La tutela della proprietà intellettuale e i siti web aziendali
Nell’era della c.d. “economia di internet”, sempre più imprese ricorrono alle I.C.T. (Information and Communication Technologies) per organizzare e ridisegnare la propria attività produttiva[1].
In effetti, secondo un recente report dell’ISTAT, la percentuale di imprese on-line è aumentata[2]. Ciò si spiega facilmente in ragione del fatto che i vantaggi che le piccole e medie imprese ricavano dalla loro presenza in internet sono molteplici. In primo luogo, esse sono più competitive, in quanto sono messe nelle condizioni di aumentare il proprio fatturato e di raggiungere un mercato più internazionale[3]. In secondo luogo, una PMI on-line ha modo, attraverso specifici strumenti, di monitorare costantemente le imprese concorrenti, di far conoscere il proprio brand, di valorizzare i propri prodotti e servizi, di attivare un nuovo canale di vendita (il c.d. “e-commerce”), di reperire nuovi contatti, nonché di fidelizzare i clienti già esistenti[4]. D’altro canto, tra i maggiori utilizzi della rete da parte degli internauti, vi è la comparazione di prezzi e prodotti, nonché la ricerca di opinioni e idee su servizi o beni di consumo[5].
In questa cornice, dunque, si comprende come la tutela della proprietà intellettuale su internet, soprattutto con specifico riferimento ai siti web aziendali, rivesta un ruolo più che mai centrale ed attuale.
Secondo alcuni Autori[6], il sito web di un’impresa può essere considerato al pari di un’opera multimediale, intendendo con ciò un prodotto al cui interno convivono e si integrano opere di generi diversi (testo, immagini, suoni), tradizionalmente fruite attraverso differenti media[7]. Sebbene a livello normativo, dottrinale e giurisprudenziale, non sia ancora possibile ravvisare un concetto univoco di “opera multimediale”, è pacifico che essa (e, quindi, anche un sito Internet) goda della tutela prevista dalla legge sul diritto d’autore (Legge 22 aprile 1941, n. 633, L.d.A.)[8], la quale all’art. 1 così stabilisce: “Sono protette ai sensi di questa legge le opere dell’ingegno di carattere creativo che appartengono alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro ed alla cinematografia qualunque ne sia il modo o la forma di espressione“. Ciò non basta, però, affinché si possa affermare l’esistenza di una vera e propria tutela all’interno del nostro ordinamento nei confronti dei siti web.
Invero, l’uso sempre più frequente di Internet nell’organizzazione dell’attività della maggior parte delle PMI, ha dato vita ad un aumento dei contenziosi che hanno ad oggetto, in particolare, i siti web aziendali. A livello tanto nazionale quanto internazionale, una buona parte dei conflitti di questo tipo nascono in relazione ai c.d. “nomi a dominio”, i quali hanno la funzione di identificare univocamente gruppi di oggetti (servizi, macchine, caselle postali, etc) presenti in Rete[9]. Antecedentemente l’entrata in vigore del Decreto Legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 (comunemente noto come “Codice della Proprietà Industriale”[10]) – il quale, tra l’altro, ha esteso ai nomi a dominio aziendali il noto principio di unitarietà dei segni distintivi[11] – è stata la giurisprudenza, attraverso le proprie pronunce, a tentare di dare un contributo alla materia. Attraverso le sentenze dei giudici internazionali e nazionali ed il contributo della dottrina internazionale[12], si è giunti ad individuare nei nomi a dominio un gruppo autonomo di segni distintivi[13].
Se un passo in avanti può dirsi compiuto per ciò che riguarda i nomi a dominio, lo stesso non può dirsi con riferimento alla generalità delle altre fattispecie. Gli sporadici interventi della Giurisprudenza e del Legislatore, infatti, non sono tuttora in grado di rendere adeguata l’intera disciplina di settore attualmente in vigore. Invero, dal punto di vista della tutela giuridico-economica dei beni immateriali, Internet rappresenta una rivoluzione straordinaria: la “rete di reti interconnesse” (Interconnected Networks) non solo rimette in discussione le modalità con cui la generalità dei beni immateriali vengono fruiti, ma pone altresì la problematica della “a-territorialità” e della “a-materialità” di tale fruizione [14].
