La proprietà tra limitazioni privatistiche e pubblicistiche: diritto assoluto o diritto “pieno”?
ABSTRACT
L’articolo si prefigge, dopo un breve excursus storico sulla proprietà, pre- e post- costituzionale, di offrire al lettore un’analisi del nuovo assetto del diritto dominicale. Ciò in particolare alla luce delle molteplici limitazioni che rilevano nei rapporti giuridici orizzontali (tra dominus e terzo privato), così come nei rapporti verticali (tra dominus e amministrazione pubblica).
Indi, posta la funzionalizzazione sociale che del diritto in analisi si prefigura in costituzione (art 43 Cost.) e che giustifica le richiamate limitazioni, con il seguente elaborato si tenta di chiarire se il diritto dominicale stesso sia ancora da considerarsi “assoluto” o soltanto “pieno”.
L’articolo, al fine di rispondere al suindicato quesito ripercorre le tappe fondamentali in tema di abuso del diritto, a partire dall’interpretazione del’art 833 cc (atti d’emulazione) per giungere al tema della c.d. proprietà conformata.
Infine l’analisi della questione giuridica centrale è arricchita da molteplici riferimenti ai rimedi processuali esperibili dal proprietario nell’ipotesi di illegittimo sconfinamento dei limiti legali al diritto dominicale.
La proprietà, statuisce l’art 832 cc, è il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico.
Col passaggio dalla nozione di diritto di proprietà offerta dal codice del 1865 a quella contenuta nel codice vigente si è assistito ad un fenomeno di “mutazione genetica” del contenuto del diritto in analisi.
Il codice civile del 1865, risentendo maggiormente rispetto a quello vigente degli influssi derivanti dalla codificazione di matrice napoleonica, offriva una nozione del diritto dominicale spiccatamente liberale e indirizzata a favorire la visione individualista della società.
Il codice civile emanato all’indomani dell’unificazione del Regno d’Italia si caratterizzava per privilegiare un’accezione del diritto di proprietà rivolta al soddisfacimento delle istanze provenienti dalla classe borghese, la quale rivendicava un diritto assoluto e quindi tendenzialmente privo di limiti.
Per intendere appieno la portata del diritto di proprietà in quel periodo storico si può riportare qui il pensiero di Portalis che, separando in due distinti compartimenti stagni la proprietà e il Regno, affermava che il primo spettava in via esclusiva al cittadino, il secondo al sovrano.
Conseguentemente si considerava inammissibile qualsiasi forma di ingerenza di una delle di una delle due entità soggettive nell’ambito di appartenenza spettante all’altra.
Come è possibile desumere dalla nozione codicistica di proprietà, richiamata all’inizio e contenuta nel codice vigente, il diritto ha perso quella sua accezione prettamente liberal – individualistica per approdare ad una nuova e rinnovata matrice, sotto il profilo teleologico, sociale.
Gli indici da cui si desume questa soluzione di continuità col passato sono il riferimento alla “pienezza”, anzichè alla “’assolutezza” come era previsto nel codice previgente, e soprattutto il richiamo ai “limiti e all’osservanza degli obblighi dell’ordinamento giuridico” in contrapposizione allo “uso vietato” a cui faceva riferimento il codice del 1865.
Con particolare riferimento al rilevo che l’attuale codice civile attribuisce ai limiti imposti dall’ordinamento giuridico si comprende come rispetto al passato la proprietà non è più un diritto “assoluto”, bensì un diritto il cui esercizio “pieno” delle facoltà è limitato da vincoli posti dalla legge, vincoli che, a differenza del passato, non possono più considerarsi come eccezionali, bensì la regola.
La nuova veste del diritto di proprietà, quale diritto limitato, si spiega aderendo ad un’ottica del diritto dominicale teleologicamente indirizzato alla tutela dell’interesse generale e non solo alla piena estrinsecazione dell’individuo che ne è titolare.
Autorevole dottrina ha a tal proposito sostenuto come non possa più parlarsi di un’unica proprietà, bensì “delle proprietà”. Secondo i sostenitori di questa intuizione dogmatica esisterebbero tanti diritti di proprietà quante sono le categorie di beni. Alcuni beni, a secondo la loro destinazione economica, sono sottoposti a discipline differenti e ciò al fine di trarre dagli stessi, nel modo migliore, la funzione sociale. Esempi di ciò sono la proprietà fondiaria e quella rurale che sono sottoposte a discipline diverse posta la loro differente destinazione economica e sociale.
La funzionalizzazione sociale che ha assunto il diritto di proprietà è confermata dall’adozione della Costituzione del 1948 e in particolare dal contenuto dell’art 42 della stessa.
