La sentenza straniera di divorzio è riconosciuta anche se in Italia pende ancora giudizio di separazione

La sentenza straniera di divorzio è riconosciuta anche se in Italia pende ancora giudizio di separazione

Commento a Cass. Civ. sent. 1/12/2016, n. 24542

Con la sentenza del 01/12/2016 , n. 24542, la Cassazione Civile si è occupata di un caso particolarmente controverso, relativo al riconoscimento in Italia di una sentenza di divorzio pronunciata in Albania, laddove nel nostro Paese pendeva ancora un giudizio di separazione personale.

Il caso. Nel 2010 la moglie chiedeva al Tribunale di Pistoia la separazione personale dal marito, oltreché l’affidamento condiviso dei figli e assegnazione della casa coniugale. Il matrimonio era stato celebrato in Albania, ove entrambi i coniugi mantenevano ancora la residenza. Il marito, quattro mesi dopo dalla richiesta di separazione in Italia avanzata dalla moglie, chiedeva in Albania la pronuncia del divorzio. In sede di giudizio italiano, il marito stesso opponeva l’applicazione nella specie della legge nazionale albanese che non prevedeva l’istituto della separazione. Interveniva intanto in Albania il provvedimento di divorzio, e dunque il Tribunale di Pistoia adito accertava incidentalmente che detta sentenza poteva essere riconosciuta in Italia e dichiarava la cessazione della materia del contendere in ordine al giudizio separativo.

Proposto appello da parte della moglie, la sentenza del tribunale emessa in primo grado veniva riformata in applicazione della l. n. 218 del 1995, art. 64 lett. f), non essendo previsto l’istituto della separazione nell’ordinamento albanese. Nello specifico,la norma menzionata prevede che la sentenza straniera possa essere riconosciuta in Italia se non ci sia stato un processo pendente davanti al giudice italiano per il medesimo oggetto e tra le stesse parti che abbia avuto inizio prima del processo straniero: più precisamente, secondo la Corte d’Appello, poiché il procedimento di divorzio era stato instaurato successivamente a quello per separazione, non poteva essere riconosciuta l’efficacia della pronuncia albanese.

La corte d’Appello affermava inoltre la giurisdizione del giudice italiano ex art. 31co.2 della stessa legge, in quanto in Italia era stata prevalentemente localizzata la vita matrimoniale, ed inoltre in Albania non è previsto, come già rilevato, l’istituto della separazione.

Avverso tale pronuncia, il marito promuoveva ricorso per Cassazione.

La sentenza. La normativa esaminata dagli ermellini al fine di pronunciare la sentenza in commento, è stata la l. 218/1995, in tema di diritto internazionale privato.

Più precisamente, la Suprema Corte ha analizzato l’art. 31co.1 della suddetta legge, il quale stabilisce che la separazione personale e lo scioglimento del matrimonio sono regolati dalla legge nazionale comune dei coniugi al momento della domanda di separazione o di scioglimento del matrimonio; in mancanza si applica la legge dello Stato nel quale la vita matrimoniale risulta prevalentemente localizzata. In assenza di una normativa straniera relativa alla separazione personale o alo scioglimento del matrimonio, secondo quanto stabilito dal II comma dello stesso articolo, dovrà applicarsi la legge italiana.

La Cassazione ha correttamente osservato che le parti sono incontestatamente cittadini albanesi ed hanno contratto matrimonio in Albania, e pertanto la legge nazionale comune delle parti, ai sensi dell’art. 31 co.1 sopra richiamato, deve ritenersi quella albanese.

La Corte non ha pertanto ritenuto di dover dare operatività al secondo comma dell’art.31, in ragione del fatto che non può parlarsi, in questo caso, di una “mancanza” di una legge nazionale comune regolativa del rapporto e del suo scioglimento tale da giustificare una sussidiarietà della normativa nazionale.

Tuttavia, per la definitiva esclusione dell’applicazione del suddetto secondo comma, gli ermellini hanno fornito un’attenta ricostruzione interpretativa della norma in esame, tale da fugare ogni dubbio circa la sua corretta interpretazione.