Le peculiari caratteristiche appena richiamate, pertanto, fanno sì che la disciplina tradizionale vada riconsiderata: le opere in rete non godono ancora di quella tutela, più compiuta, di cui godono, viceversa, le opere riportate su supporti tradizionali[15]. Parte della dottrina, infatti, in accordo con un filone dottrinale nato negli U.S.A. tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000[16], ritiene che la normativa vigente sia stata concepita, fondamentalmente, per beni che richiedono una concretizzazione materiale e, quindi, un investimento produttivo maggiore: da ciò si trarrebbe l’inapplicabilità, in chiave analogica, di tale normativa nei confronti delle opere c.d. “virtuali”[17].
Del resto, fare di un sito web aziendale l’oggetto di una specifica tutela, è indispensabile anche in virtù delle disposizioni contenute nell’art. 41 cost. A modesto avviso di chi scrive, infatti, la realizzazione di un sito internet, relativo all’attività produttiva di un imprenditore, ben può considerarsi una manifestazione dell’esercizio dell’iniziativa economica privata che, tra l’altro, “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale”[18]. A questo punto è opportuno richiamare la sentenza della Corte Costituzionale n. 223/1982[19], la quale, proprio con riferimento all’utilità sociale, osserva che “la libertà di concorrenza tra imprese ha […] una duplice finalità: da un lato, integra la libertà di iniziativa economica che spetta nella stessa misura a tutti gli imprenditori e, dall’altro, è diretta alla protezione della collettività, in quanto l’esistenza di una pluralità di imprenditori in concorrenza tra loro, giova a migliorare la qualità dei prodotti e a contenerne i prezzi”. Inoltre, parte della dottrina ritiene che la tutela della libera concorrenza, che trova fondamento nel secondo comma dell’art. 41 cost.[20], diventi strumentale alla realizzazione dell’ “l’utilità sociale”[21] nel momento in cui è in grado di perseguire tanto valori economici (i.e. crescita equilibrata, stabilità dei prezzi, piena occupazione, progresso scientifico e tecnologico), quanto valori non economici (i.e. uguaglianza, libertà, sicurezza, giustizia, progresso sociale, e così via)[22]. Orbene, in virtù di quanto appena detto, ben può affermarsi che la tutela di un sito web possa essere considerata al pari della tutela della concorrenza sotto il duplice profilo, individuato dalla Giurisprudenza Costituzionale, di integrazione della “libertà di iniziativa economica” e di “protezione della collettività”.
Attualmente, dunque, si avverte la necessità di bilanciare la tutela della proprietà intellettuale (nelle sue forme di proprietà industriale e di proprietà letteraria ed artistica) con una sempre più diffusa esigenza sia di crescita socio-culturale[23], sia di leale concorrenza, come sottolineato dalla dottrina statunitense[24].
Non esistendo sul tema una compiuta analisi dottrinale, alcuni Autori, sostenendo la portata innovativa che Internet ha avuto (ed ha) nell’ambito delle comunicazioni, ritengono indispensabile una regolamentazione ex novo del settore poiché quella vigente, non essendo attualizzata, non risulta essere adeguata alla tutela della proprietà intellettuale in Rete[25].
I fenomeni fin qui discussi, in effetti, spingono i giuristi ed il Legislatore (internazionale, comunitario e nazionale) a individuare, costruire o porre in essere strumenti più idonei alla tutela dell’opera intellettuale su Internet, con tutte le sfumature che questa può assumere, dal sito web aziendale ai contenuti specifici che esso riporta (audio, video, immagini, loghi etc)[26]. Trattasi di una sfida di non poco conto se si tengono in considerazione non solo le caratteristiche della “a-materialità” e della “a-territorialità” dell’informazione[27], ma anche le problematiche legate all’ “identificazione tra l’opera digitale e quella tradizionale”[28].
