L’insegnante umilia e minaccia di bocciare gli alunni? Per la Cassazione è reato!
Cass. pen., sez. V, 1 dicembre 2015, n. 47543
a cura di Marco La Grotta
Integra il reato di abuso di mezzi di correzione o di disciplina il comportamento dell’insegnante che umilii, svaluti, denigri o violenti psicologicamente un alunno causandogli pericoli per la salute, atteso che, in ambito scolastico, il potere educativo o disciplinare deve sempre essere esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravità del comportamento deviante del minore, senza superare i limiti previsti dall’ordinamento o consistere in trattamenti afflittivi dell’altrui personalità.
Il fatto
Con sentenza del 12 marzo 2015, la Corte di Appello di Firenze, confermava la sentenza di condanna in primo grado emessa nel 2013 da un Tribunale toscano nei confronti di una docente della scuola media locale perché responsabile dei delitti di abuso di mezzi di correzione, (reato aggravato e continuato), commessi nel periodo compreso tra il 2007 e 2010, nonché del reato di violenza privata aggravata commesso il 18 giugno 2008.
La condotta dell’insegnante veniva portata all’attenzione dell’Autorità Giudiziaria competente per rispondere del delitto di maltrattamenti (art. 572 c.p.) , che successivamente veniva derubricato dal Tribunale nel reato meno grave di cui all’art. 571 c.p., perché la stessa secondo il giudice di merito aveva tenuto atteggiamenti offensivi e minatori nei confronti dei suoi allievi nell’anno scolastico 2007-2008 e 2009-2010.
Inoltre, la docente veniva accusata del delitto di violenza privata di cui art. 610 c.p. per aver costretto tre sue allieve a scrivere, sotto minaccia di bocciatura, carcere e relative conseguenze penali, una lettera indirizzata al Dirigente Scolastico per ritrattare il contenuto della precedente “denuncia” che le stesse avevano portato all’attenzione dell’autorità scolastica con cui censuravano il comportamento dell’insegnante, rea di aver pronunciato espressioni offensive nei loro confronti e dei compagni di classe.
Avverso la pronuncia della Corte d’Appello di Firenze, l’imputata proponeva ricorso per Cassazione deducendo quattro motivi d’impugnazione.
Con il primo si chiedeva l’immediata declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 129 c.p.p. e 131-bis c.p., sostenendo che nel caso di specie non vi erano cause ostative all’accoglimento della richiesta della difesa.
Con il secondo motivo si deduceva il vizio di motivazione e violazione di legge per mancata assunzione da parte della Corte di una prova decisiva, ovvero la sentenza del giudice del lavoro che aveva dichiarato l’inesistenza degli addebiti disciplinari posti a suo carico in relazione ai fatti oggetto d’imputazione nel processo penale in corso.
Con il terzo motivo si deduceva la violazione di legge da parte della Corte di merito perché la ricorrente, a differenza di quanto emergeva dalle deposizioni acquisite, assumeva di non aver mai utilizzato le espressioni inappropriate o offensive indicate nel capo di imputazione.
Di contro, l’insegnante ribadiva di essersi limitata a richiamare in modo deciso, le allieve in quanto poco interessate agli studi e comunque disattente e ribelli.
Con il quarto e ultimo motivo di impugnazione si deduceva il vizio di motivazione con riferimento al capo della sentenza che affermava la penale responsabilità dell’imputata perché la Corte di merito non aveva considerato i motivi di appello formulati dalla difesa con i quali si evidenziavano le dichiarazioni di alcune allieve che attestavano la correttezza del comportamento dell’imputata.
La decisione
In relazione al primo motivo di gravame, la Cassazione dichiarava l’infondatezza e confermava il corretto operato del giudice di merito che negava la declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto.
La Corte ribadiva che la condotta dell’imputata andava ritenuta “abituale” dal giudice di merito, pertanto tale statuizione era da ritenersi causa ostativa all’accoglimento della richiesta della difesa.
Per l’applicazione della suindicata causa di non punibilità, disciplinata dall’art. 131-bis c.p., occorre che il giudice valuti l’offesa arrecata al soggetto passivo di particolare tenuità ed inoltre che la condotta posta in essere dal colpevole sia non abituale.
Il comma 3 dell’art. 131-bis c.p. specifica che il comportamento è abituale nel caso in cui l’autore “…abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate”.
Alla luce di tali considerazioni è innegabile che la condotta dell’insegnante sia da considerare abituale.
Infondato è anche il secondo motivo di impugnazione.
Nell’occasione la Corte rilevava che le sentenze del giudice del lavoro, oggetto della presunta omissione di valutazione da parte del giudice di appello, si riferivano ad anni scolastici ed elementi di prova diversi da quelli concernenti il procedimento penale de quo.
Per quanto attiene invece al successivo motivo di doglianza, ovvero la presunta violazione di legge da parte del giudice di merito circa la mancata acquisizione della copia della lettera di ritrattazione, (oggetto del capo di imputazione di violenza privata), che si assumeva persa e poi ritrovata prima della proposizione dell’appello e prodotta solo in sede di motivi aggiunti, la Corte affermava la correttezza della motivazione della sentenza di merito anche alla luce del mancato chiarimento da parte dell’insegnante dei motivi che avevano impedito alla stessa di produrla in primo grado, per consentire al giudice una valutazione complessiva e in contradditorio.
Per quanto concerne i restanti motivi di ricorso la Corte li dichiarava inammissibili in quanto tendevano a sottoporre al giudice di legittimità, questioni attinenti all’esclusiva competenza del giudice di merito che in ogni caso aveva già adeguatamente valutato e motivato il provvedimento.
Ad ogni buon conto, la Suprema Corte dichiarava manifestamente infondate le censure sulla corretta qualificazione giuridica dei fatti da parte della Corte d’Appello che invece aveva evidenziato la grave pressione minacciosa esercitata dall’imputata sulle allieve per indurle a scrivere la lettera di ritrattazione, rappresentando cosi un quadro chiarissimo di violenza privata.
Mentre le minacce di bocciatura e voti bassi per indurre le allieve a svolgere un tema avente ad oggetto il presunto comportamento scorretto nei loro confronti da parte degli altri insegnanti, andava ricondotto nel reato di abuso di mezzi di correzione e disciplina, così come affermato dalla costante giurisprudenza della Cassazione (cfr. Sez. VI, n. 34492 del 14/06/2012, Rv. 253654).
In conclusione è evidente il principio di diritto stabilito dalla Corte Cassazione, secondo cui in ambito scolastico, il potere educativo o disciplinare da parte dell’insegnante deve sempre essere esercitato con mezzi consentiti e proporzionati alla gravità del comportamento del minore, senza mai superare i limiti imposti dalla legge o consistere in trattamenti afflittivi dell’altrui personalità.
Pertanto, il comportamento dell’insegnante che umilia, svaluta o denigra un alunno, causandogli un pericolo per la salute integra il reato di abuso dei mezzi di correzione e di disciplina (art. 571 c.p.), che prevede la pena della reclusione fino a sei mesi.
Nel caso di specie l’insegnante, oltre a subire la condanna per i reati contestati, veniva condannata al pagamento di € 1.000,00 in favore della cassa delle ammende come previsto dall’art. 616 c.p.p. per i profili di colpa ravvisati dalla Corte per l’irritualità dell’impugnazione proposta, nonché delle spese processuali.
Avv. Marco La Grotta
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