Più precisamente, secondo la Suprema Corte, la ratio dell’art.31 co.2 della l.218/1995,  risiede nell’evitare l’applicazione di leggi straniere che non prevedono istituti volti a recidere il vincolo matrimoniale o ne limitano, in modo ingiustificatamente discriminatorio, l’esercizio soltanto ad uno dei due coniugi. Pertanto, seppure non sono mancante le letture formalistiche in ragione delle quali dovrebbe applicarsi la legge italiana anche quando risultasse mancante nell’ordinamento straniero solo uno dei due istituti relativi allo scioglimento del vincolo ( quindi, qualora mancasse anche solo la separazione o solo il divorzio, riconosciuti entrambi nel nostro ordinamento), si è ormai consolidata un’interpretazione contraria, fondata invero sulla ratio che la Suprema Corte definisce “antidiscriminatoria e razionalizzatrice” del comma 2 dell’art. 31; secondo tale differente orientamento l’applicazione residuale della legge italiana potrà verificarsi solo laddove non esista alcuna forma di dissoluzione del legame matrimoniale o qualora vi siano istituti contrastanti con il principio di uguaglianza tra i coniugi.

Ferma l’applicazione della legge familiare albanese, la Cassazione ha ritenuto opportuno analizzare anche l’art. 64 lett f) della l.218/1995, addotta dalla Corte d’Appello a fondamento della propria sentenza di riforma, secondo la quale se pende davanti al giudice italiano un processo con il medesimo oggetto e tra le stesse parti che abbia avuto inizio prima del processo straniero, non può essere riconosciuta la pronuncia straniera in Italia.

La corte d’Appello ha quindi ritenuto identità tanto del petitum quanto delle parti tra i due giudizi pendenti nei due differenti stati.

In realtà, nei giudizi de quibus sussistono solo l’identità delle parti e la prevenzione di un giudizio rispetto all’altro ( nello specifico del procedimento italiano di separazione rispetto a quello albanese di divorzio), ma, erroneamente la Corte a quo ha ritenuto che tra i due giudizi vi fosse anche un’identità di petitum tale da giustificare la giurisdizione italiana, competente per prevenzione temporale ex art. 64 lett f).

Infatti, il giudizio di separazione non ha lo stesso oggetto di quello di divorzio,, essendo il primo una “scansione necessaria del complessivo processo di dissoluzione del vincolo, inidonea a determinare la caducazione dello status coniugale, realizzabile soltanto con il secondo”.

Come logicamente deduce la Corte, quand’anche dalla separazione potrebbe pur non conseguire il divorzio, quest’ultimo è invece sempre naturale conseguenza della separazione personale dei coniugi.

Il criterio della prevenzione temporale, pertanto, non può ritenersi operativo nella fattispecie de qua, in quanto i due giudizi non devono ritenersi oggettivamente assimilabili.

La massima. Da qui correttamente può individuarsi la massima della sentenza, per cui “Pur essendo stato introdotto dopo l’instaurazione del giudizio separativo in Italia, il giudizio di divorzio svolto in Albania, secondo la legge nazionale dei coniugi, una volta pronunciato, può essere riconosciuto in Italia, anche in pendenza del giudizio separativo, non potendosi applicare la condizione ostativa della litispendenza L. n. 218 del 1995, ex art. 64, lett. f).”

Alla luce di tale affermazione, la Cassazione ha cassato con rinvio per le ulteriori condizioni di riconoscimento della sentenza ed in particolare il parametro dell’ordine pubblico.

L’analisi degli istituti giuridici. Alla luce di quanto finora esposto in relazione alla decisione della Corte, pare opportuno soffermarsi sugli istituti giuridici posti a fondamento della pronuncia per delinearli, seppur brevemente, in maniera più approfondita.

Il riconoscimento della sentenza straniera di divorzio nell’ordinamento italiano.  La sentenza qui esaminata, seppur basata su premesse logiche per nulla innovative, segna un nuovo  e tutt’altro che scontato tassello nel variegato panorama giurisprudenziale in tema di riconoscimento della sentenza straniera nell’ordinamento italiano.