Dott.ssa Manuela Bondanese
[1] Con l’espressione “economia di internet” si vuole indicare non solo, e non tanto, il meccanismo secondo cui alla crescita dei settori high tech corrispondono, automaticamente, effetti virtuosi per il sistema economico nel suo complesso, quanto, soprattutto, il fenomeno per cui, grazie al progresso tecnologico, al declino dei prezzi delle tecnologie, al processo di convergenza fra informatica e telecomunicazioni ed all’esplosione della rete Internet, sono sempre più numerose le imprese che si avvalgono della Rete per lo svolgimento della propria attività. Così Comino S., Manenti F., Economia di Internet & delle Information And Communication Technology. I mercati high-tech tra innovazione, reti e standard, Torino, Giappichelli, 2011, pp. 2 e ss.
Numerosi Autori fanno coincidere la definizione di economia di internet con quella di sharing economy (cfr su tutti Carnevale Maffè C.A. in Di Bari V., Web 2.0: I consigli dei principali esperti italiani e internazionali per affrontare le nuove sfide, Milano, Il Sole 24 Ore, 2008): sebbene vi sia un dibattito aperto circa il vero significato da attribuire all’espressione “sharing economy”, l’Autore sostiene che questa rappresenti “una reinterpretazione più avanzata del capitalismo; non ha a che fare con la tecnologia ma con l’economia ed è un nuovo mercato con una nuova organizzazione. […] La sharing economy porta con sé una nuova organizzazione della domanda e dell’offerta, in cui le persone contano molto di più. In questa nuova economia non vale il modello tradizionale che vede la distinzione tra produttori e consumatori, ma si va definendo un modello ‘peer’ in cui soggetti di pari dignità si scambiano beni e servizi sulla base di reciproche promesse, che diventano penalità nel caso in cui non vengano mantenute. In questo scenario, il mercato incontra il potere dei social network per soddisfare le nuove esigenze delle persone, aprendo la strada anche a nuove opportunità di lavoro e forme diverse di imprenditorialità”.
[2] Fonte: “Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione nelle imprese”, ISTAT, anno 2014. Rispetto all’anno di riferimento, il 98,2% delle imprese con almeno 10 addetti dispone di una connessione a Internet (96,8% nel 2013); il 95,0% delle imprese è connesso a Internet in banda larga fissa o mobile (94,8% nel 2013); l’utilizzo della banda larga mobile è in ulteriore crescita, coinvolgendo nel 2014 il 60,0% delle imprese (49,8% nel 2013); il 69,2% delle imprese con almeno 10 addetti (88,9% tra le imprese con almeno 250 addetti) dispone di un sito web (67,3% nel 2013); il 31,8% delle imprese (51,9% tra quelle con almeno 250 addetti) utilizza un social media (24,7% nel 2013); gli strumenti più diffusi tra le imprese sono i social network (29,3%) e i siti web di condivisione di contenuti multimediali (10,3%)
[3] Fonte: “Fattore Internet”, BCG, anno 2011
[4] Bertoli M., Web marketing per le PMI. Seo, email, app, Google, Facebook & CO. per fare business, Milano, Editore Ulrico Hoepli, 2015, pp. 119 e ss.
[5] Ivi, p. 1
[6] Si veda tra tutti Cunegatti B., La tutela delle opere multimediali in Italia nell’ambito della disciplina sul diritto d’autore, in Diritto dell’informazione e dell’informatica, vol. 14, II, 1998, pp. 453 e ss.
[7] Secondo Sirotti Gaudenzi A. (a cura di), Il nuovo diritto d’autore. La tutela della proprietà intellettuale nella società dell’informazione, Sant’Arcangelo di Romagna, Maggioli Editore, 2014, p. 297, l’opera multimediale può dirsi tale se possiede tre caratteristiche: 1) l’espressione in forma digitale; 2) la composizione in diverse opere protette dal diritto d’autore e 3) la funzionalità attraverso un software.
[8] Ivi, pp. 297-298. L’Autore ritiene l’opera multimediale un’opera collettiva ex art. 3 legge sul diritto d’autore (opera di ingegno costituita dalla “riunione di opere o di parti di opere, che hanno carattere di creazione autonoma, come risultato della scelta e del coordinamento ad un determinato fine letterario, scientifico, didattico, religioso, politico od artistico”) o, in alternativa, come opera comune ex art. 10 L.d.A. (opera creata “con il contributo indistinguibile ed inscindibile di più persone, il diritto di autore appartiene in comune a tutti i coautori”).
