Il trust e il fondo patrimoniale: un tentativo di perimetrazione dogmatica

Il trust e il fondo patrimoniale: un tentativo di perimetrazione dogmatica

Con legge 364/1989, è stata ratificata nel nostro ordinamento la Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, contenente la disciplina e riconoscimento del trust, istituto di origine anglosassone, definito all’art. 2 della citata disposizione legislativa come quel “rapporto giuridico creato da una persona, il costituente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico”.

Una delle più vistose problematiche che si stagliavano tra l’astratta previsione legislativa e la concreta operatività di uno strumento sconosciuto al nostro ordinamento, era proprio la difficoltà qualificatoria in cui incorre l’interprete dinanzi a un istituto che presenta commistione tra elementi obbligatori e reali.

Attraverso l’istituto de quo, un soggetto, c.d settlor, trasferisce dei beni a un altro soggetto, c.d trustee, che ne diviene titolare, affinché questi li amministri e controlli nell’interesse di un terzo beneficiario o per altro fine specifico.

Ancorchè, come precisato, sussistano evidenti punti di contatto col negozio fiduciario, quantomeno sotto un profilo squisitamente nozionistico, va tuttavia dato atto di come il trust, rispetto al negozio fiduciario, meglio si presti a offrire un robusto sostrato protettivo agli interessi coinvolti che ne rappresentino la ratio essendi.  Tant’è vero che il trust è opponibile ai terzi, laddove il negozio fiduciario ha mera valenza inter partes.

È bene precisare, preliminarmente, che attraverso la predetta legge si disciplina il c.d trust internazionale — ossia quello costituito da un soggetto straniero rispetto a beni situati in Italia, consentendo a un giudice italiano di risolvere controversie su ciò vertenti — essendo invece stata dibattuta la possibilità di costituire un c.d trust interno, in cui sia il settlor che il trustee siano soggetti italiani relativo a beni situati in Italia. La tesi positiva, che sembra prevalere, è fondata, oltre che sulla constatazione dell’inesistenza di limiti alla facoltà della legge applicabile, anche sul sopravvenire di ulteriori novità normative, quali la legge 51/2006 che ha introdotto l’art. 2654ter, cod. civ., istituendo la possibilità di trascrivere determinati atti di destinazione di beni tra i quali rientrerebbe anche il conferimento di beni in trust.

Ciò nonostante, è stato obiettato come l’istituto del trust contrasterebbe con diverse normative cardine del nostro ordinamento, tra cui gli artt. 2740 e 458 del Codice civile. Ed invero, attraverso l’istituzione di un trust, il settlor potrebbe eludere il principio di responsabilità patrimoniale del debitore di cui all’art 2740, mettendo al riparo i suoi beni da eventuali pretese azionate dai creditori, i quali ne verrebbero inopinatamente pregiudicati, atteso l’effetto segregativo che ne consegue, posto che i beni del trust costituiscono una massa distinta dai patrimoni del settlor e del trustee.

A tale elemento di opinabilità è stato tuttavia obiettato che le parti, attraverso il trust, pongono in essere un atto di autonomia privata, lecito nella misura in cui realizzi un interesse meritevole di tutela per l’ordinamento: pertanto l’illiceità dell’operazione andrebbe ricercata attraverso un’analisi della causa in concreto, giustificazione e sintesi degli interessi perseguiti.

Giova all’uopo segnalare che un recente giurisprudenziale della Suprema Corte  ha, per l’appunto, dichiarato nullo il trust liquidatorio istituito da una società — già in liquidazione — appena prima la dichiarazione di fallimento, siccome tendente a eludere le norme che tutelano le ragioni del ceto creditorio, sottraendo i beni dell’azienda alla procedura concorsuale attraverso il meccanismo del trust (che si presta agli scopi più vari: ad esempio, donandi o solvendi causa, ma anche a scopo protettivo di minori o incapaci).

Pertanto, se ne potrebbe ravvisare una qualche astrattezza causale, essendo di volta in volta onere delle parti giustificare l’operazione patrimoniale — expressio causae — al fine di esternare le ragioni concrete che abbiano sospinto queste a realizzare un siffatto meccanismo negoziale.

