Il risarcimento del danno da ritardo ex art. 2 bis L. 241/90
Spesso si sente parlare di “principio della certezza temporale alla conclusione del procedimento amministrativo”, ma cosa si intende per tempo dell’azione amministrativa?
Il tempo dell’azione amministrativa esprime una connessione tra l’esercizio del potere amministrativo ed i termini di conclusione del procedimento.
Nell’attuale panorama normativo, unitamente alla nuova visione del rapporto tra amministrato ed amministrazione, l’affidamento sulla certezza dei tempi dell’azione pubblicistica ha assunto un ruolo centrale non essendo sufficiente relegare, la stessa, alla previsione o alla mera azionabilità, di strumenti processuali di carattere propulsivo, diretti semplicemente a conseguire l’utilità finale, ma poco appaganti rispetto alla soddisfazione del consequenziale interesse del privato a vedere definita con certezza la propria posizione.
Se il tempo diviene un bene della vita, oggetto di opportuna tutela nonchè di risarcibilità, in caso di lesione, questo significa che, nel rapporto con la P.A., gli oggetti di tutela sono due: da una parte, la questione contenuta nella singola istanza presentata e dall’altra, la possibilità di una tempestiva evasione della stessa.
Si è fatto progressivamente strada il c.d. danno da ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo. Secondo una parte della dottrina, si manifesterebbe in due differenti ipotesi: danno da ritardo nell’adozione di un provvedimento favorevole all’istante, ovvero, un’ipotesi di mancato rispetto del termine previsto per la conclusione del procedimento amministrativo in cui, tuttavia, il privato ottiene il bene della vita cui aspirava; e il c.d. danno da ritardo mero, nella cui categoria è ricompresa, oltre la mera inerzia della p.a. o la mancata emanazione del provvedimento richiesto, anche l’adozione tardiva di un provvedimento di carattere sfavorevole, ancorché legittimo, rispetto all’istanza presentata dal privato.
Trattasi, dunque, di due tipologie di danno differenti laddove, mentre nel primo caso ciò che rileva è la illegittimità dell’azione amministrativa, connessa al mancato rispetto della tempistica procedurale, nonché al conseguimento tardivo del bene della vita cui si auspicava, nel secondo, al contrario, il danno promana o dalla mera inerzia dell’azione pubblicistica, inadempiente rispetto alla richiesta avanzata dall’istante, o, come sostiene una parte della dottrina, dalla emanazione tardiva di un provvedimento di contenuto sfavorevole, rispetto alla richiesta avanzata dal privato.
E’ evidente come la problematica dall’aspetto più interessante attenga proprio alla possibilità di configurare un danno da “ritardo mero”, identificato nella lesione del mero interesse procedimentale alla tempestiva conclusione del procedimento nei termini di cui all’art. 2, L. 241/90, indipendentemente dall’accertamento relativo alla lesione del bene della vita finale, al cui conseguimento si rivolgeva l’istanza non accolta tempestivamente. Il problema assurge proprio in tale ipotesi, ossia, quando il privato, invece di far valere l’interesse all’ottenimento di un bene della vita al quale avrebbe condotto il corretto esercizio dell’attività amministrativa, ricorre ai rimedi giurisdizionali allo scopo di ottenere il ristoro per il pregiudizio occorsogli, per effetto della mancata eliminazione delle incertezze in ordine alla realizzabilità o meno della propria iniziativa. Similmente quando, accertata la non annullabilità del provvedimento per infondatezza della richiesta, il privato rivendichi comunque il risarcimento per il ritardo, perché lesivo dell’affidamento alla certezza del rispetto della tempistica di conclusione del procedimento.
