Le Società a partecipazione pubblica e la responsabilità degli amministratori
L’ordinamento amministrativo non delinea una concezione unitaria di ente pubblico, al contrario contempla una serie di definizioni, tra loro diversificate, in virtù dei mutamenti socio-economici che hanno investito, nel corso degli anni, l’attività pubblicistica.
Nel ventesimo secolo, risultava prevalente una concezione “cavouriana” in base alla quale la Pa si poneva quale entità sovraordinata che esercitava un potere autoritativo, destinato ad incidere unilateralmente nella sfera giuridica dei singoli.
Solo con l’avvento della Costituzione, inizia a valorizzarsi la partecipazione del privato cittadino all’ attività amministrativa sulla scorta dei principi di buon andamento e legittimazione democratica codificati all’interno della Carta del 1948.
La veste autoritativa viene dismessa con l’introduzione della L. 241/1990 che consacra il procedimento amministrativo a luogo di comparazione degli interessi pubblici e privati.
L’art. 22 L. 241/1990 fornisce una definizione di pubblica amministrazione, nella quale fa rientrare tutti i soggetti di diritto pubblico e di diritto privato, limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale e comunitario; emerge, dunque, la volontà del legislatore di ancorare a profili di tipo sostanziale la qualificazione amministrativa dell’ente focalizzando l’attenzione sulla natura pubblicistica dell’attività espletata.
Non può negarsi che sulla nozione di amministrazione, abbia inciso, in maniera considerevole, il diritto comunitario, il quale ha dato ingresso nel nostro ordinamento a figure soggettive pubbliche improntate a parametri sostanziali e teleologici: il riferimento è agli organismi di diritto pubblico, alle imprese pubbliche ed alle società in house.
Occorre tener conto, altresì, del progressivo ingresso della Pa nell’economia in veste privatistica sulla base della generale capacità di diritto privato riconosciuta dall’art. 11 cod. civ. a tutte le persone giuridiche pubbliche.
Invero, sempre più di frequente, la Pa persegue finalità pubblicistiche attraverso lo svolgimento di attività imprenditoriale, avvalendosi degli strumenti propri del diritto civile alla luce del nuovo comma 1bis dell’art. 1 L. 241/1990.
Nel dettaglio, la Pa opera sul mercato attraverso tre forme partecipative: l’azienda autonoma e l’ente pubblico economico ormai recessivi e, a partire dagli anni ’90, le società a partecipazione pubblica.
In quegli anni, infatti, l’amministrazione ha dato avvio ad un processo di privatizzazione degli enti pubblici con l’intento di trasformare il ruolo espletato dallo Stato nell’economia da imprenditore a controllore.
Si tratta del fenomeno della cd. aziendalizzazione, iniziato con la Legge Amato (L. 218/1990), che ha previsto in prima battuta il mutamento della forma giuridica dell’ente pubblico in società per azioni (cd. fase fredda), accompagnato dalla parziale o totale dimissione delle partecipazioni pubbliche (cd. fase calda).
Nascono, dunque, le società a partecipazione pubblica, le quali, pur rivestendo forma societaria, subiscono una serie di deroghe rispetto alla disciplina del codice civile, considerata la loro connotazione pubblicistica.
Tali enti societari, sebbene abbiano l’obbligo di iscriversi nel registro delle imprese, traggono origine da un provvedimento legislativo (come statuito dall’art. 4 della Legge sul parastato); non possono procedere all’assunzione diretta dei loro dipendenti, ma sono tenute allo svolgimento di gare pubbliche nel rispetto dell’art. 97,4°comma Cost.
Nell’ottica della trasparenza amministrativa, tali società rientrano nella nozione dell’art. 22 L. 241/1990 e pertanto sono tenute al rispetto della disciplina in materia di accesso agli atti; inoltre tali enti societari, sono sottoposti al controllo della magistratura contabile (Corte dei Conti).
Accanto a tali limitazioni, fanno da contraltare una serie di privilegi:in particolare, si segnala la non sottoposizione a fallimento, come stabilito dall’art 2221 cod. civ., alla stregua di quanto previsto per il piccolo imprenditore; l’ente societario, essendo finanziato dallo Stato, non sopporta in proprio eventuali perdite economiche (fanno eccezione le imprese pubbliche previste dall’art. 3 del Codice dei Contratti pubblici, operative nei settori speciali degli appalti).