Come è noto, la l. 218/95, in tema di diritto internazionale privato, è un punto di riferimento fondamentale. Prima dell’entrata in vigore di tale normativa, infatti, le pronunce di scioglimento del vincolo matrimoniale emesse da Tribunali e Corti stranieri avevano efficacia nel territorio italiano solamente a seguito della delibazione della Corte d’Appello, che le riconosceva come valide attraverso l’emissione di una sentenza che veniva successivamente trascritta nei registri dello stato civile del Comune competente.

La legge 218/1995, in conformità al principio della circolazione internazionale dei provvedimenti giudiziari, con la legge n. 218, ha invece semplificato l’iter, consentendo il riconoscimento automatico delle sentenze e dei provvedimenti stranieri che possiedono determinati requisiti.

Alle Corti d’ Appello italiane, quindi, è rimasta una competenza residuale in ordine ai requisiti di riconoscimento in caso di mancata ottemperanza o di contestazione attraverso un’azione di mero accertamento, con riferimento specifico all’art. 64 della suddetta legge, che indica quindi tutte le ipotesi di riconoscimento delle sentenze straniere. Più precisamente, secondo la norma in esame, “ La sentenza straniera è riconosciuta in Italia senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento quando:

(…) 

f) non pende un processo davanti a un giudice italiano per il medesimo oggetto e fra le stesse parti, che abbia avuto inizio prima del processo straniero;

g) le sue disposizioni non producono effetti contrari all’ordine pubblico.”

In ragione a quanto ci interessa in questa sede, la Cassazione, con la sentenza sopra menzionata, ha evidenziato la sussistenza dei requisiti di cui all’art. 64 per il riconoscimento automatico della sentenza albanese di divorzio, soffermandosi più puntualmente sulla lettera f) che in sede di merito era stato il punctum dolens dell’interpretazione: il giudice di primo grado non l’aveva infatti ritenuto sussistente, mentre, al contrario la Corte d’Appello l’aveva ritenuto operativo.

Con riguardo all’ordine pubblico, questo non è quindi stato analizzato dalla Suprema Corte per consentire un pieno giudizio nel merito alla Corte d’Appello ad quem.

La differenza di oggetto tra il giudizio di separazione e il giudizio di divorzio.

Nella fattispecie in esame, l’aspetto che maggiormente risulta decisivo per l’articolazione della sentenza, è la differenza sostanziale tra i giudizi di separazione e divorzio.

Nell’ipotesi de qua, in effetti, l’identità delle parti è fuori discussione, come sempre accade in relazione ai due giudizi, così come è pacifico che il rapporto dedotto in entrambi i giudizi è il vincolo matrimoniale.

L’aspetto che muta al punto da risultare determinante, è appunto la differenza di petitum e di causa petendi nel giudizio di separazione e in quello di divorzio, con conseguente impossibilità di sovrapposizione dei due procedimenti, quand’anche il secondo si sia instaurato successivamente al primo, per giunta in altro Paese, proprio perché, non potendo parlarsi di due giudizi identici, non può parlarsi del requisito della litispendenza di cui al sopra menzionato art. 64 lett f).

E’ opportuna a questo punto un’analisi più approfondita delle fattispecie.

La separazione é regolata dal Codice Civile ( artt. 150ss), e può essere legale (consensuale o giudiziale) o “di fatto”, cioè conseguente all’allontanamento di uno dei coniugi per volontà unilaterale, o per accordo, ma senza l’intervento di un Giudice e senza alcun valore sul piano legale.
Nella separazione personale di natura legale, la parte ricorrente (o le parti) chiedono sostanzialmente l’accertamento dell’irrecuperabilità del loro rapporto coniugale: tale accertamento è conditio necessaria per la richiesta del successivo divorzio, che altro non è se non lo scioglimento definitivo del vincolo.

Con il divorzio (introdotto e disciplinato con la legge 01.12.1970 n. 898) viene invece pronunciato lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili (tale differenza rileva in ragione del rito scelto per la celebrazione del matrimonio, civile nel primo caso, concordatario nel secondo). La cessazione del matrimonio produce effetti dal momento della sentenza di divorzio, senza che essa determini il venir meno dei rapporti stabiliti in costanza del vincolo matrimoniale. Solo a seguito di divorzio il coniuge può pervenire a nuove nozze.

