IMMATRICOLAZIONE CON RISERVA: cosa conviene fare dopo?
T.A.R. Roma, Sezione Terza Bis, 20 agosto 2015, n. 10878
a cura di Salvis Juribus
La dichiarazione del difensore di sopravvenuta carenza di interesse del proprio assistito alla decisione del ricorso comporta l’improcedibilità dell’impugnazione, non potendo in tal caso – in omaggio al principio dispositivo – il giudice decidere la controversia nel merito, imponendosi una declaratoria in conformità.
Il Fatto
I ricorrenti impugnavano la graduatoria unica del concorso per l’ammissione ai corsi di laurea in medicina, chirurgia e odontoiatria e protesi dentaria per l’a.a. 2014/2015 nella quale i ricorrenti risultavano collocati oltre l’ultimo posto utile e, quindi, non venivano ammessi ai corsi.
Con ordinanza n. 242 del 16 gennaio 2015 il T.A.R. Roma accoglieva l’istanza cautelare ed ordinava all’amministrazione di disporre l’ammissione con riserva e in soprannumero dei ricorrenti.
Con successiva memoria i ricorrenti rendevano noto di essere stati immatricolati con riserva al corso di laurea in medicina presso le Università di loro interesse, che frequentano regolarmente.
Pertanto, i ricorrenti chiedevano che il ricorso fosse dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza d’interesse, con conseguente effetto di stabilizzazione delle loro posizioni giuridiche.
La decisione
Il Collegio ha dichiarato il ricorso improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse, in quanto “la dichiarazione del difensore di sopravvenuta carenza di interesse del proprio assistito alla decisione del ricorso comporta l’improcedibilità dell’impugnazione, non potendo in tal caso – in omaggio al principio dispositivo – il giudice decidere la controversia nel merito, imponendosi una declaratoria in conformità” (tra le molte, si leggano Cons. Stato, quarta sezione, 15 aprile 2004, n. 3041 e 27 aprile 2004, n. 2551; T.A.R. Lazio, Roma, prima sezione, 2 febbraio 2011, n. 971 e 8 novembre 2010, n. 33224, T.A.R. Lazio, Roma, sezione terza bis, n. 7327 del 12 marzo 2015; T.A.R. Campania, Napoli, sesta sezione, n. 3141 del 18 giugno 2013, n. 3542 del 24 luglio 2012; n. 2008 del 2 maggio 2012; n. 564 del 3 febbraio 2012, e, quarta sezione, n. 22318 del 3 novembre 2010).
Ed invero l’interesse al ricorso, in quanto condizione dell’azione, deve sussistere sia al momento della proposizione del gravame, che al momento della decisione, con conseguente attribuzione al giudice amministrativo del potere di verificare la persistenza della predetta condizione in relazione a ciascuno di tali momenti (cfr. C.d.S., Sez. V, 14 novembre 2006, n. 6689).
Approfondimento
Come appena osservato, in presenza di espressa dichiarazione volta alla sopravvenuta carenza di interesse il Giudice non può che prendere atto della predetta dichiarazione in tal senso formulata dal procuratore del ricorrente, in ordine alla sopravvenuta carenza di interesse alla decisione del proprio assistito e, conseguentemente, dichiarare improcedibile il ricorso.
La figura della sopravvenuta carenza di interesse, di stretta elaborazione giurisprudenziale è accomunata a quella limitrofa, direttamente regolamentata dal legislatore con la norma di cui all’art. 23 comma 7 della legge 1034 del 1971 ed ora inserita nell’art. 35 del codice del processo amministrativo della cessazione della materia del contendere sia per la disciplina, che determina in entrambi i casi l’improcedibilità del ricorso, sia per la tipologia di fatto di origine, che è sempre un ulteriore provvedimento della pubblica amministrazione che interviene nel rapporto in contestazione. Tuttavia le due figure si differenziano tra loro nettamente per la diversa soddisfazione dell’interesse leso. La sopravvenuta carenza di interesse, infatti, opera solo quando il nuovo provvedimento non soddisfa integralmente il ricorrente, determinando una nuova valutazione dell’assetto del rapporto tra la pubblica amministrazione e l’amministrato; al contrario, la cessazione della materia del contendere si determina quando l’operato successivo della parte pubblica si rivela integralmente satisfattivo dell’interesse azionato. ( cfr. Consiglio di Stato, Sezione Quarta, 18 luglio 2012, n. 4193)
Se il difensore avesse formulato l’istanza di declaratoria di cessazione della materia del contendere – nel caso di superamento con profitto degli esami previsti dal corso di laurea – quali sarebbero state le conseguenze?