L’art 42 Cost, offrendo il riconoscimento più alto al diritto di proprietà, attribuisce alla legge ordinaria il compito di regolarne le modalità di acquisto, di godimento e limiti, il tutto con lo scopo di assicurane la funzione sociale.
Conseguentemente sia dal codice, sia dalla Costituzione è ormai pacifico che la nuova veste del diritto di proprietà non è più quella di un diritto della persona e insuscettibile di limitazioni (se non in casi eccezionali) ma quella di un diritto orientato alla realizzazione della funzione sociale.
Il precedente assunto è dimostrato da un argomento sistematico; infatti l’art 42 della Costituzione, che riconosce il diritto di proprietà, è contenuto nel titolo della Carta fondamentale dedicato ai rapporti economici e non anche in quello dei rapporti civili.
Chiarita quale sia l’accezione del diritto di proprietà, alla luce dell’interpretazione dell’art 832 cc e dell’art 42 della Costituzione, appare più immediato per lo studioso comprendere quale debba essere il ruolo, nel sistema codicistico e più in generale ordinamentale, da attribuire all’art 833 cc, rubricato “atti d’emulazione”.
L’art 833 cc vieta gli atti d’emulazione o emulativi, che dir si voglia, ossia gli atti che il proprietario pone in essere con lo scopo unico di nuocere o recare molestia ad altri.
Il divieto di atti emulativi di cui all’art 833 cc non trovava un suo corrispondente nel codice del 1865 e ciò è chiaro sulla base di quanto si è prima detto. Il codice previgente tutelava in modo assoluto e illimitato il diritto dominicale anche quando fosse esercitato in modo puramente egoistico e col solo limite dell’uso vietato, per tali ragioni non vi erano motivi per limitare gli atti emulativi, a meno che non si fossero tradotti in un danno per chi li subisse.
Le ragioni che oggi giustificano l’art 833 cc e quindi il divieto di atti emulativi risiedono nella funzione sociale che deve informare la disciplina del diritto di proprietà e il suo concreto esercizio.
Ogni forma di esercizio contraria alla realizzazione della funzione sociale, poiché esclusivamente diretta ad arrecare molestia al terzo non può essere tutelata dall’ordinamento. In altre parole il proprietario è tutelato sino a quando l’esercizio del suo diritto possa trovare giustificazione in un interesse più generale.
L’atto emulativo è quello, secondo una prima tesi c.d. soggettivista, posto in essere dal dominus e il cui il movente psicologico coincide con l’animus nocendi, ossia con l’intenzione di arrecare molestia ad altri.
Un altro orientamento, al contrario, sostiene che non sia sufficiente l’elemento psicologico, il quale, se non si traduce in fatti che siano concretamente molesti o nocivi per un terzo, resta solo intenzione.
La teoria oggettiva sostiene quindi di effettuare un accertamento che abbia ad oggetto, da un lato l’interesse perseguito dal proprietario che pone in essere l’atto e dall’altro l’interesse contrario di chi lo subisce.
Se sulla base di un bilanciamento tra gli interessi contrapposti si accerti che nell’atto del proprietario residui un margine di utilità, l’atto non potrà considerarsi emulativo e non sarà possibile inibirlo senza limitare ingiustificatamente il diritto dominicale.
Al contrario la carenza assoluta d’interesse nella condotta del dominus ne giustifica la qualificazione in termini di atto emulativo.
L’ordinamento vieta tale ultimo atto perchè privo di utilitas e poichè puramente egoistico e nocivo.
Il divieto degli atti emulativi di cui all’art 833 cc in altre parole sanziona l’uso abusivo del diritto di proprietà, ossia l’uso contrario alla funzione per cui lo stesso diritto è riconosciuto dall’ordinamento.
Essendo la funzione del diritto dominicale prima di tutto, sociale, un uso egoistico rectius emulativo si pone in contrasto con tale fine.
L’art 833 cc è considerato, insieme ad altri molteplici indici normativi presenti sia nel codice civile che nella legge speciale, la riprova che il fenomeno giuridico del divieto di abuso del diritto costituisce la regola che informa e penetra nei vari istituti del diritto civile.
La conferma del precedente assunto è data a titolo esemplificativo dall’art 330 cc in materia di abuso della responsabilità genitoriale, dall’art 2793 cc in materia di pegno e infine dall’art 9 della L.192 del 1998 in tema di contratto di subfornitura che vieta l’abuso di dipendenza economica.
L’abuso del diritto ricorre ove nell’esercizio della situazione giuridica soggettiva positiva il suo titolare persegua interessi diversi, se non addirittura opposti rispetto a quelli per cui l’ordinamento la riconosce.
