Non può chiedere di consumare il matrimonio il detenuto condannato per gravi reati

Non può chiedere di consumare il matrimonio il detenuto condannato per gravi reati

a cura di Giuseppe Di Micco

Lo ha affermato la Corte di Cassazione, prima sezione penale, con la sentenza 8822/2016, respingendo il ricorso di un detenuto che aveva richiesto un permesso di necessità per incontrare la moglie e consumare il matrimonio celebrato con rito civile nel corso della detenzione.

La necessità di trascorrere un breve periodo di tempo con il coniuge, al fine di consumare il matrimonio celebrato in carcere, non costituisce motivo grave che può legittimare la concessione di permesso al detenuto a norma dell’art. 30 Ord. pen..

Già il Tribunale di Sorveglianza aveva respinto tale richiesta, poiché non rientrante nella previsione di cui all’art. 30, comma secondo, Ord. Pen., ossia di un evento familiare di particolare gravità, tale da giustificare il permesso anche a favore dei detenuti che non fruiscono di permessi premio.

Sosteneva il Tribunale che l’esercizio dell’affettività, inteso come espressione della sessualità, allo stato della normativa vigente è assicurato al detenuto dal “permesso premio” e non dal permesso cosiddetto di necessità, che l’interessato ha invocato anche al fine di evitare l’annullamento del matrimonio per mancata consumazione.

Il detenuto avverso tale ordinanza ricorre per Cassazione evidenziando l’erronea applicazione della legge penale speciale dal momento che la consumazione del matrimonio sia da considerarsi evento unico e irripetibile e ontologicamente eccezionale, e non come esercizio (ordinario) dell’affettività: pertanto, tale atto non sarebbe rinviabile ai tempi lunghissimi del permesso premio. Inoltre, l’art. 30, secondo comma, O.P. non andrebbe circoscritto ai soli eventi pregiudizievoli o deteriori per la condizione del nucleo familiare di appartenenza del condannato poiché tale interpretazione restrittiva contrasterebbe con l’art. 3, punto f), della legge n. 898/1970 e con le disposizioni a tutela della famiglia.

La Corte dichiara infondato il ricorso, e chiarisce che il c.d. permesso di necessità “va limitatamente concesso ai soli casi di imminente pericolo di vita di un familiare o di un connivente e, solo eccezionalmente, per eventi familiari di particolare gravità, in adesione alla struttura e finalità dell’istituto” che non costituisce un beneficio premiale, bensì una misura concedibile a qualsivoglia condannato per il suo carattere emergenziale ed eccezionale.

Quindi, la possibilità di concedere il beneficio va coerentemente limitata a situazioni in cui la gravità si ponga in termini di irreparabilità attuale o concretamente probabile.

Ne ha senso ricondurre l’esercizio della propria affettività nella sfera sessuale al diritto di sposarsi e formare una famiglia e al diritto al rispetto della vita privata e familiare: la Corte Edu ha più volte ricordato che qualsiasi detenzione regolare comporta, per sua natura, una restrizione alla vita privata e famigliare dell’interessato e tali restrizioni sono legittime se non eccedono quanto è necessario alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati in una società democratica.

Nel caso di specie, stante la gravita dei reati per cui il ricorrente sta espiando la condanna, tra i quali rientra l’associazione mafiosa, il lontano fine pena (fissato al 204) e la non remota decorrenza di essa, le limitazioni subite dal ricorrente alla sua vita privata e famigliare risultano del tutto proporzionate agli scopi legittimamente perseguiti attraverso l’esecuzione della pena, senza che lo Stato abbia oltrepassato il margine di appezzamento di cui gode in materia.

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Giuseppe Di Micco

Laureato in Giurisprudenza con votazione di 110 e lode, tesi in diritto canonico, relatore prof. Mario Tedeschi. Ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli, mediante una diretta attività di partecipazione alle udienze in tribunale, nonché nello studio dei casi pratici per la redazione di atti giudiziari e pareri. Praticante abilitato, collabora presso studi legali in materia di diritto civile e diritto del lavoro. Dottore di ricerca in diritto canonico ed ecclesiastico presso l’Università degli Studi di Milano, ha approfondito come tema di ricerca il problema della consumazione del matrimonio nei diritti religiosi (diritto ebraico, canonico, ed islamico). Collaboratore alle cattedre di diritto ecclesiastico, diritto canonico, diritti confessionali e storia e sistemi dei rapporti tra Stato e Chiesa, del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli. Collabora attivamente anche presso le strutture ecclesiali, in particolare negli ambiti liturgici e della formazione giovanile.

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