Differenza ulteriore rileva con riferimento alle statuizione accessorie di carattere economico: se infatti a seguito della separazione si può richiedere l’assegno di mantenimento a carico di un coniuge in favore di un altro, la sentenza di divorzio prevede invece la corresponsione di un eventuale assegno divorzile: le premesse definitorie e classificatorie delle due fattispecie sono radicalmente diverse.

L’assegno divorzile è previsto dall’art. 5 co.6 della l. 898/1970, il quale prevede che  “il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive.”

L’assegno di mantenimento é invece previsto dall’art. 156 c.c., secondo cui “Il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri.”

Se dunque l’assegno di mantenimento è necessario a causa del dovere di solidarietà materiale e morale stabilito dalla legge a carico degli sposi, dal momento che, con la separazione, il vincolo matrimoniale non viene sciolto, ma solo sospeso,  l’assegno divorzile ha invece valore assistenziale, ossia permette al coniuge privo dei mezzi di adeguarsi alle nuove condizioni di vita che derivano alla disgregazione del nucleo familiare, consentendogli dunque di mantenere lo stesso tenore di vita avuto in costanza di matrimonio.

Una volta svolto questo breve excursus definitorio, la differenza tra i due istituti, così come evidenziata dalla Suprema Corte nella pronuncia de qua, dovrebbe invero risultare immediata.

In particolare, le due richieste derivano, giuridicamente, da due esigenze differenti. Il provvedimento sul vincolo proprio del giudizio di separazione personale incide sui diritti e doveri conseguenti al matrimonio, come rilevabile dalla disposizione dell’art. 146 co.2 c.c. modificando il titolo ed il contenuto dei doveri di assistenza propri della solidarietà coniugale. Gli effetti della statuizione separativa non determinano però, lo ripetiamo, lo scioglimento del vincolo, per il quale è invece necessaria la successiva pronuncia di divorzio, come già detto, necessaria ma non obbligatoria.

Quest’ultima travolge il giudicato relativo alla separazione e, qualora abbia ad oggetto provvedimenti accessori ulteriori, quelli definiti con giudizio divorzile si sostituiscono integralmente a quelli definiti col precedente giudizio separativo. Ne consegue la non assimilabilità della causa petendi, del petitum e degli effetti delle due pronunce sia se limitate al vincolo sia se riguardanti anche i provvedimenti economici. Pertanto non può effettuarsi alcuna comparazione tra le sentenze, tale da potersi prefigurare l’ipotesi di un contrasto tra giudicati.

I precedenti. Tale ratio, seguita dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, in realtà non si mostra nuova nel panorama giurisprudenziale di legittimità, in quanto la stessa Suprema Corte, con la recente sentenza del 27 ottobre 2016, n.21741, aveva espressamente affermato tale principio in una massima esattamente ripresa dall’attuale pronuncia, seppure con riferimento ad una situazione parzialmente differente.

Ancora, così come richiamato nella stessa sentenza in commento, il rinvio è espressamente rivolto anche alla sentenza della Cassazione civile, sez. I, 25/07/2006, n. 16978 che, seppur più timidamente, si esprimeva positivamente in ordine al “riconoscimento di una pronuncia di divorzio non preceduta da separazione anche in pendenza del termine previsto ex lege per poter procedere allo scioglimento definitivo del vincolo, purchè la pronuncia estera contenga un accertamento di fatto relativo all’ irreparabile venir meno della comunione di vita coniugale”.

Conclusione. Può quindi concludersi che la Suprema Corte, più che condivisibilmente, ha segnato un passo di notevolissima importanza per il riconoscimento in Italia di sentenze di divorzio, ancorché successive all’instaurazione di un giudizio italiano di separazione, manifestando chiaramente la differenza ontologica tra i due giudizi, forse evidente sul piano astratto, ma sicuramente più complessa da individuare sul piano applicativo.

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Loredana Ionchese

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