In passato, alcuni sostenevano la risarcibilità del danno da ritardo mero a prescindere dalla indagine sulla spettanza del bene della vita o dall’utilità finale, in quanto, ogni violazione di principi e regole dell’azione amministrativa ledeva l’interesse legittimo e, di conseguenza, andava risarcito. Ex adverso, l’orientamento secondo cui, l’intervenuto riconoscimento da parte dell’amministrazione di aver provveduto in ritardo sull’istanza del privato non comportava la ristorabilità dei relativi danni. A sostegno della tesi estensiva, il legislatore, con la L. 69/2009, introducendo l’art. 2 bis L. 241/90, ha disancorato la configurazione del danno da ritardo dalla dimostrazione della spettanza del bene della vita, concependo così il tempo come un bene e la sua perdita come un danno. Testualmente, il dettato normativo prevede: “le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’art. 1, comma 1 – ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento.” Al successivo comma 1-bis disciplina l’ipotesi dell’indennizzo “in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento ad istanza di parte, …[…]…, l’istante ha il diritto di ottenere un indennizzo per il mero ritardo alle condizioni e con le modalità stabilite dalla legge…[…]…”
Configurano, dunque, due diverse ipotesi di danno: mentre nella prima è necessario provare l’elemento soggettivo dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione, per attribuire il risarcimento in capo al privato, al contrario, nella seconda, si parla di indennizzo per il mero ritardo, indipendentemente (sembrerebbe) dall’accertamento relativo alla componente soggettiva.
Il panorama giurisprudenziale degli ultimi mesi ci offre numerosi spunti per approfondire la questione.
Il TAR Liguria – Genova (sentenza n.4 dell’8 gennaio 2016) precisa che, quando non vi è una normativa specifica che fissi un termine di conclusione del procedimento amministrativo, si suole fare ricorso alle categorie del danno da ritardo, allo scopo di individuare il pregiudizio occorso ai privati in virtù dell’illegittima inerzia della p.a. nella emanazione del provvedimento di contenuto favorevole. Nel caso de quo, i giudici sostengono che la richiesta di danni per l’emanazione tardiva del provvedimento dovuto “può essere richiesta esclusivamente nelle ipotesi in cui sia stato previamente accertato e dichiarato dal Giudice il silenzio inadempimento dell’amministrazione (TAR Sicilia Palermo III 5 giugno 2015 n. 1316).”
Per l’accertamento dei presupposti caratterizzanti la colposa inerzia della p.a., non solo l’onere probatorio incombe sulla parte richiedente ai sensi dell’art.2697 c.c., ma si aggiunge anche che la semplice prova del ritardo, rispetto alla tempistica di conclusione del procedimento, non fornisce alcun elemento di piena prova per imputare lo stesso:“non è sufficiente la sola violazione del termine massimo di durata del procedimento amministrativo, poiché tale violazione di per sé non dimostra l’imputabilità del ritardo, potendo la particolare complessità della fattispecie o il sopraggiungere di evenienze non imputabili all’amministrazione escludere la sussistenza della colpa.” L’accertamento oggettivo relativo alla complessità dell’attività da compiersi fornisce l’ulteriore precisazione in ordine alla imputabilità del ritardo; inoltre, il comportamento della p.a. deve essere oggetto di valutazione alla stregua della condotta tenuta dall’istante.
Il privato, rivestendo un ruolo di parte essenziale nel procedimento, è investito di poteri idonei ad incidere sulla tempistica e sull’esito dell’azione stessa, azionando rimedi amministrativi e giustiziali. In un’ottica prettamente collaborativa, si chiede all’istante di attivare con tempestività il rito del silenzio quale iniziativa diretta ad far risaltare l’inerzia della p.a. L’azione avverso il silenzio, di cui al combinato disposto dagli artt. 117 e 30 c.p.a., contribuisce ad accertare l’obbligo a provvedere in capo alla p.a. e a mettere in mora la stessa, costituendo anche il termine, a partire dal quale, poter richiedere il risarcimento: “il danno deve ritenersi risarcibile soltanto dal momento della notifica all’amministrazione della messa in mora da parte dei ricorrenti”.
Sulla stessa scia si muove la giurisprudenza successiva sostenendo che il danno da ritardo identifica una particolare responsabilità della p.a. che, codificata all’art. 2 bis della L. 241/90, è riconducibile a tre differenti ipotesi:“a) l’adozione tardiva di un provvedimento legittimo ma sfavorevole per il privato interessato;b) l’adozione di un provvedimento favorevole ma tardivo;c) la mera inerzia e cioè la mancata adozione del provvedimento (TAR Puglia – Lecce, Sez. II, 23/03/2016 n.549).” Il collegio afferma che il conseguimento tardivo del provvedimento favorevole consente al privato, nonostante abbia conseguito l’utilità richiesta (in quel caso si trattava dell’autorizzazione all’apertura di un distributore di carburante), di agire nei confronti della p.a. lamentando il pregiudizio subito in conseguenza del mancato rispetto della tempistica procedurale. Nella specie il termine normativamente prefissato, ai sensi dell’art. 2 L. n. 241/90 e regolamenti attuativi, nonché art. 4, comma 7, D.P.R. n. 447/1998, era stato eccessivamente superato, avendo conseguito il titolo a seguito di cinque anni dall’avvio del procedimento.
