’altro che fantasiosa – quali sono i provvedimenti che il giudice del dibattimento dovrà adottare? Stando alla lettera della legge, ricorrerebbe una delle presunzioni di conoscenza del procedimento/processo: il ladro, nel verbale di perquisizione ha eletto domicilio presso la sua abitazione e pertanto, secondo lo spirito del novellato art. 420 bis c.p.p., questo “fatto” sarebbe sintomatico della sua conoscenza del procedimento e del processo. Quindi, in ossequio alla norma in parola, il giudice del dibattimento dovrebbe dichiarare l’assenza dell’imputato e far proseguire il processo a carico dell’assente che sarà rappresentato dal difensore.

Accogliere questa tesi, tuttavia, risulterebbe eccessivamente semplicistico e ben lontano dai canoni dell’interpretazione teleologica e sistematica che debbono, necessariamente, informare l’attività dell’interprete. È vero che, nel caso de quo, vi è una elezione di domicilio, ma questo “fatto” deve essere contestualizzato alla luce delle considerazioni che seguono. Prima di tutto, bisogna porre i riflettori sull’effettivo momento in cui è avvenuta l’elezione di domicilio, nel caso di specie: il verbale di perquisizione personale è stato redatto nell’immediatezza dei fatti, allorquando il ladro, formalmente, non era neppure indagato in quanto, ancora, non era stata neppure comunicata la notitia criminis all’Autorità Giudiziaria. Pertanto, non era stata ancora compiuta la formalità dell’iscrizione, da parte del Pubblico Ministero, del nome del ladro nel registro delle notizie di reato ex art. 335 c.p.p. Dunque, se vogliamo, l’elezione di domicilio è avvenuta in un momento antecedente all’instaurarsi di un procedimento penale, contrariamente a quanto richiesto dall’art. 420 bis, secondo comma, c.p.p. che parla, espressamente, di dichiarazione o elezione di domicilio «nel corso del procedimento».

Di poi, quand’anche si accettasse che l’elezione di domicilio sia un fatto sintomatico di conoscenza, tuttavia, la conoscenza, nel caso di specie, atterrebbe alla fase procedimentale soltanto, non certo a quella processuale. Invero, già dal momento della notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari l’indagato è risultato irreperibile, con conseguente notificazione del predetto avviso al difensore d’ufficio a tal uopo nominato. Della fase processuale, instauratasi – probabilmente – dopo anni, l’imputato poteva non averne conoscenza, così come non era neppure a conoscenza che gli era stato nominato un difensore d’ufficio.

Nel caso di specie, quindi, difficilmente si potrebbe pervenire alla conclusione – prima prospettata – circa la presunzione di conoscenza da parte dell’indagato/imputato del procedimento/processo a suo carico, data la sussistenza di uno dei “fatti sintomatici” elencati nel comma secondo dell’art. 420 bis c.p.p. Al contrario, il giudice, correttamente, dovrebbe procedere ai sensi dell’art. 420 quater c.p.p. (sospensione del processo), giacchè l’elezione di domicilio, nel caso prospettato, non presenta elementi idonei a rendere l’interessato cosciente e consapevole che nei suoi riguardi si stava instaurando un procedimento penale.

Alla luce delle considerazioni finora espresse, al fine di scongiurare pericoli di applicazioni formalistiche e semplicistiche di istituti processual-penalistici – con irrimediabili pregiudizi alle garanzie difensive che da sempre connotano il nostro ordinamento giuridico – si è dimostrato come, anche in presenza di una delle fictiones individuate dall’art. 420 bis c.p.p., nella specie di una dichiarazione o elezione di domicilio, l’interprete sia chiamato, sempre, ad una valutazione complessiva del caso concreto, verificando che effettivamente ricorrano elementi tali per poter affermare, con alto grado di probabilità logica e razionale, che in presenza di quel fatto l’interessato abbia avuto piena cognizione che nei suoi confronti è iniziato – ovvero, inizierà – un procedimento penale.

