Responsabilità (civile) dello Stato per violazione degli obblighi comunitari
La giurisprudenza nostrana ha connotato la forma di responsabilità in esame come contrattuale e non più quale aquiliana.
L’elenco delle fonti del diritto privato, contenuto nelle preleggi, non annovera, al suo interno, quelle di matrice comunitaria, tra le quali spiccano i regolamenti, direttamente applicabili nei Paesi membri, e le direttive, le quali invece necessitano di una legge che le recepisca.
La tipologia di responsabilità oggetto di trattazione è stata per la prima volta cristallizzata nella sentenza Frankovich del 1991, e le modalità con le quali può estrinsecarsi sono svariate.
Invero, la fattispecie tipica è rappresentata dal caso in cui l’Unione Europea emani una direttiva, che attribuisce ai cittadini specifici diritti, da recepire entro un certo termine nelle singole legislazioni nazionali.
Nel caso in cui i legislatori degli Stati comunitari non si adeguino, o lo facciano in ritardo, al cittadino verrà negato il godimento di un diritto che gli dovrebbe essere garantito e, pertanto, sono obbligati a risarcire il danno arrecatogli, non avendo ottemperato ad uno specifico onere.
Al fine di ottenere il risarcimento, il cittadino potrà rivolgersi ai giudici del Paese d’appartenenza.
A seguito della sentenza Frankovich, la Corte di Giustizia europea ha sancito la sussistenza di una violazione indipendentemente dall’organo che, in concreto, violi la direttiva.
Pertanto, anche la pubblica amministrazione può incorrere in una responsabilità di tal guisa.
La tendenza giurisprudenziale citata ha avuto sempre più seguito, fino a giungere alla rilevante affermazione per cui l’organo statale cui si attribuisca la violazione del diritto comunitario possa anche essere giudiziario.
L’ipotesi cui si fa riferimento è quella di un giudice che emetta una sentenza contraria ai principi del diritto comunitario.
Un caso specifico si ebbe con la sentenza Kerber, concernente un professore austriaco che svolgeva la propria attività anche in altri Stati membri dell’Unione Europea.
Com’è noto, un principio cardine del diritto comunitario è quello della libera circolazione di mezzi, persone, servizi e capitali.
Tuttavia, quando andò in pensione, l’ente previdenziale austriaco negò al professore la retribuzione per gli anni di servizio spesi lontani dall’Austria.
Ergo, il signor Kerber propose ricorso, ma il giudice nazionale non accolse la sua pretesa.
Pertanto, venne sollevata una questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea, posta l’incertezza sulla possibilità che una violazione del diritto potesse mutuarsi da una sentenza.
Detta Corte risolse il dubbio con una soluzione affermativa.
Indi, v’è il genus violazione statale del diritto comunitario, e le varie speces in cui questo si sustanzia.
Tuttavia, il portato delle sentenze del massimo organo giurisdizionale europeo non si spinsero fino a qualificare la responsabilità anche dello Stato, lasciando tale incombenza alle singole giurisprudenze dei Paesi membri.
Ogni ordinamento, infatti, ha proposto una propria soluzione.
In Italia, originariamente, la fattispecie oggetto di trattazione venne qualificata come responsabilità extracontrattuale, e tale assunto restò lungamente un punto fermo.
Nondimeno, con il passare del tempo, le esigenze evinte dalla prassi imposero una disamina più approfondita del fenomeno: su tutte, il nodo gordiano ineriva il differente termine decandenziale nel caso di riconduzione di una fattispecie all’alveo della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. ovvero ex art. 1218 c.c., rispettivamente quinquennale e decennale.
Inoltre, un altro aspetto di essenziale importanza era rappresentato dal momento in cui tale termine dovesse iniziare a farsi decorrere, cioè se questo fosse da cristallizzare nell’istante in cui scadeva il termine per il recepimento, ovvero nel lasso temporale intercorrente tra quando la direttiva fosse stata resa operativa e quando, invece, avrebbe dovuto esserlo.
Esulando da questi aspetti, comunque rilevanti, quello di maggior incisività era rappresentato dalla natura giuridica da attribuire a questo tipo di responsabilità.
L’affermazione di una responsabilità statale necessitava di argomentazioni più approfondite rispetto alla mera convenienza politico-giuridica.
Indi, quantunque la motivazione reale fosse quella di garantire ai ricorrenti termini decadenziali più lunghi, quella ufficiale fu decisamente più articolata.
Invero, la Corte di Cassazione mosse i passi da una disamina del rapporto tra ordinamento nazionale e comunitario che, com’è noto, può essere orientato o alla teoria monista, ossia ritenerli quale corpus unitario, ovvero dualista, considerandoli tra loro scissi.
