Quando il tiranno non ha diritti
Giurisdizione Universale e Crimini di Capi di Stato: la prima condanna. Il caso Habrè.
Quando si parla di sovranità nazionale, l’ambito della giurisdizione è uno degli aspetti maggiormente sensibili. In linea generale, l’attività di ius dicere si compendia in quella specifica funzione pubblica consistente nell’applicazione del diritto oggettivo ad una controversia. L’esercizio di tale funzione richiede un collegamento tra il fatto oggetto del giudizio e lo Stato chiamato a giudicarlo, quale può essere la residenza o il domicilio del soggetto convenuto (art. 3, L. 218/1995) oppure la commissione del reato nel territorio dello Stato medesimo (art. 6 c.p.). Storicamente, il criterio di collegamento maggiormente seguito è stato quello territoriale; d’altronde, la dottrina ha unanimemente classificato il territorio quale uno dei presupposti costitutivi dello Stato nazionale, unitamente al popolo e alla sovranità stessa.
Il panorama del diritto internazionale, tuttavia, contempla un’ipotesi – suggestiva quanto affascinante – la quale rinuncia a individuare in modo necessario un nesso giuridico o reale tra l’esercizio della giurisdizione e il fatto oggetto del giudizio. La c.d. giurisdizione universale, abbozzata nelle Convenzioni di Ginevra del 1949, è divenuta di pregnante attualità negli ultimi decenni, segnati da numerose atrocità perpetrate nei confronti dei civili e al di fuori di ogni regola di guerra. Si pensi alla guerra civile in Ruanda (1990-1993), poi sfociata in genocidio, che vide contrapporsi Hutu e Tutsi causando quasi un milione di morti, oppure al massacro nel campo profughi di Shabra e Shatila (1982) o ancora la pulizia etnica portata avanti dalle milizie serbe di Slobodan Milosevic all’inizio degli anni ‘90. L’idea al fondo della giurisdizione universale è quella di assegnare netta prevalenza all’importanza e alla gravità delle infrazioni compiute, tali da offendere la comunità internazionale e da giustificarne la punizione da parte di qualunque membro di essa, quali possono considerarsi il genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra. La difficoltà di inquadramento del tema discende dal suo situarsi nella esatta confluenza di due universi paralleli, il mondo politico-diplomatico e il mondo giuridico.
Tra i casi più famosi di applicazione di giurisdizione universale si ricorda quello dell’ex dittatore cileno Augusto Pinochet, arrestato in Gran Bretagna nel 1998 dietro mandato di arresto emesso dal Regno di Spagna a causa di taluni casi di tortura contro cittadini spagnoli (celebre è la posizione di secca intransigenza assunta dal giudice spagnolo Baltasar Garzòn, protagonista del romanzo “Il Generale e il Giudice” di Luis Sepulveda). Seppure, dopo lunga battaglia legale, la Camera dei Lord ne impedì l’estradizione in Spagna a causa di problemi di salute, il precedente è di grande rilievo in quanto si giustificò, a carico di un ex Capo di Stato, la privazione temporanea della libertà temporale in virtù dell’applicazione della giurisdizione universale.
Recentemente, tale concetto è tornato alla ribalta a livello internazionale in seguito alla condanna dell’ex Capo di Stato del Ciad, Hissène Habrè. Il 30 maggio 2016 costituisce una data spartiacque in quanto è la data in cui, per la prima volta, si è giunti fino alla condanna di un ex Capo di Stato in applicazione della giurisdizione universale. Habrè era accusato di una serie di delitti perpetrati tra il 1982 e il 1990, fino al rovesciamento del suo regime. Nella specie, le Camere Straordinarie istituite presso la Corte del Senegal hanno riconosciuto una responsabilità diretta dell’imputato in relazione a diversi episodi. In uno di essi, è stato provato che l’ex Presidente avesse ordinato personalmente l’uccisione di due soldati, macchiandosi del reato di omicidio volontario; inoltre, si è riconosciuta come provata la costrizione verso una donna ad intrattenere plurimi rapporti sessuali, inquadrando tale stupro come tortura. Infine, la Corte ha riconosciuto la partecipazione attiva dell’imputato al disegno comune (c.d. Joint Criminal Enterprise, o Impresa Criminale Comune) teso a soffocare qualsivoglia forma di opposizione politica tramite l’instaurazione di un regime di terrore. Il contributo di Habrè è stato giudicato qualificato e determinante per l’esecuzione di tale disegno, secondo un meccanismo simile (ma non coincidente) con il meccanismo di imputazione applicato dall’art. 110 c.p. per il concorso di persone nel reato.