5. Conclusioni: deminutio delle garanzie difensive dell’imputato?

La riforma degli artt. 420 bis c.p.p. ad opera del D.lgs n. 67/2014 ha, allo stato, rivelato una notevole “debolezza” sia sul piano pratico, che teorico. Per quanto fosse giusto procedere, nel nostro ordinamento processuale, ad un adeguamento ai canoni fondamentali in tema di giusto processo in absentia enucleati dalla giurisprudenza comunitaria, tuttavia, l’intervento normativo del 2014 presenta alcuni punti oscuri di indubbia rilevanza, ut supra evidenziato. Partendo dall’iniziale mancanza di una disciplina di diritto temporale (poi introdotta), passando ai i gravi problemi di coordinamento fra le “nuove” norme in tema di assenza e la “vecchia” disciplina delle notifiche (rimasta immutata) e finendo al sistema delle presunzioni di conoscenza di cui all’art. 420 bis, secondo comma (che genera “presunzioni a cascata”). Si può concludere che con il “nuovo” istituto dell’assenza il legislatore abbia realizzato una forte compressione delle garanzie difensive dell’imputato, dando spazio ad un’immagine della macchina della giustizia frettolosa e poco incline alla tutela delle ragioni del principale protagonista del processo penale.

Bibliografia

  • CONTI, Processo in absentia a un anno dalla riforma: praesumptum de praesumpto e spunti ricostruttivi, Dir. pen. proc., n. 4/2015;

  • CANZIO, Il processo in absentia a un anno dalla riforma: ricadute sui giudizi d’appello e di Cassazione, in Dir. pen. e proc., n. 7/2015;

  • CONTI, Il processo in absentia: le ricadute sul giudicato, in Dir. pen. contemp., 2 marzo 2015;

  • PISTORELLI, Così “scompare” il processo in contumacia, in Guida dir., 2014, n. 21.

Giurisprudenza

  • CEDU, Sez. I, Sejdovic c. Italia, 10 novembre 2004; CEDU, Grande Camera, Sedjovic c. Italia, 1° marzo2006;

  • CEDU, Calozza c. Italia, 12 febbraio 1985;

  • CEDU, Battisti c. Francia, 12 dicembre 2006;

  • Corte Cost., 12 dicembre 1996, n. 354 in It., 1997, I;

  • Corte Cost., 5 aprile 2007, sito uff. Corte Cost., anno 2007;

  • Corte Cost., 4 dicembre 2009, n. 317, in It., 2010, 8-9;

  • Cass. pen., Sez. III, 15/04/2015, n. 21626, in CED Cassazione, 2015;


 

[1] C. CONTI, Processo in absentia a un anno dalla riforma: praesumptum de praesumpto e spunti ricostruttivi, in Dir. pen. proc., n. 4/2015, p. 461.

[2] Art. 175, comma 2, c.p.p. «Se è stata pronunciata sentenza contumaciale o decreto di condanna, l’imputato è restituito, a sua richiesta, nel termine per proporre impugnazione od opposizione, salvo che lo stesso abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento e abbia volontariamente rinunciato a comparire ovvero a proporre impugnazione od opposizione. A tale fine l’autorità giudiziaria compie ogni necessaria verifica».

[3] Art. 603, comma 4, c.p.p. «Il giudice dispone, altresì, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale quando l’imputato, contumace in primo grado, ne fa richiesta e prova di non essere potuto comparire per caso fortuito o forza maggiore o per non avere avuto conoscenza del decreto di citazione, sempre che in tal caso il fatto non sia dovuto a sua colpa, ovvero, quando l’atto di citazione per il giudizio di primo grado è stato notificato mediante consegna al difensore nei casi previsti dagli articoli 159, 161 comma 4 e 169, non si sia sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti del procedimento».

[4] CEDU, Sez. I, Sejdovic c. Italia, 10 novembre 2004; CEDU, Grande Camera, Sedjovic c. Italia, 1° marzo2006.

[5] CEDU, Calozza c. Italia, 12 febbraio 1985: addirittura lo stato di latitante non è presuntivo di una rinuncia a presenziare e difendersi, quindi è obbligo dell’Autorità procedere a una regolare notificazione dell’atto introduttivo.

[6] Ex multis, CEDU, Battisti c. Francia, 12 dicembre 2006: ripetute nomine di fiducia redatte dall’imputato latitante, con indicazione del numero di procedimento.