La Suprema Corte propese per la seconda tesi, in modo tale da poter affermare che un atto illecito per il diritto comunitario, può non essere tale anche per quello interno.
Invero, nel caso in cui uno Stato non attui una direttiva, viola certamente il diritto dell’Unione Europea, ma ciò ha valore solo per quell’ordinamento, tanto che è soltanto l’istituzione comunitaria, e non anche il cittadino, a poter far valere la violazione.
Pertanto, la forma di responsabilità cui si può ascrivere, nel nostro ordinamento, quella in esame sarebbe una sorta di responsabilità da atto lecito.
Inoltre, in un’altra pronuncia, la Corte di Cassazione aveva affermato che la responsabilità contrattuale non debba per forza avere fonte contrattuale, potendo derivare da altre fonti riconducibili al dettato dell’art. 1173 c.c. .
Breve, la violazione avrebbe, dunque, valore soltanto per il diritto comunitario, e non per quello interno, nei confronti del quale la violazione del diritto di matrice europea è un atto lecito che però ex art. 1173 c.c. risulta essere un fatto idoneo a produrre l’obbligazione risarcitoria.
Il problema sotteso alla ricostruzione palesata dimostra che il motivo di fondo per cui si è arrivati a cristallizzare la responsabilità statale per violazione di norma comunitaria come ipotesi di responsabilità contrattuale è unicamente orientata a “lucrare” un termine prescrizionale più lungo.
La speces più interessante dell’istituto di cui si tratta è indubbiamente rappresentata dal caso degli specializzandi in medicina.
Invero, la prima direttiva europea sull’argomento fu la n. 362 del 1975, la quale imponeva il proprio recepimento entro il 31 dicembre 1982.
L’Italia, invece, le traspose in legge soltanto con il d.lgs. n. 257 del 1991.
A cagione di ciò, nelle sentenze della Corte di Cassazione più significative in materia, come ad esempio la n. 3283 del 2008 e la 12814 del 2009, affrontavano l’argomento delle borse di studio per la frequenza dei corsi di specializzazione.
E’ noto che la direttiva, seppur non rappresenti un atto c.d. “self-executing”, attribuisca pacificamente un diritto ad un cittadino, come testimoniato dalla massima della sentenza Frankovich.
Indi, la mancata attuazione di una direttiva è per la Corte di Giustizia censurabile ex artt. 10 e 249 del TFUE.
Tuttavia, sono stati frapposti svariati ostacoli al beneficio di tali direttive per gli specializzandi.
Invero, venne affermato che la giurisdizione fosse del giudice amministrativo e non di quello ordinario; che le domande dei ricorrenti andassero rigettate perché formulate quali forme di “adeguata remunerazione”, istituto tipico del rapporto di lavoro subordinato il quale, nel caso di specie, non era rinvenibile; che gli specializzandi non avessero dimostrato di aver frequentato i corsi di formazione nel rispetto delle norme comunitarie e che il diritto si fosse prescritto.
Da quanto testa esteso, appare di palmare evidenza che l’indirizzo maggioritario fosse assestato sulla qualificazione di tale azione come risarcimento da illecito extracontrattuale, inteso quale torto arrecato dallo Stato al diritto del singolo.
Posto che il riconoscimento della tutela risarcitoria sia pacifico, in caso di difformità tra il diritto comunitario e quello nazionale, non risolvibile né in via applicativa, né interpretativa, occorre sancire l’esatta qualificazione giuridica del fondamento rimediale del beneficiario della direttiva.
La premessa da cui muovono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione è che la violazione si realizza nell’ambito del diritto comunitario, pur essendo stata posta in essere dallo Stato con la mancata trasposizione della direttiva nel diritto interno.
Il modello di responsabilità, però, non può essere quello extracontrattuale, ma quello dell’obbligazione ex lege sancita e non adempiuta, avente carattere indennitario, i cui elementi dovranno essere stabiliti dal giudice.
L’argomento contrario, che configura la necessita di risarcire il danno da quantificare a posteriori, muove dalla c.d. “concezione debole” del rapporto tra Paesi membri ed Unione Europea, riservando ai primi di fornire sia il rimedio coercitivo, che il fondamento giuridico del torto subito, individuato, in Italia, nella comune responsabilità per danni.
Tale forma di responsabilità è definita “debole” perché la norma comunitaria entra unicamente in via indiretta nella fattispecie illecita.
L’indirizzo della Corte di Cassazione, invece, nelle pronunce in esame, evidenzia come quest’ultima abbia fatto propria una c.d. “concezione forte”, perché la violazione sussiste già in seno al diritto comunitario, che ne costituisce il fondamento giuridico.
