Lavoro in nero: se lo stipendio non viene versato?
Non è certo di semplice classificazione in tradizionali categorie giuridiche ciò che normalmente si definisce come lavoro irregolare o cd. “lavoro in nero”.
Fenomeno antico e capillarmente diffuso sul territorio nazionale, presenta caratteristiche differenti tra una tipologia e l’altra, tali da indurre notevoli difformità tra le stesse.
Ciò che, tuttavia, accomuna ognuna delle espressioni è la riconducibilità ad un rapporto di lavoro per il quale non sono stati adempiuti i relativi obblighi vigenti in materia amministrativa, fiscale, previdenziale e assicurativa.
Questo, dunque, non significa definirlo come un rapporto di lavoro nullo per illiceità dell’oggetto o della causa – come disposto dall’art. 2126, co.1, c.c. – ma come un’attività normalmente lecita, svolta in violazione degli obblighi che la regolano.
Tra gli obblighi imposti al datore di lavoro, scaturisce l’inderogabile diritto per il prestatore di lavoro di vedersi versata in ogni caso la retribuzione.
La ricezione di una busta paga senza irregolarità (quali la non corresponsione delle somme o il troppo ritardo a cui consegue un sistematico arretrato delle retribuzioni spettanti) dà diritto al lavoratore di appellarsi ad alcune forme di tutela, stabilite dalla legge, per garantire il recupero dei crediti dovuti.
E’ ciò che è successo ad un lavoratore, con mansioni di magazziniere e operaio, che ha mosso ricorso alla Società presso la quale lavorava per vedersi riconosciuto – a seguito di licenziamento – un rapporto di lavoro subordinato alle sue dipendenze, sia con il conseguente accertamento del proprio livello di inquadramento, derivante dal relativo C.C.N.L., sia con il calcolo delle differenze retributive maturate.
Il Tribunale di Napoli, con una recente Sentenza[1], ha statuito che anche il lavoratore, che svolge le proprie prestazioni di lavoro senza un regolare contratto, deve impugnare il licenziamento entro 60 gg dalla data dello stesso per vedersi riconosciuto il diritto agli arretrati nonché alle differenze retributive.
Con tale pronuncia il Giudice del Lavoro ha statuito che il termine di 60gg per l’impugnazione del licenziamento, di cui all’art. 32 della L. 183/2010, si applica anche ai casi dei lavoratori che non siano regolarizzati i quali hanno diritti e doveri identici al dipendente regolarmente inquadrato con contratto scritto e dichiarato.
Il non rispetto dei termini, infatti, prevede la perdita della possibilità di chiedere il risarcimento del danno per illegittima conclusione del rapporto di lavoro nonché l’impossibilità di ricevere le buste paga che non gli sono state corrisposte o sono state corrisposte in maniera ridotta (cd. differenze retributive).
Le retribuzione spetteranno così al lavoratore sin dalla data di costituzione del rapporto di lavoro. Il dies a quo dal quale far valere il diritto di impugnare il licenziamento – pur non risultando agevole da individuare rispetto alla presenza di un contratto regolare – decorre dalla data di comunicazione del licenziamento stesso.
Al lavoratore sarà conosciuto il diritto a rivendicare gli arretrati entro cinque anni dalla data di cessazione del rapporto lavorativo, con la conseguenza di vedersi prescritta la possibilità di agire in giudizio.
Il prestatore di lavoro dovrà, quindi, impugnare il licenziamento entro 60 gg dalla data di comunicazione dello stesso e avviare il giudizio entro i successivi 180 gg.
La decadenza dei termini citati, in conclusione, non permette di tutelare il lavoratore nella richiesta di costituzione di un regolare rapporto di lavoro e nei diritti da essa scaturenti quali differenze retributive e risarcimento dei danni.
[1] Trib. Napoli, sent. del 9.03.2016.
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Rosa Rizzuto
Laurea Magistrale in Giurisprudenza conseguita con il massimo dei voti. Pratica forense svolta presso l'Avvocatura Comunale della Città di Torino. Aspirante avvocato e, attualmente, Giurista d'Impresa Junior.