Nonostante l’indubbia vittoria riportata dalle vittime, impegnate da anni a chiedere giustizia, la decisione appare rilevante anche a livello istituzionale, almeno per due ragioni. La prima, già rilevata, è costituita dall’applicazione e dalla susseguente condanna dell’imputato, in virtù del meccanismo della giurisdizione universale. La seconda va ricercata nell’organo che ha inflitto tale condanna, le Camere Straordinarie in seno alla Corte del Senegal, istituite l’8 febbraio 2013 dopo un travagliato iter diplomatico e istituzionale. Si tratta, all’evidenza, di un organo ad hoc costituito presso uno Stato terzo e non già di una soluzione adottata dallo Stato in cui le violenze sono state commesse, nel senso della restaurazione della legalità oppure della pacificazione nazionale. In buona sostanza, siamo dinanzi ad una presa di coscienza all’interno della società africana, composta sia dall’Unione Africana che dai singoli Stati nazionali, la quale dimostra di voler affrontare e risolvere al suo interno i problemi e i disordini degli anni passati. Una giustizia internazionalizzata di tipo regionale, fondata sulla giurisdizione universale, quale quella applicata nel caso in commento, costituisce una via di mezzo tra la repressione di tali crimini a livello nazionale e a livello internazionale, nella specie ad opera della Corte Penale Internazionale (CPI). Seppur poco battuta fino a questo momento, la vocazione regionalistica africana sembra ora acquistare forza e rilievo anche nel campo della giustizia penale internazionale. Inoltre, essa sembra essere la più auspicabile a fronte dei numerosi dissidi creatisi nel tempo tra Stati africani e CPI (a far data dal 14 luglio 2008 in seguito al mandato di arresto emesso dalla procura della CPI nei confronti del Presidente del Sudan, Al-Bashir). In realtà, l’esercizio della giurisdizione universale e la conflittualità tra Organizzazioni africane, UA in testa, e CPI, sembrano essere questioni strettamente correlate. Non è un mistero, infatti, che la Procura della CPI sia stata spesso accusata apertamente da numerosi Stati Africani e dalla stessa UA di intervenire in senso unilaterale a carico delle questioni africane e di mancare di obiettività nei propri giudizi. In tal senso, al netto di eventuali preoccupazioni in punto di coerenza interna e di reale capacità di tali organi nel rendere una giustizia effettiva, l’idea è quella di attribuire tale competenza alla African Court of Human and People’s Rights, nel solco del metodo della collaborazione e cooperazione con la CPI consolidatosi negli altri due modelli regionali di tutela dei diritti umani, la European Court of Human Rights all’interno del sistema CEDU e la Corte Interamericana de Derechos Humanos all’interno del modello istituito dalla Convenzione Americana dei diritti dell’uomo.
Per il continente africano sembra schiudersi l’uscita da una minore età dei diritti, dopo le importanti conquiste in punto di sovranità nei confronti delle potenze coloniali. L’assioma della soluzione africana per il caso africano è l’inizio della speranza per una rapida ripresa del continente intero, non più ostaggio di se stesso ma aperto ad una rinascita civile e culturale, la quale non potrà che passare da una piena ed effettiva tutela dei diritti degli individui.
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Laurea magistrale in Giurisprudenza e Specializzazione in professioni legali. Tesi di laurea in Diritto Amministrativo e Tesi di Specializzazione in EU Law. Docente di Diritto Pubblico e EU Law presso "La Scuola Universitaria" - facoltà di Scienze Politiche.
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