Indi, lo Stato è così gravato da un’obbligazione congrua a riparare il pregiudizio dal medesimo arrecato, qualificata come indennitaria e non quale risarcitoria, perché non è più condizionata dai comuni presupposti di responsabilità.
Tale modello è simile a quello contrattuale o precontrattuale, poiché postula un diritto all’adempimento delle obbligazioni esistenti.
In questo modo, v’è una maggiore tutela del cittadino, la responsabilità viene disancorata da qualsiasi legame con il c.d. elemento soggettivo previsto dall’art. 2043 c.c. e si colma la crasi tra i cadi d’imputazione di un comportamento omissivo dello Stato e quelli in cui vi sia una specifica norma che attribuisca al beneficiario il diritto all’adempimento dell’obbligazione.
Ergo, il Supremo Consesso riconduce in unità il piano rimediale, postulando l’esistenza dell’obbligo statale nel momento in cui viene emanata la norma comunitaria.
Un’ulteriore ed importante pronuncia in merito all’argomento oggetto di disamina della Corte di Cassazione è rappresentato dalla sentenza n. 10813 del 2011, nella quale viene ripresa la ratio decidendi delle Sezioni Unite della stessa contenuto nella sentenza n. 9147 del 2009 in merito alla remunerazione degli specializzandi.
La dottrina ha aspramente criticato la pronuncia in esame poiché non è corretto collocare l’inadempimento dello Stato nell’alveo dell’art. 1218 c.c., essendo un comportamento antigiuridico soltanto per il diritto comunitario.
Al contrario, però, i Supremi Giudici hanno attribuito carattere assoluto a tale forma d’illecito, quantunque ne abbiano escluso l’antigiuridicità sul piano interno, avendo però considerato la pretesa degli specializzandi idonea ad essere ricondotta alla generale categoria dell’obbligazione risarcitoria, che necessariamente presuppone una condotta contra legem.
Tale scelta è frutto anche delle indicazioni fornite della Corte di Giustizia europea nei suoi arresti, dai quali si ha agio di inferire come venga ritenuta irrilevante la sussistenza o meno dell’elemento soggettivo per l’imputazione di detta forma di responsabilità.
Tuttavia, pur imponendo una forma di risarcimento del danno, quest’ultima viene ricondotta non al portato dell’art. 2043 c.c., ma a quello dell’art. 1176 c.c., il che ne palesa la natura contrattuale.
Ovviamente, siffatta definizione non va intesa strictu sensu, ma nell’ottica di svincolare la pretesa risarcitoria dall’inadempimento di un rapporto obbligatorio preesistente.
Nella pronuncia n. 10813 del 2011, la Corte di Cassazione sancisce che non sia necessario un rinvio pregiudiziale della questione alla Corte di Giustizia europea, stante che la giurisprudenza comunitaria è unanime sul punto.
Invero, per l’azione risarcitoria di diritto interno, questa prescrive, come requisiti indefettibili: che la direttiva sia sufficientemente determinata; che la regolamentazione spetti agli organi interni; che qualora quest’ultima manchi, il giudice possa risolvere analogicamente la questione; che è lecito applicare il termine prescrizionale di un’altra azione soltanto quando questa sia sufficientemente prevedibile da parte degli interessati e che il termine possa decorrere anche prima della concreta trasposizione, qualora il danno si sia manifestato anteriormente.
Tuttavia, in merito alla prescrizione, occorre comprendere se quanto affermato sulla decorrenza in sede comunitaria sia trasmigrabile anche nel nostro ordinamento, stanti i principi fondamentali dello stesso.
Come diffusamente ricordato, le direttive comunitarie in materia non sono state esattamente recepite, e l’obbligo di farlo non è venuto meno con il ritardo anzi, per essere correttamente rispettato, occorreva che lo Stato italiano le attuasse in ottica retroattiva, il che è perfettamente in linea con il dettato della sentenza Frankovich plurimamente menzionata.
Pertanto, lo Stato si trova nella condizione di duplice obbligo, tanto nei confronti dell’Unione Europea, per l’applicazione tardiva della direttiva, quanto dei singoli specializzandi, per non aver fatto percepire loro quanto dovutogli.
Con riferimento all’argomento della prescrizzione, la sentenza maggiormente chiarificatrice della Suprema Corte è la n. 5842 del 2010, che ha cristallizzato il dies a quo per la decorrenza nel giorno di conseguimento del diploma di specializzazione, successivo alla data in vigore della direttiva.
Tuttavia, questo dato ha mero valore astratto, perché in concreto l’obbligo risarcitorio per l’ordinamento interno nasce nel momento in cui l’inadempienza alla direttiva assume carattere nel normativo e cioè, nel caso di specie, dall’1 gennaio 1983.