Ulteriore deroga rispetto al regime ordinario si evince anche in tema di aggredbilità in via esecutiva del patrimonio di tali enti, sottoposto a limitazioni di carattere legislativo per garantire finalità pubbliche: emblematico l’art. 159 TUEL (Testo Unico degli Enti Locali Dlgs 267/2000) che sottrae all’esecuzione forzata le somme degli enti locali che presentano specifiche destinazioni.
La veste societaria rappresenta, quindi, un modello “neutrale” rispetto alle finalità che si intende perseguire; perché si affermi la natura pubblica è necessario che la società si costituisca tramite una legge che ne determini lo scopo, la denominazione e la pertinenza di una quota maggioritaria ad un soggetto pubblico. Inoltre, è opportuno che il regime giuridico si caratterizzi per regole di organizzazione e funzionamento tali da attrarre nell’orbita pubblicistica il modello societario (si tiene conto del finanziamento pubblico, della determinazione della politica d’impresa ad opera di soggetti pubblici diversi dagli azionisti).
Altro profilo che merita approfondimento riguarda la responsabilità degli amministratori delle società partecipate da un ente pubblico.
In via preliminare, è opportuno precisare che la responsabilità amministrativa-contabile si applica quando il soggetto, legato da un rapporto di servizio o di pubblico impiego con l’ente pubblico, abbia violato gli obblighi derivanti da tale rapporto, cagionando un danno erariale.
La natura di tale responsabilità è stata al centro di un lungo dibattito.
Secondo l’impostazione tradizionale privatistica, la giurisdizione della Corte dei Conti opera solo per gli atti esorbitanti l’attività imprenditoriale, espressione di poteri autoritativi; la diffusione del modello neutrale dello schema societario ha condotto ad un revirement.
Si è ritenuto, infatti, che la Pa eserciti attività amministrativa anche quando persegua i suoi fini istituzionali mediante l’utilizzo di strumenti privatistici. Pertanto, il discrimen tra giurisdizione ordinaria e contabile, in materia di responsabilità per danno erariale, andrebbe individuato nella natura del denaro e degli scopi perseguiti: se l’attività dell’amministrazione coinvolge risorse pubbliche, la giurisdizione spetta al giudice contabile.
Nel 2012, le Sezioni Unite intervengono sulla questione, affermando che la società partecipata è pur sempre titolare di un patrimonio autonomo riferibile ad essa e non agli enti pubblici che ne detengono le quote. Ne deriva che i danni cagionati da mala gestio degli amministratori al patrimonio della società sono a questa riferibili e non alla Pa, con conseguente giurisdizione del GO e responsabilità ex art. 2392 cod. civ.
Al contrario, se il danno è arrecato al socio pubblico (es. danno all’immagine) si qualificherà come danno erariale e la giurisdizione spetterà al giudice contabile.
Si puntualizza che nelle società in house, mancando quell’alterità tra ente pubblico e società, il danno arrecato alla società è inquadrabile nel danno erariale, radicando la giurisdizione della Corte dei Conti.
Il nuovo art. 12 TU delle Società a partecipazione pubblica (Dlgs. 175/2016) recepisce le coordinate dettate dalla giurisprudenza di legittimità.
Dunque, agli amministratori delle società partecipate sono estese le regole ordinarie sulla responsabilità degli organi sociali previste per le società di capitali; mentre alla Corte dei Conti è devoluta la giurisdizione sulle controversie in materia di danno erariale (definito dal 2° comma dell’articolo in questione) nei limiti della quota di partecipazione pubblica.
Resta ferma la giurisdizione contabile per il danno erariale cagionato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house.
Per ciò che attiene la revoca degli amministratori di nomina pubblica, la disciplina da seguire è quella civilistica contenuta nell’art. 2449 cod. civ. ; la revoca in questione può essere impugnata presso il GO e non presso il GA trattandosi di un atto uti socius e non iure imperii.
L’amministratore revocato dall’ente pubblico potrà chiedere solo la tutela risarcitoria per difetto di giusta causa a norma dell’art. 2383, 3°comma cod. civ., non anche la tutela reale, ossia la reintegrazione nella carica, in quanto l’art. 2449 cod. civ. assicura parità di status tra amministratori di nomina assembleare e amministratori di nomina pubblica.
Simona Peluso
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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Simona Peluso
Dottoressa in Giurisprudenza e Specializzata in Professioni Legali presso Università degli Studi di Napoli Federico II; Frequenta Corsi Giuridici di Formazione Superiore.
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