Diversamente, il trust interno contrasterebbe con il divieto di patti successori di cui all’art. 458 c.c. anche se, come ritenuto da autorevole dottrina, tale critica viene superata considerando che il trasferimento dei beni e dei diritti facenti capo al settlor si realizza immediatamente, e non a seguito dell’apertura della successione.

Da una disamina della disciplina dettata in materia del trust, si evince come il trustee non sia un rappresentante del beneficiario, poiché nessuna procura gli viene conferita, né un mandatario, in quanto non deve compiere determinati atti giuridici per conto del beneficiario, che di certo non è un mandante. Ed invero, il trustee è sic et simpliciter investito del potere e onerato dell’obbligo di amministrare e gestire i beni del trust — di cui è titolare — secondo i termini impostigli, nell’interesse del beneficiario. Essendo il trustee “onerato dell’obbligo” di controllare e gestire alcuni beni, tale attività può risultare, a seconda della latitudine contenutistica del trust, operazione eccessivamente gravosa per lo stesso, il quale potrebbe pertanto rifiutare tale impegno.

Per determinare la legge applicabile al trust, l’art. 6 della legge 364/89 rinvia a quella scelta del costituente: è altresì necessario, tuttavia, che la scelta verta su una legge che preveda l’istituzione generica del trust, o di quello specifico di cui si tratta, poiché in mancanza l’art. 6 dispone l’applicazione del successivo art. 7, che individua criteri utili a individuare quale legge applicare al trust in questione.

Orbene, un trust riconosciuto come tale ai sensi degli artt. 6 e ss. della legge 364/1989, avrà certamente delle refluenze peculiari sul versante della tutela dei terzi, della segregazione patrimoniale o della rivendicazione dei beni, alcune delle quali peraltro già esposte, e in particolare elencate all’art. 11.

In uno scenario simile, va segnalato che, ai sensi dell’art. 12 della predetta legge, si consente al trustee, attraverso l’iscrizione dei beni del trust nei pubblici registri, di pubblicizzarne l’esistenza, dovendosi pertanto sostenere che l’istituto oggetto di indagine non si connota di certo per uno spiccato rigorismo formale, potendo invero costituirsi anche attraverso scrittura privata. Tuttavia, ove il trust non sia comprovato per iscritto, a questi non potranno applicarsi le norme di cui alla Convenzione dell’Aja, come previsto dall’art. 3, L. 364/89.

Ciò posto, in un quadro così sinteticamente tratteggiato, non sono mancate opinioni tendenti ad avvicinare il trust a un altro istituto disciplinato dal Codice civile, il fondo patrimoniale, attesa una presunta identità di ratio.

A onor del vero, tuttavia, pur non mancando alcune analogie di fondo, sono numerosi e significativi gli elementi di distonia e differenziazione che vanno segnalati: ed infatti, tali istituti, sono entrambi atti di destinazione di beni per uno scopo specifico, che consentono, con modalità e limiti differenti, di mettere al riparo gli stessi, non potendosene disporre liberamente.

Attraverso il genus convenzioni matrimoniali, i coniugi possono regolare i loro rapporti patrimoniali, in modo diverso dal regime legale della comunione di beni.

In particolare, nel fondo patrimoniale di cui agli artt. 167 e ss. c.c, i coniugi destinano e vincolano determinati beni per far fronte ai bisogni della famiglia, dovendosi pertanto cogliere una fondamentale differenza con il trust, in cui invece è l’interesse del terzo beneficiario, e non certamente del trustee — il quale peraltro può anche non accettare di impegnarsi — a spingere il settlor a compiere tale operazione.

Giova peraltro considerare come nel trust — in cui il settlor non è detto sia necessariamente un prossimo congiunto del beneficiario — il beneficiario non può che ricevere vantaggi dal fatto che i beni siano amministrati nel suo esclusivo interesse, e la cui accettazione non è richiesta dalla legge.

Sotto altra prospettiva, anche il fondo patrimoniale viene costituito perché la famiglia ne tragga giovamento, o da un coniuge o da entrambi, nonchè da un terzo anche per atto inter vivos,  ai sensi dell’art. 167, comma 2, c.c, necessitando in tal caso però l’accettazione dei coniugi. A tale specifico riguardo, la dottrina ha rilevato la natura liberale dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale ad opera del terzo.