Evidenziata, dunque, la illegittimità dell’azione della p.a., per violazione del termine di conclusione del procedimento di cui all’art. 2 l. 241/90, si precisa che “Il danno non è stato, dunque, causato direttamente dal provvedimento, che anzi risulta legittimo, ma dalla mancata conclusione del procedimento nel termine previsto: il pregiudizio lamentato dal ricorrente è quello subìto per aver ottenuto in ritardo il bene della vita cui aveva titolo.”
L’onere della prova, che grava sul danneggiato, è correttamente espletato nella misura in cui sia idoneo a fornire tutti gli elementi qualificanti la fattispecie di danno, ed in particolare: l’elemento oggettivo, in questo caso, la condotta antigiuridica della P.A. risultava dal comportamento illecito (ritardo ingiustificato nell’adozione di un provvedimento favorevole); l’adozione di un illegittimo atto soprassessorio (sull’illegittimità della sospensione sine die del procedimento amministrativo la giurisprudenza amministrativa è pacifica); ancora, l’evento dannoso (danno ingiusto) nella lesione dell’interesse legittimo pretensivo del privato; il rilascio tardivo del provvedimento richiesto dimostra ex se la spettanza del bene della vita, dispensando il giudice dal compito di effettuare il giudizio prognostico; il nesso di causalità tra la condotta antigiuridica dell’amministrazione e l’evento dannoso; ed, infine, l’elemento soggettivo, essendo il danno riferibile ad una condotta colposa della. P.A.
Con riferimento all’elemento soggettivo, ovvero, alla imputabilità del ritardo alla colpevole inerzia della p.a., il Collegio ritiene di dover fare applicazione del consolidato orientamento secondo cui “al privato, il quale assuma di essere stato danneggiato da un provvedimento illegittimo o dall’inerzia della P.A., non è richiesto un particolare impegno per dimostrare la colpa della stessa, potendo egli limitarsi ad allegare l’illegittimità dell’atto o lo spirare del termine di conclusione del procedimento e per il resto farsi applicazione, al fine della prova dell’elemento soggettivo, delle regole di comune esperienza e della presunzione semplice di cui all’art. 2727 c.c.”
Se in questo caso, la richiesta di risarcimento danni ha trovato accoglimento, in presenza di tutti gli elementi diretti a provare la illegittimità dell’azione amministrativa, non può dirsi altrettanto in caso di violazione del termine di conclusione di una procedura concorsuale, oggetto di una recente pronuncia dei giudici Capitolini.
Ribadendo, anche in siffatta occasione, che l’azione ex art. 2 bis della L. 241/90 non costituisce una fattispecie autonoma di illecito, ma è da ricondursi al più ampio genus dell’art. 2043 c.c., di cui condivide gli elementi costitutivi della responsabilità (tra le più recenti, T.A.R. Lecce, sez. I 19 dicembre 2015 n. 3644), i giudici di merito sostengono che, sia l’ingiustizia del danno che la sussistenza dello stesso, non possano presumersi iuris tantum, in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo o al silenzio nell’adozione del provvedimento amministrativo altrimenti la disposizione in esame varrebbe a configurare una sanzione per il ritardo, non un diritto al risarcimento. L’onere della prova di tutti gli elementi configuranti la responsabilità da ritardo, in cui è incorsa la p.a., grava sul danneggiato, precisando che la prova dell’elemento soggettivo non può trarsi in termini di mero automatismo dal solo dato oggettivo dell’illegittimità del provvedimento adottato, o dall’illegittimo ed ingiustificato procrastinarsi dell’adozione del provvedimento finale. A questo punto, il collegio osserva che la natura dei termini di conclusione del procedimento amministrativo, nello specifico del termine di conclusione di una procedura concorsuale, è da considerarsi ordinatoria:“la loro inosservanza non genera, infatti, decadenza dalla titolarità del potere o dal suo esercizio, in forza del principio di naturale continuità dell’azione amministrativa (sul punto, si rimanda a TAR Lazio, Roma, II ter, 5 agosto 2014, nr. 8608).”