Ebbene, un primo orientamento, in casi di ammissione con riserva in sovrannumero a corsi di laurea a numero programmato, ha ritenuto applicabile, nella sostanza ancorché non nella forma, il c.d. principio di stabilizzazione sancito in materia di esami di abilitazione professionale dall’art. 4, comma 2 bis, del D.L. 30 giugno 2005 n. 115 (convertito, con modificazioni, dalla legge 17 agosto 2005 n. 168). (cfr. TAR Roma, sez. III bis, 29 dicembre 2014, n. 13145; C.d.S., sez. VI, 6 maggio 2014, n. 2298: col superamento degli esami il candidato dimostra di essere in grado di frequentare il corso per l’ammissione al quale aveva sostenuto il concorso, consolidando l’effettività del titolo alla cui acquisizione erano volte le prove, sicché in tal caso «va … affermato il criterio sostanzialista per il suo effetto di raccordo dimostrativo del dato formale. Ciò attraverso una legittima interpretazione estensiva ispirata ai canoni della ragionevolezza e della logicità»).
Un secondo orientamento sostiene, invece, che la prova di ammissione ai corsi di laurea per le professioni sanitarie non è finalizzata all’accertamento della capacità in sé del concorrente di seguire con maggior o minor profitto il corso di studi (tanto è vero che non è previsto un punteggio minimo di ammissione), ma a selezionare, tra coloro che hanno presentato domanda, i candidati più meritevoli a ricoprire i posti disponibili, graduandoli secondo il merito. Il fatto di aver superato uno o più esami di profitto non dimostra che l’interessato avrebbe avuto diritto a una collocazione poziore nella graduatoria degli aspiranti all’iscrizione, con differenza netta, sul piano strutturale e su quello della consistenza degli interessi pubblici e privati in gioco, rispetto al caso dell’art. 4 cit., volto a sancire l’irreversibilità del conseguimento di un titolo ottenuto pur sempre mediante un nuovo accertamento dell’idoneità del candidato attraverso la ripetizione o nuova valutazione della stessa prova sub iudice. (cfr. T.A.R. Campania – Napoli, Sezione Seconda, 9 luglio 2015, n. 3647)
Da ultimo, lo stesso T.A.R. Roma ha affermato l’inapplicabilità, a rigore, nella fattispecie in esame, del c.d. “principio di stabilizzazione”, di cui all’art. 4, comma 2 bis, del D.L. 115 del 2005, convertito con legge n. 168/2005, secondo cui “Conseguono ad ogni effetto l’abilitazione professionale o il titolo per il quale concorrono i candidati, in possesso dei titoli per partecipare al concorso, che abbiano superato le prove d’esame scritte ed orali previste dal bando, anche se l’ammissione alle medesime o la ripetizione della valutazione da parte della commissione sia stata operata a seguito di provvedimenti giurisdizionali o di autotutela”, benché indubbiamente possa riconoscersi un analogo legittimo affidamento (…) in virtù della posizione conseguita nella graduatoria generale di ammissione al corso di laurea in questione, senza che l’Amministrazione abbia eccepito difficoltà organizzative o l’inadeguatezza della ricorrente, con conseguente acquisizione della posizione ambita. (cfr. T.A.R. Roma, Sezione Terza Bis, 10 marzo 2015, n. 4000)
A voi le conclusioni.
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