[9] Spesso i nomi a dominio (o “nomi di domino”, che dir si voglia), coincidono con l’indirizzo che viene digitato dall’utente per accedere al sito internet, premettendo il “www”. Vi è da effettuare una fondamentale differenziazione tra i nomi a dominio aziendali (utilizzati a fini commerciali o pubblicitari) e quella dei nomi a dominio non aziendali (utilizzati, viceversa, da enti, fondazioni o associazioni per scopi non commerciali). Nello specifico, è con riferimento al primo gruppo che nasce la maggior parte di conflitti.
[10] Il Codice della Proprietà Industriale all’art. 22, così come modificato dal D.Lgs. 13 agosto 2010, n. 131, formalizza la distinzione tra nomi a dominio aziendali e non aziendali. Cfr sul punto Cascione M.C., I nomi a dominio aziendali, in Resta G. (a cura di), Diritti esclusivi e nuovi beni immateriali, Torino, Utet, 2011, pp. 400 e ss.
[11] L’ordinanza del 03.01.2014 del Trib. Milano chiarisce il significato del principio di unitarietà dei segni distintivi: “Il principio di unitarietà dei segni distintivi implica che l’adozione di un segno, in qualunque delle sue funzioni distintive, conferisce all’imprenditore che lo abbia adottato il diritto esclusivo di utilizzarlo anche in relazione alle altre funzioni distintive”.
[12] In particolare, tra i paesi che riportano il più alto tasso di conflitti in questa materia, vi sono gli Stati Uniti, per quanto riguarda l’America, e la Francia, per ciò che concerne l’area europea: è proprio in questi Paesi, infatti, che sono nati importanti filoni giurisprudenziali che hanno contribuito alla ricerca di soluzioni da parte dei giudici italiani. Tra gli esponenti della dottrina statunitense si segnalano Rony E., Rony P., The domain names handbook: high stakes and strategies in cyberspace, Lawrence, Kansas, USA, R&D Books, 1998, pp. 234 e ss. Per quanto riguarda, invece, la dottrina francese, un importante contributo è dato da Khater B., Elias C., Le nom de domaine au sein du concept des signes distinctifs, in Revue juridique de l’USEK, 8, 2005, pp. 17-33
[13] cfr Casaburi G., Nomi a dominio e tutela della proprietà industriale in Internet e nel Codice della Proprietà Industriale, in Giur. Mer., 40, 5, 2008, pp. 1492 e ss.; Floridia G., Segni e confondibilità nel Codice della proprietà industriale, in Il diritto Industriale, 2007, p. 13
[14] Si veda su tutti Muller F., La tutela del diritto d’autore e Internet, in Dir. autore, 2001, pp. 438 e ss.
[15] Sirotti Gaudenzi A. (a cura di), Proprietà intellettuale e diritto della concorrenza, Vol. IV, Torino, Utet, 2010, p. 59. Sul punto cfr anche Stabile S., Internet e diritto d’autore: il cyberspace e la mondializzazione delle opere, in Il Diritto Industriale, 1, 1999, pp. 87 e ss. Secondo l’opinione di tale ultimo Autore “La digitalizzazione, propria del mezzo Internet, ha comportato una straordinaria trasformazione strutturale delle opere dell’ingegno create o trasportate in rete, consistente nella dematerializzazione del loro supporto e nella sostituzione dell’elemento virtuale all’elemento fisico-materiale. Alla dematerializzazione dell’opera e alla sua traduzione in bit si accompagna poi la globalizzazionedegli scambi comunicazionali, stante il carattere universale delle trasmissioni attuate via Internet”.
[16] Goldstein P., Copyright’s Highway: the Law and Lore of Copyright from Gutemberg to the Celestial Juke Box, New York, Revised Edition, 1996, pp. 2 e ss.; Nimmer M.B., Nimmer D., Nimmer on Copyright, New York, 2000, pp. 11 e ss.