Pur trattandosi di un termine ordinatorio e non perentorio, si ritiene che il procedimento debba seguire un termine naturale e ragionevole di conclusione (variamente fissato nei regolamenti applicabili a ciascuna fattispecie, o, in mancanza, regolato in via residuale dalla legge) la cui inosservanza, laddove comporti un danno ingiusto a carico dell’istante, obbliga la p.a. al risarcimento. Sul punto, ritorna frequente il confronto in giurisprudenza tra diversi orientamenti, tra i quali uno volto a considerare l’interesse alla conclusione del procedimento come un bene giuridico a sé stante, che tutela il fattore tempo come elemento del patrimonio del privato (che dunque ha diritto ad una risposta in tempi ragionevoli da parte della P.A., quale che sia il suo contenuto di merito, comprese le istanze che si intendano respingere), ed un altro secondo cui il risarcimento del danno da ritardo è dovuto solo in caso di fondatezza della pretesa.
Il collegio, pur ravvisando una irragionevole durata della procedura per la selezione di commissari forestali, ha ritenuto che ciò non fosse ascrivibile a colpa o ad inerzia volontaria dell’amministrazione, giacché riconducibile ad uno di quei naturali imprevisti che possono comportare un rallentamento dell’attività amministrativa. Nello specifico, la scelta dell’apparato amministrativo di sospendere la procedura concorsuale sine die, allo scopo di attendere la risoluzione di un contenzioso pendente che potesse incidere sul procedimento in corso, era del tutto legittima perché connessa con l’esito della finalità concorsuale, ovvero, assumere i vincitori, allo scopo di instaurare un rapporto durevole di collaborazione con la p.a.. La contestazione principale, operata dal collegio nei confronti dei ricorrenti, riguardava il non aver sufficientemente provato il danno, sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo, limitandosi a dedurre l’affermazione della responsabilità dell’Amministrazione come un fatto automatico, ovvero come una conseguenza immediata e diretta dell’illecito (ovvero dell’iniziale errore nella costituzione della commissione di concorso). Difetta, quindi, sul piano della fattispecie oggettiva, il nesso di causalità tra l’evento lesivo (il ritardo) e l’illegittimità dell’azione amministrativa, nonché, sul piano soggettivo, il presupposto della responsabilità, ovvero della rimproverabilità del comportamento lesivo come riconducibile a colpa o negligenza dell’amministrazione.”
A ricomporre i suddetti contrasti è intervenuto il Supremo Consesso della Giustizia Amministrativa che, in due occasioni, ha posto le basi per la risarcibilità sia del c.d. danno da ritardo, derivante da provvedimento favorevole, che del danno da ritardo mero.
“La sussistenza del danno da ritardo non può presumersi iuris tantum, in relazione al mero “superamento” del termine fissato per l’adozione del provvedimento amministrativo favorevole, ma il danneggiato deve, ex art.2697 c.c., provarne i presupposti sia di carattere oggettivo (sussistenza del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale), sia di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante). La prova dell’elemento soggettivo della fattispecie risarcitoria deve considerarsi raggiunta a fronte della dimostrazione di un esito favorevole del procedimento (con conseguimento da parte del privato del bene della vita richiesto) e a fronte di una palese ed oggettiva inosservanza dei termini procedimentali, non giustificata da parte dell’Amministrazione, né in sede procedimentale né in sede giudiziale, con riferimento a difficoltà oggettive di tipo tecnico organizzativo rispetto al concreto affare trattato.”
Come riportato in massima, la V Sezione del Consiglio di Stato, si è pronuncia il 25 marzo scorso sui presupposti per richiedere il risarcimento del danno da ritardo, soffermandosi sulla prova dell’elemento soggettivo. Sulla scorta dell’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, in ordine alla riconducibilità del danno da ritardo al genus del danno ingiusto, ex art. 2043 c.c., di matrice civilistica, con specifico riferimento all’onere della prova, gravante sulla parte danneggiata, ritiene sia opportuno dimostrare “l’esito favorevole del procedimento”, unitamente alla oggettiva inosservanza dei termini di conclusione, senza che l’amministrazione adduca, né in sede procedimentale, né in sede giudiziale, giustificazioni di tale ritardo riferite a particolari difficoltà tecnico-organizzative rispetto al concreto affare da trattare.
