Islam, hijab: si può fare l’hostess anche con il velo

Islam, hijab: si può fare l’hostess anche con il velo

Corte d’Appello di Milano, sezione Lavoro, 20 maggio 2016, n. 579

a cura di Giuseppe Di Micco

L’indossare simboli religiosi richiesti dalla confessione di appartenenza, talvolta, serve a dimostrare l’identità stessa della persona che li indossa, nonché ne identifica l’appartenenza, soprattutto in quelle religioni dove ciò è previsto come obbligatorio. E’ il caso dell’Islam.

L’hijab, quale indumento portato dalle donne islamiche che copre tutto il capo lasciando appena scoperto il volto (in pratica gli occhi), è richiesto dallo stesso Corano per le donne musulmane, quale segno identitario di una donna appartenente a quella religione. Dunque, è anche un simbolo di rispetto, volto a preservare la donna da possibili violenze o relazioni adulterine.

Il caso di specie sul quale si è pronunciata la Corte di Appello di Milano, ha riguardato il caso di una donna egiziana di religione musulmana, che era stata esclusa dalla possibilità di partecipare ad una selezione di hostess per volantinaggio durante una fiera milanese, poiché la stessa si sarebbe rifiutata di togliere il velo durante lo svolgimento di tale attività.

Il tribunale di Lodi in primo grado rigetta il ricorso, ritenendo non sussistente alcuna discriminazione diretta o indiretta, in quanto l’esclusione dalla selezione trovava legittima richiesta nel fatto che fossero richieste ragazze aventi caratteristiche di immagine non compatibili con la richiesta di indossare un copricapo, qualunque fosse.

Secondo la ricorrente tale requisito non era per nulla prospettato nell’avviso di selezione, laddove si richiedeva solo la conoscenza della lingua inglese, piede 37, taglia 40/42.

Anzitutto, secondo la Corte di Appello di Milano, ai fini della configurazione di una condotta discriminatoria viene in rilievo il carattere oggettivo della stessa, a prescindere dallo stato psicologico dell’agente. Di sicuro la condotta dell’agenzia è discriminatoria, in quanto ha ristretto la possibilità per la ragazza di accedere a un’occupazione, violando di conseguenza la Direttiva 78 del 2000 che è stata recepita dall’Italia, laddove è previsto nell’accesso al lavoro ed all’occupazione il divieto di discriminazione per motivi religiosi, oltre che personali, di handicap e di età.

Il hijab è un abbigliamento che connota l’appartenenza alla religione musulmana, l’esclusione da un posto di lavoro in ragione del velo costituisce una discriminazione diretta per motivi religiosi, tenuto conto del fatto che nello stesso avviso di selezione il non indossare il velo non era richiesto come requisito essenziale e determinante dello svolgimento della prestazione lavorativa, tale da poterne giustificare l’esclusione.

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Giuseppe Di Micco

Laureato in Giurisprudenza con votazione di 110 e lode, tesi in diritto canonico, relatore prof. Mario Tedeschi. Ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli, mediante una diretta attività di partecipazione alle udienze in tribunale, nonché nello studio dei casi pratici per la redazione di atti giudiziari e pareri. Praticante abilitato, collabora presso studi legali in materia di diritto civile e diritto del lavoro. Dottore di ricerca in diritto canonico ed ecclesiastico presso l’Università degli Studi di Milano, ha approfondito come tema di ricerca il problema della consumazione del matrimonio nei diritti religiosi (diritto ebraico, canonico, ed islamico). Collaboratore alle cattedre di diritto ecclesiastico, diritto canonico, diritti confessionali e storia e sistemi dei rapporti tra Stato e Chiesa, del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli. Collabora attivamente anche presso le strutture ecclesiali, in particolare negli ambiti liturgici e della formazione giovanile.

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