[17] Cfr, ad es. Cassano G., Scorza G., Vaciago G. (a cura di), Diritto dell’Internet. Manuale Operativo. Casi, legislazione, giurisprudenza, Padova, Cedam, 2013, pp. 395 e ss.
[18] Art. 41 cost., secondo comma.
[19] Sent. Corte Cost. n. 223 del 16 dicembre 1982, in Giur. Cost., 1982, I, p. 2246
[20] Deve precisarsi che sulla questione la dottrina non è unanime. In questa sede si segnala esclusivamente la dottrina espressasi a favore dell’utilità sociale quale fondamento della tutela della concorrenza: Barcellona P., Programmazione e soggetto privato, in AA.VV., Aspetti privatistici della programmazione economica, Milano, Giuffrè, 1971, pp. 101 e ss.; Bognetti G., Costituzione economica e Corte costituzionale, Milano, Giuffrè, 1983, p. 269; Micco L., Lavoro ed utilità sociale nella Costituzione, Torino, Giappichelli, 1966, pp. 183 e ss.; Oppo G., Costituzione e diritto privato nella tutela della concorrenza, in Riv. dir. civ., 1993, pp. 548 e ss,; Rodotà, Note critiche in tema di proprietà, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1960, p. 1282; Spagnuolo Vigorita V., L’iniziativa economica privata nel diritto pubblico, Napoli, Jovene Editore, 1959, p. 224. Per una ricostruzione sistematica di tale orientamento v. Piccioli C., Contributo all’individuazione del fondamento costituzionale della normativa a tutela della concorrenza (cd. legge antitrust), in Riv. trim. dir. pubbl., 1996, pp. 29 e ss..
[21] C’è chi ritiene che a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la concorrenza sia stata “declassata da valore a strumento”. Così Vettori G., Diritti fondamentali e diritti sociali. Una riflessione fra due crisi, in Europa e dir. priv., 2, 2011, pp. 428 e ss.. Di un’opinione simile è anche Libertini M., I fini sociali come limite eccezionale alla tutela della concorrenza: il caso del “Decreto Alitalia”, in Giur. cost., 4, 2010, pp. 3296 e ss.
[22] Zatti F., Riflessioni sull’art. 41 Cost.: la libertà di iniziativa economica privata tra progetti di riforma costituzionale, utilità sociale, principio di concorrenza e delegificazione, in AA.VV., Studi in onore di Claudio Rossano, Napoli, Jovene Editore, 2013, pp. 2235 e ss.
[23] Primiceri S., Spedicato A., Percorsi digitali. Le sfide del diritto d’autore. Atti del Convegno 19 novembre 2012 – Sheraton Hotel Roma, Roma, Primiceri Editore, 2012, p. 5. Secondo i due Autori “un diritto d’autore moderno e aperto al web non è un attentato alla proprietà intellettuale e al copyright”: troppo spesso, infatti, vengono confusi concetti come “rete libera” o “libera condivisione delle idee” con quelli di “pirateria” o di “gratuità selvaggia di materiale coperto da diritti d’autore”.
[24] Si vedano, ad es., Boldrin M., Levine D.K., Abolire la proprietà intellettuale, Roma, Laterza, 2012, pp. 52 e ss. Secondo i due Autori della Washington University di St. Louis, l’eccessiva tutela della proprietà intellettuale è in grado solo di creare monopoli e rendite di posizione che alterano il fisiologico meccanismo della concorrenza, l’unico in grado di far funzionare al meglio il mercato e di tradursi in un incremento del benessere dei consumatori.
[25] Tosi E. (a cura di), I problemi giuridici di Internet. Dall’e-commerce all’e-business, in Alpa G. (diretto da), Diritto dell’Informatica, Milano, Giuffrè, 2003, pp. 1 e ss.
[26] Sirotti Gaudenzi A. (a cura di), Proprietà intellettuale e diritto della concorrenza, op. cit., p. 59
[27] Piola Caselli E., Internet e il diritto d’autore, in Digesto delle discipline privatistiche, sez. civ., Agg. FZ, Torino, Utet, 2003, pp. 800 e ss.
[28] Ibidem
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