Il caso sottoposto al vaglio di Palazzo Spada aveva ad oggetto il rilascio di una V.I.A. (valutazione di impatto ambientale) per l’autorizzazione ad un ampliamento di un impianto di smaltimento e recupero rifiuti non pericolosi, conclusosi con un ritardo di 154 giorni rispetto al termine indicato dall’art. 20 del Codice dell’ambiente, calcolato tenuto conto dell’interruzione del procedimento, per effetto della intervenuta comunicazione ex art.10 bis L.241/90.
Si trattava di un caso di risarcimento danni da tardiva adozione di provvedimento favorevole, con preventivo accertamento della spettanza del bene della vita richiesto, che si suole far coincidere con le forme di azione poste a tutela dell’interesse legittimo c.d. pretensivo (cfr. Cons. St., Sez. V., 13/01/2014 n.63). Per accedere alla suddetta tutela, si necessita di una lesione diretta ad incidere sul bene della vita finale che funge da sostrato materiale dell’interesse legittimo e che non consente di configurare la tutela del puro interesse procedimentale, o di mere aspettative, o di semplici ritardi procedimentali. E’ pregiudiziale, per l’accoglimento della richiesta risarcitoria, accertare la spettanza del bene della vita vantato dal privato istante; pertanto, solo quando sia dimostrato che il procedimento possa chiudersi con il rilascio di un provvedimento di contenuto favorevole per il destinatario, o sussistano fondate ragioni per ritenere che l’interessato possa ottenere il suddetto interesse, il semplice ritardo nell’emanazione di un atto rileverà quale elemento sufficiente a configurare un danno ingiusto, con conseguente obbligo di risarcimento. Venendo poi all’onere della prova, i giudici di legittimità si pongono in linea di continuità con la giurisprudenza di merito, indicando che spetta alla parte ricorrente fornire la prova rigorosa di tutti i presupposti per configurare il danno da ritardo: si ammette il ricorso alle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c., per fornire la prova oltre che del danno subito, anche della sua entità, ma è fatto obbligo di allegare le circostanze di fatto in maniera chiara e precisa, non potendo fare ricorso alla valutazione equitativa di cui all’art. 1226 c.c..
Per quanto concerne la prova dell’elemento soggettivo, si riconferma l’orientamento sostenuto dalla giurisdizione di merito (Tar Liguria, Sez.II, 8 gennaio 2016, n.4), ovvero, che il mero superamento del termine di conclusione del procedimento non basta come prova dell’elemento soggettivo, dovendosi, al contrario, dimostrare il difettoso funzionamento dell’apparato pubblicistico, come conseguenza di una condotta gravemente negligente o con intenzionale volontà di nuocere, contrastante con i canoni di imparzialità e buon andamento della p.a.: “In particolare, occorre verificare la sussistenza sia dei presupposti di carattere oggettivo (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale), sia di quello di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante): in sostanza, il mero “superamento” del termine fissato ex lege o per via regolamentare alla conclusione del procedimento costituisce indice oggettivo, ma in integra “piena prova del danno”. La colpa dell’amministrazione è riconosciuta solo allorquando siano provate delle situazioni di inescusabilità, in presenza di circostanze che palesino la negligenza, l’imperizia, e l’intenzionalità di agire in violazione delle regole di buona amministrazione.
Quando si discute della risarcibilità di un danno da ritardo, previo accertamento della spettanza del bene della vita, la quantificazione del pregiudizio occorso sarà da ricondursi alla perdita subita ed al mancato guadagno, in ragione del tardivo conseguimento del bene della vita: nel caso di specie veniva liquidato il solo danno da mancato guadagno. Sostiene la giurisprudenza che la prova del danno emergente è suggellata dalla dimostrazione che, per effetto della mancata adozione del provvedimento, è cagionato un pregiudizio nel patrimonio dell’istante altrimenti evitabile, laddove fosse stato tempestivamente adottato lo stesso.
