Quando è possibile l’impugnazione di un atto con l’azione avverso il silenzio
Con l’espressione “rito del silenzo” è conosciuto quel rimedio processuale che consente all’interessato di superare il comportamento inerte tenuto dall’Amministrazione rispetto all’istanza presentata per il conseguimento di un provvedimento ampliativo della propria sfera giuridica.
Tale rito speciale è azionabile nelle sole ipotesi in cui la condotta inerte della P.A. non assuma valenza provvedimentale, di accoglimento o di diniego dell’istanza del privato, e quando ques’ultima sia idonea a generare l’obbligo -in capo all’Amministrazione- di adottare un provvedimento espresso.
La giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto la sussistenza dell’obbligo di provvedere della P.A. in tutte le ipotesi in cui il privato, che ha esercitato il diritto di iniziativa, sia titolare di un interesse legittimo pretensivo.
E’ da qui, dunque, che bisogna partire per comprendere l’impostazione giurisprudenziale che ha ritenuto ammissibile l’impugnazione di un atto tramite l’azione avverso il silenzio.
Dalla giurisprudenza più risalente è ricavabile la nozione di “atto soprassessorio”, ossia quell’atto che, rinviando il soddisfacimento dell’interesse pretensivo ad un accadimento futuro ed incerto nel quando, determina un arresto a tempo indeterminato del procedimento amministrativo generando un’immediata lesione della posizione giuridica dell’interessato[1].
Siffatto atto, in quanto soprassiede sull’istanza del privato, non può costituire un provvedimento terminativo del procedimento – che l’Amministrazione ha l’obbligo di emanare in forza dell’articolo 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241, quale che sia il contenuto – ma un rinvio sine die della conclusione del procedimento in violazione dell’obbligo di concluderlo entro il termine fissato.
Stante l’assimilabilità delle due situazioni, la giurisprudenza è unanime nel ritenere ammissibile l’azione contro il silenzio anche in presenza di un atto (qualora soprassessorio): l’Amministrazione ha l’obbligo di emanare il provvedimento finale, senza che siffatto obbligo possa essere vanificato dalla configurazione di un provvedimento fittizio, pena altrimenti la deminutio di tutela a danno del ricorrente.[2]
L’instaurazione di un giudizio è strumentale, quindi, all’emanazione di una pronuncia che, verificata la natura dell’atto impugnato, dichiari la permanenza in capo alla P.A. dell’obbligo di provvedere e la condanni all’emanazione dell’atto terminativo del procedimento (o all’emanazione di un atto di contenuto predeterminato qualora l’attività sia – o sia divenuta – vincolata).
L’adozione del provvedimento esplicito, in questo caso, non determina la declaratoria di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse ad agire, stante la permanenza di una “situazione di inerzia colpevole (e, dunque, il corrispondente interesse ad agire ex art. 117 c.p.a.) se l’amministrazione […] adotta un atto soprassessorio; tanto nel decisivo presupposto che una tale attività non dà vita ad un autentico provvedimento ultimativo del procedimento che l’amministrazione ha l’obbligo di concludere, ma un rinvio sine die”.[3]
Il privato, quindi, può legittimamente avvalersi del rito speciale del silenzio appositamente previsto (con tutte le conseguenze in tema di termini e importo del contributo unificato), ma è tuttavia evidente che poiché l’interesse a ricorrere discende non già dall’inerzia assoluta ma dal comportamento soprassessorio, l’azione (benché sia un’azione sul silenzio) va ritualmente introdotta attraverso l’impugnazione del sedicente provvedimento conclusivo, caratterizzato dal contenuto elusivo dell’obbligo di provvedere e, dunque, sussumibile nella fattispecie composita dell’inerzia.[4]
Va, infine, rammentato che è ammessa la proponibilità dell’azione risarcitoria congiuntamente a quella avverso il silenzio. In altre parole il privato, con la rituale impugnazione dell’atto soprassessorio, può chiedere al Giudice l’accertamento dell’illegittimità della condotta sostanzialmente omissiva della P.A., la declaratoria dell’obbligo di provvedere (e la nomina di un commissario ad acta in caso di perdurante inadempimento), nonché il risarcimento del c.d. “danno da ritardo”, ossia il danno ingiusto cagionato dall’inosservanza, dolosa o colposa, dei termini procedimentali; in tal caso, “il giudice può definire con rito camerale l’azione avverso il silenzio e trattare con rito ordinario la domanda risarcitoria”, ex art. 117, comma 6, c.p.a.
[1] La definizione è quella di Cass. SSUU, 27 giugno 2005, n. 13707; cfr. Ad. Plen., 10 luglio 1986, n. 8,
Sez. VI, n. 1246/04; Sez. V, n. 1902/01; Sez. VI, n. 1377/98; Sez. IV, n. 226/97.
[2] Cons. St., Comm. Spec., parere 17 gennaio 2001, n. 1242.
[3] Cons. St., Sez. V, sentenza 22 gennaio 2015, n. 273.
[4] Cons. St., Sez. IV, sentenza 9 maggio 2013, n. 2518.
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Livia Cherubino
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