Ciò che invece accomuna i due istituti è pertanto anche la possibilità di costituzione non solo per atto tra vivi — pur se in tal caso, il fondo patrimoniale deve necessariamente rivestire la forma dell’atto pubblico a pena di nullità, ad onta di quanto già rilevato per la forma del trust — ma anche mortis causa, come si evince dal tenore dell’art. 167, I comma, cc, e dall’art. 2 L. 364/89.

Va segnalato che l’art. 2647 c.c dispone a carico dei coniugi la trascrizione della costituzione del fondo patrimoniale ove abbia ad oggetto beni immobili, diversamente da quanto detto per il trust, in cui invece il trustee ha una mera facoltà di registrare i beni, attribuendo in tal guisa rilevanza esterna all’operazione.

Non si manchi di sottolineare come un trust e un fondo patrimoniale possono anche coesistere relativamente ai medesimi beni, sol che si consideri l’art. 168 c.c., laddove dispone la proprietà dei beni del fondo in favore dei coniugi, salvo diversa pattuizione nell’atto di costituzione: se ne potrebbe dedurre pertanto la possibilità che i coniugi riservino la disponibilità degli stessi ad un terzo, ad esempio attraverso un trust o un usufrutto.

Un importante dato da cogliere attiene la possibilità o meno per i creditori di soddisfarsi sui beni del trust o del fondo patrimoniale. Invero, atteso l’effetto segregativo che consegue all’istituto anglosassone, ossia l’assoluta separazione tra i beni che costituiscono il trust e il patrimonio del trustee, i creditori di questo nessuna pretesa potranno avanzare su tali beni, sempre che, come si è visto,  la costituzione di un trust non sia per il settlor un pretesto per mettere al riparo i beni, creando pregiudizio alla massa dei creditori.

Diversamente è a dirsi per il fondo patrimoniale, posto che l’art. 170 c.c. vieta l’esecuzione sui beni del fondo ove il creditore sia a conoscenza che quel debito era stato contratto per scopi diversi da quelli attinenti i bisogni della famiglia.

Ciò nonostante, attraverso il vaglio degli artt. 162, comma 4  e  2915 del Codice civile, si evince come il fondo patrimoniale, per poter essere opposto a terzi — come vale per tutte le convenzioni matrimoniali — debba essere annotato a margine dell’atto di matrimonio: in tal caso i creditori, sempre che abbiano provveduto a trascrivere il pignoramento in data anteriore rispetto quella dell’annotazione, potranno soddisfarsi sui beni del fondo.

Si nota pertanto come, seppur più elastica rispetto a quella del trust, la disciplina del fondo patrimoniale resti particolarmente rigorosa, attesa l’attenzione che il Legislatore riserva agli interessi che vi sono sottesi.

Da ultimo, va parimenti ravvisata una marcata differenza sul crinale della alienabilità dei beni costituenti il trust o il fondo patrimoniale. Laddove, infatti, l’art. 8 della legge 364/89 riconosce al trustee poteri di disporre dei beni o darli in garanzia (nonchè quello di acquisire nuovi beni, dovendo tuttavia rendere conto della gestione), l’art. 169 c.c., di converso, dispone che tali operazioni non possano compiersi sui beni del fondo patrimoniale se non con il consenso di entrambi i coniugi, nonchè con provvedimento del giudice ove vi siano figli minori.

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Marco Petrigni

Laureato in Giurisprudenza, con tesi in Diritto Costituzionale su "La tutela della concorrenza e il riparto di competenze legislative", relatore Prof.ssa Antonella Sciortino. Nel 2016 ha conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione forense presso la Corte d'Appello di Palermo e il Diploma di Specializzazione nelle Professioni Legali presso l'Università degli Studi Guglielmo Marconi di Roma, con dissertazione in Diritto Civile su "Il danno da nascita indesiderata: legittimazione attiva per il risarcimento del danno - nota di commento a Cass. S.S. U.U., sent. n. 25767/2015".

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