[7] Ex multis, Corte Cost., 12 dicembre 1996, n. 354 in Giur. It., 1997, I, p. 462: «È inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 486, 477, comma 2, 71, comma 1, 70, sollevata per contrasto con gli artt. 3 e 112 Cost., essendo riservata al legislatore la determinazione delle ipotesi di sospensione del processo»; ancora, Corte Cost., 5 aprile 2007, sito uff. Corte Cost., anno 2007: «Non è fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 159, 160, 420-quater, comma 1, e 484 c.p.p., censurati, in riferimento agli artt. 3, 10, primo comma, 97, primo comma, e 111, secondo, terzo e quarto comma, Cost., nella parte in cui non prevedono la sospensione obbligatoria del processo nei confronti degli imputati ai quali il decreto di citazione a giudizio sia stato notificato previa emissione del decreto di irreperibilità. Il rimettente ritiene che, a seguito delle modifiche apportate all’art. 111 Cost. dalla L.Cost. 23 novembre 1999, n. 2, l’esigenza del contraddittorio trascenda la tutela delle posizioni soggettive e rappresenti un’indefettibile connotazione di qualunque processo. A prescindere dalla validità di tale concezione oggettiva del contraddittorio, da essa non possono trarsi le conseguenze prospettate dal rimettente, in quanto l’enunciazione del quarto comma dell’art. 111 Cost. non comporta che il profilo oggettivo non sia correlato con quello soggettivo e non costituisca, comunque, un aspetto del diritto di difesa, posto che il successivo comma quinto, nell’ammettere la deroga al principio, fa riferimento al consenso dell’imputato. Ciò che conta è sempre la tutela del diritto di difesa, al quale la CEDU, richiamata dal giudice a quo, non accorda, in tema di processo in absentia, garanzie maggiori di quelle previste dall’art. 111 Cost.. Non sono fondate neppure le censure di violazione dell’art. 97, primo comma, Cost., poiché detto parametro non riguarda la disciplina dell’attività giurisdizionale, e di violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento dell’irreperibile rispetto all’incapace, poiché la situazione di quest’ultimo non può fungere da tertium comparationis». Soltanto con la sentenza n. 317 del 4 dicembre 2009 (in Giur. It., 2010, 8-9, 191, nota di LI VOLSI), la Corte Costituzionale si è mostrata più sensibile al problema, dichiarando costituzionalmente illegittimo l’art. 175, co. 2, c.p.p. «per violazione degli artt. 24, 111, comma 1, e 117, comma 1, Cost., l’art. 175, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non consente la restituzione dell’imputato, che non abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale, quando analoga impugnazione sia stata proposta in precedenza dal difensore nominato d’ufficio. Il bilanciamento tra il diritto di difesa e il principio di ragionevole durata del processo, infatti, deve tener conto dell’intero sistema delle garanzie processuali, per cui rileva esclusivamente la durata del “giusto” processo, quale complessivamente delineato in Costituzione, mentre un processo non “giusto”, perché carente sotto il profilo delle garanzie, non è conforme al modello costituzionale, quale che sia la sua durata».

[8] G. CANZIO, Il processo in absentia a un anno dalla riforma: ricadute sui giudizi d’appello e di Cassazione, in Dir. pen. e proc., n. 7/2015, p. 873.

[9] Art. 420 bis, comma 2, c.p.p.

[10] Si tratta di una nullità di ordine generale a regime intermedio che comporta la restituzione degli atti al giudice di primo grado.

[11] Trattasi di una nullità assoluta per omessa citazione dell’imputato che comporta la restituzione degli atti al giudice di primo grado.

[12] G. CANZIO, cit., p. 874.

[13] G.CONTI, Il processo in absentia: le ricadute sul giudicato, in Dir. pen. contemp., 2 marzo 2015.

[14] Il testo precedentemente in vigore era il seguente: «b) se è annullata una sentenza di condanna nei casi previsti dall’articolo 604 comma 1, la corte di cassazione dispone che gli atti siano trasmessi al giudice di primo grado;».

[15] L. PISTORELLI, Così “scompare” il processo in contumacia, in Guida dir., 2014, n. 21, p. 92.

[16] Sul punto, Cass. pen., Sez. III, 15/04/2015, n. 21626, in CED Cassazione, 2015.

[17] C. CONTI, cit., pp. 9 e ss.

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