Ritornando agli atti emulativi, quale forma di abuso del diritto di proprietà, è possibile rintracciare il suo fondamento costituzionale proprio nell’art 42 della Cost che attribuisce al legislatore, nel riconoscere il diritto dominicale, il compito di individuare i limiti allo stesso diritto allo scopo di perseguire la funzione sociale.
I limiti alla proprietà sono molteplici e tra questi certamente vi rientrano gli atti emulativi di cui all’art 833 cc.
In particolare è possibile qualificare gli atti emulativi quale ipotesi paradigmatica di limite privatistico al diritto di proprietà, ossia limite che si riscontra nei rapporti orizzontali e cioè tra privati, ma pur sempre in un’ottica di perseguimento della funzione sociale.
Contrapposti ai limiti privati che, ex art 42 Cost possono essere apposti al diritto di proprietà dal legislatore, vi sono i limiti pubblici. Questi sono quelli che rilevano, al contrario dei primi, nei rapporti verticali, ossia tra privato e Stato (nella sua accezione lata).
Un esempio di limite pubblico al diritto di proprietà, sempre in un’ottica di perseguimento della funzione sociale, è la disciplina posta dagli strumenti di regolamentazione edilizia, in particolare lo sono la legge urbanistica e i piani regolatori generali.
Tali strumenti hanno l’effetto di delineare un proprietà conformata, ossia vincolata. La legge urbanistica anche se in via generale e astratta mira a pianificare l’evoluzione edilizia e l’estensione dell’aggregato urbano in un’ottica di una corretta e regolamentata espansione del territorio. Il tutto ponendo come stella polare la funzione sociale, in particolare i vari interessi, storici, culturali, ambientali che volta per volta entrano in gioco.
E’ per tali motivi che la legge giustifica limitazioni di edificabilità o di destinazione d’uso dei fondi privati con l’effetto di vincolare il pieno esercizio del diritto dominicale pur sempre nel perseguire la funzione sociale.
La proprietà conformata è quindi una proprietà limitata dall’interesse pubblico; un esercizio contrario ai vincoli di destinazione d’uso o di edificabilità della proprietà, da parte del dominus si traduce, anche in questa ipotesi, in abuso del diritto.
A questo punto occorre lumeggiare sugli specifici rimedi approntati dall’ordinamento al fine di inibire o più in generale contrastare l’abuso del diritto di proprietà, sia quando questo travalichi i limiti privati, sia allorchè oltrepassi quelli pubblici.
Con riferimento ai limiti privati alla proprietà, il primo oggetto d’indagine sono i rimedi a cui può fare ricorso il privato che intenda inibire la condotta altrui di abuso del diritto; in particolare la condotta del proprietario che eserciti il proprio diritto al di là dei limiti e delle funzioni per cui gli è attribuito con la conseguenza di confliggere col diritto di proprietà altrui.
In questa ultima ipotesi si inseriscono gli atti emulativi, gli atti che non hanno altro fine se non quello di arrecare molestia ad altri.
Il proprietario che subisca da un altro soggetto una molestia, ove quest’ultimo abusi del diritto di dominicale di cui è titolare, è legittimato ad esperire il rimedio di cui all’art 949 co. II cc denominato azione negatoria.
In particolare si tratta di un’azione reale, ossia a tutela della proprietà e volta ad ottenere una pronuncia giudiziale che inibisca la condotta emulativa del proprietario.
In particolare il proprietario è tutelato nel proprio diritto reale da un’azione volta a fermare la condotta di altro dominus che eserciti la sua posizione soggettiva dominicale per arrecare molestia a chi agisce, abusando del suo diritto.
A fianco dell’azione reale di cui all’art 948 cc il proprietario,“vittima” della condotta abusiva altrui, ove oltre alla mera molestia subisca anche un vero e proprio danno è legittimato ad esercitare anche un’azione personale di risarcimento del danno ex art 2043 cc (così come stabilito dal comma II dell’art 948 cc).
La condotta abusiva di molestia, infatti, non necessariamente deve considerarsi illecita ai sensi dell’art 2043 cc.
Da un diverso angolo di visuale, ove la condotta di abuso del diritto di proprietà si manifesti nel travalicamento non anche di limiti privati alla stessa, bensì di limiti pubblici, che trovano terreno fertile nell’ambito della disciplina urbanistica e di regolamentazione del territorio, come d’altronde abbiamo avuto modo di vedere, i rimedi all’abuso del diritto, o comunque alla violazione di questi limiti, sono anche essi pubblici.
In particolare posta la spiccata rilevanza pubblica e in particolare verticalistica delle relazioni soggettive emergenti in questi abusi, la tutela processuale è azionabile innanzi al giudice amministrativo, trattandosi di interessi legittimi e non di diritti soggettivi.