E’ bene ricordare che il rispetto di un così rigoroso onere di allegazione fa capo alla necessità di provare l’illegittimità dell’azione amministrativa della quale si richiede un opportuno risarcimento; al contrario, quando la domanda ha ad oggetto la richiesta di indennizzo da mero ritardo di cui all’art. 2 bis, comma 2, L.241/90, si riferisce ad un’attività lecita, ancorché legittima, che tuttavia può pregiudicare le ragioni dell’istante ma non assurgendo al rango della ingiustizia. L’indennizzo, infatti, è una prestazione patrimoniale diretta a compensare un soggetto per il pregiudizio subito, o sacrificio sostenuto. Quando si parla di risarcimento, invece, si fa riferimento ad una misura compensatoria, diretta a ripristinare la situazione anteriore alla causazione del danno; al contrario, l’indennizzo, pur configurandosi come un intervento economico riparatore, non è necessariamente commisurato alla effettiva entità del danno: “Il risarcimento non è una sanzione, ma è un mezzo riparatorio di carattere patrimoniale attraverso il quale reintegrare il danneggiato in conseguenza della illegittima attività della pubblica amministrazione (T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 12 aprile 2016, n. 4329).”
Secondo l’orientamento minoritario, di cui il collegio si fa portatore, il danno da ritardo mero sussiste nella lesione dell’interesse procedimentale al mancato rispetto dei termini di conclusione del procedimento amministrativo, a prescindere dall’accertamento relativo alla spettanza o meno del bene della vita connesso allo stesso. Il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento amministrativo rappresenta sempre un costo per la p.a. dal momento che il tempo costituisce una variabile essenziale nella predisposizione e nell’attuazione dei piani finanziari relativi ai progetti imprenditoriali, indirizzandone la relativa convenienza economica. Secondo tale opinione, ogni incertezza in ordine ai tempi di realizzazione di un investimento si traduce nell’aumento del c.d. “rischio amministrativo”.
Si consideri, in conclusione, che con la recente pronuncia del 22/09/16 n.3920 la V Sezione del Consiglio di Stato è tornata ad occuparsi della questione inerente il risarcimento del danno da ritardo. In perfetta aderenza con gli orientamenti precedenti afferma:”L’art. 2 bis della Legge 7 agosto 1990, n. 241 deve essere interpretato nel senso che il riconoscimento del danno da ritardo non può restare avulso da una valutazione di merito sulla spettanza del bene sostanziale della vita e che deve essere subordinato (anche) alla dimostrazione che l’aspirazione al provvedimento era probabilmente destinata ad un esito favorevole e, dunque, alla prova della spettanza definitiva del bene sostanziale della vita collegato a un tale interesse (Riforma della sentenza del T.a.r. Molise, n. 436/2015).” Si osserva che il citato art. 2 bis-L. 241/90 non eleva l’interesse procedimentale al rispetto dei termini dell’azione amministrativa a distinto bene della vita, suscettibile di autonoma protezione mediante risarcimento, scisso da una valutazione inerente la spettanza del bene sostanziale al cui conseguimento il procedimento è finalizzato. Trattandosi, infatti, di una fattispecie sui generis, specifica e peculiare, riconducibile alla disciplina di cui all’art. 2043 c.c., è necessario provare tutti gli elementi costitutivi tale responsabilità, di stampo civilistico: “l’ingiustizia e la sussistenza del danno non possono, in principio, presumersi iuris tantum, in meccanica relazione al mero fatto temporale del ritardo o del silenzio nell’adozione del provvedimento; in aggiunta il danneggiato deve piuttosto, ex art. 2697 Cod. civ., dimostrare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito civile, dunque della sua domanda risarcitoria: in particolare sia degli elementi oggettivi (prova del danno e del suo ammontare, ingiustizia, nesso causale), sia dell’elemento soggettivo (dolo o colpa del danneggiante) (Cons. Stato, V, 13 gennaio 2014, n. 63).”
In conclusione, ai fini risarcitori, oltre alla violazione dei termini procedimentali, sono richiesti l’imputabilità della stessa a titolo di dolo o colpa della p.a., il nesso di causalità tra ritardo e danno patito, nonché la dimostrazione del pregiudizio lamentato. Nel caso di specie, il Consiglio di Stato accoglieva l’appello proposto dalla Regione Molise, per la riforma della sentenza 6/11/15 n. 436 (con cui il TAR Molise aveva condannato la suddetta Regione a risarcire i danni da ritardo causati dal superamento dei termini per il rilascio dell’autorizzazione unica di cui all’art. 12 del d.lgs. n. 387/20038) perché non risultavano sufficientemente provati i presupposti essenziali per la configurabilità della responsabilità di cui all’art. 2 bis – L.241/90, ovvero il ritardo nella conclusione del procedimento.
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