Il pubblico ufficiale che viene insultato durante il servizio deve fuggire o può difendersi?

Il pubblico ufficiale che viene insultato durante il servizio deve fuggire o può difendersi?

Cass. pen., Sez. feriale, 30 agosto 2016 – 1 settembre 2016, n. 36276.

Nel caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte, un agente di polizia locale (M.) era stato condannato per il reato di lesioni personali dolose nei confronti di un’anziana signora (A.) che, contrariata dagli accertamenti che stava esperendo in merito al suo esercizio commerciale, aveva inizialmente manifestato il suo dissenso con offese verbali, per poi scagliarsi  contro di lui provocandogli delle lesioni al volto; per difendersi, il ricorrente aveva a sua volta esercitato della violenza fisica da cui erano derivate – anche in tale evenienza – delle lesioni.

La situazione di fatto desta subito delle perplessità se posta in tali termini: invero, vi è da specificare che la sentenza di condanna aveva mosso delle censure alla condotta dell’agente laddove, tenuto conto delle rimostranze verbali dell’anziana, si era avvicinato a ella non prevedendo la possibilità che le offese, dapprima orali, avrebbero potuto tramutarsi in azioni concrete quali, appunto, calci e pugni.

Nei primi due gradi di giudizio le corti di merito avevano escluso la latitudine applicativa dell’esimente della legittima difesa, alla luce della condotta tenuta dall’agente che, avvicinandosi ad A. mentre quest’ultima stava inveendo verbalmente contro di lui, era stata idonea a generare una situazione di pericolo dalla quale dovesse per forza derivare una aggressione fisica (o almeno una concreta previsione della sua verificazione).

La legittima difesa doveva ritenersi esclusa – a dire, anche, del giudice di secondo grado – poiché oramai principio pacifico quello per cui l’esimente non può trovare applicazione qualora i soggetti coinvolti siano ordinariamente animati dall’intento reciproco di offendersi ed accettano la situazione di pericolo nella quale volontariamente si pongono, con la conseguenza che la loro difesa non può dirsi necessitata.

Nel contempo, però,  la legittima difesa ben può essere riconosciuta ove, sussistendo tutti gli altri requisiti voluti dalla legge, vi sia stata un’azione assolutamente imprevedibile e sproporzionata, ossia un’offesa che, per essere diversa e più grave di quella accettata, si presenti del tutto nuova, autonoma ed in tal senso ingiusta (in tal senso Sez. 5, n. 32381 del 19/02/2015, D’Alesio e altro, Rv. 265304).

Il giudizio di legittimità si conclude con un rinvio a diversa sezione della Corte di Appello, considerati fondati i motivi di ricorso addotti dall’agente, cosicché siano meglio dissipati i dubbi che affliggono le ragioni poste a base della condanna in cui, tra l’altro, è stata esclusa la sussistenza della causa di giustificazione.

Va allora chiarito nel caso in esame perché il M., che stava svolgendo degli accertamenti nella sua veste di vigile urbano presso gli esercizi commerciali gestiti dalla persona offesa e dal figlio di costei, avvicinandosi alla A. (che sino a quel momento aveva manifestato solo verbalmente il suo disappunto per gli accertamenti svolti dal pubblico ufficiale), avrebbe dovuto prevedere che l’anziana donna lo aggredisse con dei pugni al volto (fatto in relazione al quale è stata condannata per il reato di lesioni in separata sede).

Questi i termini della sentenza.

L’analisi non può però prescindere da un ulteriore spunto di riflessione: a parere di chi scrive, la Corte territoriale ben dovrebbe dissipare un altro indefettibile dubbio: come mai M. non avrebbe dovuto avvicinarsi alla signora che in quel momento era intenta a inveire contro di lui?

Non deve essere in alcun modo sminuita la qualifica di M. quale pubblico ufficiale che, come noto, esige il compimento di specifici atti ordinariamente esclusi al comune cittadino.

Una situazione di fatto come emerge dalla pronuncia della Corte di Cassazione, ictu oculi potrebbe essere indice dell’integrazione di un illecito penale commesso dalla donna, quale, ad esempio, l’oltraggio a pubblico ufficiale o la fattispecie ex art. 337 c.pp (se ravvisabili delle minacce nelle “offese” proferite, il cui contenuto non ci è dato sapere).

A prescindere da tutto, appare evidente anche al profano di diritto che il p.u. aveva il sacrosanto diritto di avvicinarsi ad ella, proprio perché investito di una qualifica pubblica che gli impone (e non gli rende facoltativo) l’obbligo di accertare e reprimere la commissione di reati che si compiono (anche) in sua presenza, così come disposto dall’art. 55 c.p.p.

Ritenere che un p.u., avvicinandosi a persona che sta pubblicamente offendendolo per un atto del suo ufficio, stia in realtà generando volontariamente generando una situazione di pericolo è considerazione ontologicamente impropria.

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Filippo Marco Maria Bisanti

Dottore magistrale in Giurisprudenza - Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Dottore in Operatori della Sicurezza Sociale - Facoltà di Scienze Politiche - Università degli studi Cesare Alfieri di Firenze; Diplomato alla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali - Università Guglielmo Marconi di Roma; Esito positivo del tirocinio formativo ex art. 73 d.l. 69/2013, conv. in l. 98/2013, svolto presso la Sezione Penale del Tribunale Ordinario di Trento (dicembre 2014-giugno 2016); Cultore della materia presso la cattedra di Diritto civile dell’Università degli Studi di Trento, Cultore della materia presso la cattedra di Istituzioni di diritto privato dell’Università di Trento

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