Limiti all’esercizio del diritto dominicale di stampo pubblicistico si rintracciano nella legislazione urbanistica e in particolare nel TU sull’edilizia D.P.R. N 380 del 2001.
La normativa richiamata disciplina lo strumento del permesso di costruire, già licenza edilizia, condizione all’esercizio dello ius aedificandi da parte del proprietario del fondo.
Il permesso di costruire è un atto autorizzativo con cui la pubblica amministrazione, accertato il ricorre dei presupposti allo sfruttamento edilizio del fondo sulla base di quanto fissato dagli strumenti urbanistici, elimina il vincolo al libero esercizio del diritto dominicale.
E’ chiaro che in questa ipotesi la pubblica amministrazione esercita un potere di controllo e di legalità volto a garantire il rispetto della legislazione di pianificazione urbanistica e volta alla tutela dell’interesse generale.
Il diritto di proprietà di trova ad essere vincolato dalla legge, in particolare il proprietario è vincolato nel libero godimento del suo diritto con lo scopo di privilegiare la funzione sociale.
Il permesso di costruire illegittimo, poiché contrario ai vincoli posti dalla legge, dai regolamenti o dalle prescrizioni poste dagli strumenti urbanistici, è suscettibile di annullamento mediante riscorso al giudice amministrativo in forza della D.lgs n 104 del 2010.
In particolare i soggetti portatori di un interesse legittimo oppositivo al permesso di costruire, sono interessati ad ottenere una pronuncia che, accertato il vizio di legittimità del provvedimento amministrativo, annulli l’autorizzazione.
L’azione di annullamento di cui all’art. 29 della legge sul processo amministrativo costituisce lo strumento privilegiato e attraverso il quale il privato interessato possa ottenere l’accertamento del vizio del provvedimento che legittimi un abuso.
Il rimedio in commento può, pur se indirettamente, considerarsi uno strumento per combattere forme di utilizzazione abusiva del diritto di proprietà in presenza di provvedenti autorizzativi illegittimi.
Un discorso analogo può farsi in tema di attività commerciale ove questa per essere esercitata richieda interventi che incidano sulla modalità di utilizzo del territorio.
In particolare il d.lgs. n 112 del 1998 nel conferire le funzione amministrative in materia di attività produttive agli enti territoriali minori ha dato vita ad un opera di semplificazione legislativa al fine di agevolare il mercato in un’ottica di spinta propulsiva allo sviluppo economico.
In particolare l’art 25 del decreto appena citato nel regolare i procedimenti autorizzativi in materia di attività produttive, se da un lato ha semplificato le procedure stesse, dall’altro ha inteso garantire il rispetto degli strumenti urbanistici.
L’art 25 del d.lgs 112 del 1998 alla lettera G ha individuato nella conferenza di servizi lo strumento privilegiato per contemperare l’interesse alla celerità con quello al rispetto dei regolamenti edilizi. Il legislatore senza rinunciare a garantire che lo sfruttamento del fondo per attività commerciali si svolga nel rispetto dei limiti pubblici posti all’utilizzo del territorio ha però velocizzato i procedimenti per l’ottenimento dei provvedimenti di autorizzazione (permesso di costruire) attraverso la conferenza dei servizi.
Anche in ambito di utilizzo del territorio e quindi di esercizio del diritto dominicale per lo sfruttamento produttivo e commerciale non mancano i limiti posti a tutela della funzione sociale della proprietà.
Avverso quindi i provvedimenti illegittimi e contrari all’utilizzo funzionale della proprietà è possibile agire in giudizio attraverso l’azione di annullamento di cui all’ art 29 della legge sul processo amministrativo.
Infine, come è possibile ricavare dai molteplici limiti, sia privatistici che di origine pubblicistica, che hanno di fatto “rimodellato” il concetto di proprietà, la stessa oggi assume una “veste” diversa da quella del passato e che soltanto qualche decennio fa non sarebbe stata mai messa in discussione.
Solo oggi quindi, alla luce della Costituzione del 1948, alle molteplici novità normative e all’attenta evoluzione giurisprudenziale e dottrinale compiutasi negli ultimi anni, Il riferimento alla pienezza del vigente codice civile al diritto di proprietà, in contrapposizione all’assolutezza del codice civile del 1865, assume un diverso valore.
E’ chiaro quindi come al quesito iniziale, da cui ci siamo mossi per la trattazione del tema in analisi, la risposta da offrire è quella secondo cui oggi non possa più parlarsi di un diritto di proprietà assoluto.
Oggi, infatti, l’assetto pluralistico del nostro ordinamento e l’abbandono della matrice liberale impongono una nuova nomenclatura allo studioso; indi ove si disserti di diritto di proprietà dovrà parlarsene in termini di diritto “pieno” e non più, come un tempo “assoluto”.
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