Nondimeno, l’obbligo citato ha iniziato a produrre effetti soltanto dopo la sentenza Frankovich del 1991, e quindi solo successivamente alla stessa quest’ultimo ha assunto valore giuridicamente rilevante.
Pertanto, la decorrenza del termine non può essere antecedente a tale data, perché il diritto non era ancora venuto ad esistenza, a nulla rilevando l’emanazione del d.lgs. n. 275 del 1991, recepente la direttiva UE n. 82 de 1976, poiché non ha portata retroattiva.
Usquae tandem et ultra, la sentenza Frnakovich è divenuta definitiva dal 31 agosto 1997, indi sarebbe soltanto da quella data, così argomentando, che potrebbe decorrere il termine prescrizionale.
Tuttavia, il decorso del termine prescritto del diritto degli specializzandi non si ebbe né successivamente al d.lgs. n. 257 del 1991, né a seguito della pronuncia da ultimo citata, perché il danno si configura come tale a cagione del perdurare del comportamento omissivo da parte del legislatore interno, che solo un atto positivo di quest’ultimo poteva far venire meno, sia esso consistente nella mera rimozione del comportamento dannoso, ovvero prevedendo un ristoro per il ritardo.
E’ esattamente questo il motivo per cui lo Stato, che continuava ad essere obbligato, di giorno in giorno persisteva nell’alimentare il danno.
Breve, quello da permanenza della situazione dà luogo ad un risarcimento del danno per equivalente, non ad un adempimento specifico della direttiva, suffragato dal diuturno perdurare dello stesso, a fronte del quale i soggetti interessanti non possono fare altro che attendere.
In tale ottica, è necessario differenziare due ipotesi: l’adempimento potenziale nei confronti di tutti i soggetti titolari del diritto, oppure soltanto a vantaggio di alcuni di essi.
Nel primo caso, l’inadempimento statale risulta mutato e sostituito da una situazione in cui il parziale adempimento è oggettivamente apprezzabile dagli interessati, che vedono loro attribuito un diritto in modo parziale.
Tale nuova situazione comporta una valutazione differente rispetto al totale inadempimento, poiché incide in modo positivo sulla pretesa, e pertanto gli interessati devono ritenere che per ottenere il residuo di quanto loro spettante sia necessario agire ex lege per tutelarsi.
Ergo, il termine di prescrizione decennale inizierà a decorrere da tale data, poiché non si ha più l’incertezza sul fatto che lo Stato adempirà o meno la sua obbligazione, potendo ragionevolmente fare affidamento sull’ipotesi che lo faccia.
Nella seconda ipotesi, invece, si sostanzia una situazione equiparabile a quella del mero riconoscimento pro futuro, ed è l’evenienza configuratasi in Italia a seguito dell’emanazione del d.lgs. n. 257 del 1991, che aveva valore soltanto per gli specializzandi diplomati dopo il biennio 1991-1992, integrando un’ipotesi di adempimento parziale soggettivo.
Invero, il portato della disposizione esclude tutti gli altri soggetti, nei confronti dei quali lo Stato resta parimenti obbligato ed in toto inadempiente.
Differente è poi l’ipotesi in cui la direttiva tardivamente attuata concerna situazioni astratte in cui versano soggetti nei confronti dei quali, successivamente, si sarebbero verificate le condizioni fattuali che avrebbero fatto loro acquisire un diritto, nel caso in cui quest’ultimo venga riconosciuto solo ad alcuni di essi, poiché si trovano in particolari condizioni di fatto.
L’obbligo risarcitorio nei confronti degli altri soggetti non è però inciso dalla conoscenza del fatto che per alcuni v’è stato il ristoro della pretesa, apparendo ragionevole che i primi possano razionalmente intendere che lo Stato adempirà in via definitiva.
Tale linea operativa è stata seguita dalla Corte di Giustizia europea nella sentenza Carbonari, e fatta propria anche dallo Stato italiano che, ex art. 11 della legge n. 370 del 1999, ha provveduto al sopra citato adempimento parziale soggettivo nei confronti degli specializzandi.
Per quanto sopra esposto, è quindi a far data dal 1999 che si può ritenere certamente cristallizzato l’inadempimento, e dunque decorrente il termine prescrizionale decennale di cui all’art. 2946 c.c.
In conclusione, il diritto degli specializzandi ammessi alle scuole al risarcimento del danno dal 1983 al 1991 è prescritto solo se essi hanno agito giudizialmente ovvero non abbiano compiuto atti interruttori della prescrizione fino al 27 ottobre 2009.
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