Rettificazione anagrafica del sesso e sorte del vincolo coniugale. Categorie giuridiche e diritti fondamentali

Rettificazione anagrafica del sesso e sorte del vincolo coniugale. Categorie giuridiche e diritti fondamentali

La recentissima legge n. 76/2016 del 20 maggio scorso, meglio nota come Legge Cirinnà, nel disciplinare le unioni tra coppie dello stesso sesso e le convivenze di fatto sia etero che omosessuali,  ha dato risposta concreta ad  una serie di interrogativi che ormai da anni sono all’attenzione degli operatori del diritto e della popolazione comune.

Segno di civiltà per molti – soprattutto stando ad una valutazione comparatistica con il resto dei Paesi di tradizione similare a quella italiana – operazione rivoluzionaria e anti-famiglia canonica per i più conservatori – è certo che il provvedimento legislativo ha offerto uno status giuridico a fenomeni in larga crescita e fino a poco fa provvisti solo di sporadica tutela giurisdizionale.

Tra gli aspetti regolamentati dalla Legge suddetta, degno di attenzione peculiare è quello relativo alla sorte del rapporto matrimoniale nell’ipotesi in cui uno dei coniugi ottenga la rettificazione anagrafica del sesso.

Prima della Legge Cirinnà ed in assenza di altri testi normativi di riferimento, la giurisprudenza italiana non ha potuto far altro che tamponare il vuoto richiamando i diritti fondamentali della persona, tentando un faticoso bilanciamento tra il rispetto dei dettami Costituzionali a tutela della famiglia tradizionale e la salvaguardia dell’individuo come tale, a prescindere da status ed etichette giuridiche.

Tracciamo sinteticamente il punto della situazione, partendo dal periodo pre-Cirinnà.

Un primo, innovativo, intervento in tal senso si deve alla Corte Costituzionale

Con la sentenza n. 170/2014, essa ha tacciato di incostituzionalità il c.d. divorzio imposto, ossia l’automatica cessazione degli effetti civili del matrimonio a seguito del cambio di sesso di uno dei coniugi, in mancanza di altra forma di convivenza tutelata.

Nello specifico, gli artt. 2 e 4 L. 164/1982 e 31 D.lgs. 150/2011 prevedevano che nel caso in cui uno dei coniugi avesse proposto domanda di rettificazione anagrafica del sesso, su ordine del tribunale l’ufficiale di stato civile del Comune di nascita avrebbe dovuto procedere alla rettifica medesima, con la conseguenza dell’automatico scioglimento degli effetti del matrimonio.

La Corte di Cassazione, investita con ricorso da una coppia di coniugi, dei quali uno era nel frattempo diventato transessuale, in qualità di giudice remittente denuncia la normativa citata per contrasto gli artt. 2, 3 e 29 Cost., nonché con gli artt. 8 e 12 C.E.D.U

La Consulta accoglie la questione di illegittimità costituzionale, ma in riferimento al solo parametro di cui all’art. 2 Cost.

Richiamando un proprio precedente, la Corte afferma che nella nozione di “formazioni sociali” deve essere compresa anche l’unione omosessuale, quale stabile convivenza tra persone dello stesso sesso, cui va garantito il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendo dall’ordinamento riconoscimento e presidio con i connessi diritti ed i doveri, nei modi previsti dalla legge.

Invero sin dagli anni ’80 del secolo scorso la Corte Costituzionale ha ritenuto che il diritto al cambiamento del sesso rientra nell’area dei diritti individuali inviolabili. Si è evocato, in particolare, un diritto all’identità di genere, protetto dall’art. 2 Cost. e a livello di diritto positivo garantito  dalla L. 164/1982 quale segnale di una civiltà in progressiva evoluzione (Corte Cost., n. 161/1985).

Se dunque il diritto al cambiamento di sesso rientra nell’alveo dei diritti fondamentali come parte del profilo relazionale e personale della dignità umana, logico corollario è, nella prospettiva tracciata dal Giudice delle Leggi, che il transessuale abbia il diritto di conservare il vincolo coniugale, almeno fino a quando non possa fruire di una alternativa ed altrettanto garantista forma di tutela giuridica del suo rapporto di coppia.

Ciò posto, la Corte reputa fuorviante il richiamo agli altri parametri di legittimità costituzionale, sulla base della evidente e persistente differenza tra l’istituto del matrimonio e le unioni omosessuali.

Non è pertinente la presunta violazione degli artt. 3 e 29 Cost., perché l’unica forma di famiglia riconosciuta espressamente dalla Costituzione è quella fondata sul matrimonio e allora non si profilano ragioni di diseguaglianza ed irragionevolezza nel trattare diversamente fattispecie differenti.

Né risultano violati gli artt. 8 e 12 C.E.D.U., poiché gli Stati preservano un margine di apprezzamento nell’individuazione di strumenti di tutela da offrire alle coppie same sex.

In conclusione, la Corte Costituzionale accoglie la questione di incostituzionalità non perché la normativa censurata impone sic et simpliciter la cessazione degli effetti civili del matrimonio nel caso di rettificazione del sesso di uno dei coniugi, ma perché l’ordinamento, non contemplando una qualche forma di protezione giuridica per una unione affettiva che rientra nelle formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost., è pericolosamente lacunoso.

Seguendo le orme del Giudice Costituzionale, anche la Corte di Cassazione si è pronunciata per l’illegittimità dell’annotazione, apposta all’atto matrimoniale, della cessazione degli effetti civili a causa del cambio di sesso di un coniuge.

La conservazione dello statuto di diritti e doveri propri del modello matrimoniale è sottoposta alla condizione temporale risolutiva costituita dalla nuova regolamentazione.

L’art. 29 Cost. riconosce solo l’unione tra persone di sesso diverso fondata sul matrimonio, e allora non è illogico che si precluda a coppie omosessuali di unirsi civilmente in matrimonio e neppure a coppie divenute tali di conservare a tempo indeterminato il precedente coniugio. Ciò che è illogico è l’indifferenza dell’ordinamento dinanzi a situazioni che necessitano di essere disciplinate.

Allora è giocoforza concludere che fin quando il legislatore non prenderà posizione sul punto, deve considerarsi civilisticamente intatto il vincolo matrimoniale, salvo, ovviamente, non siano le parti stesse a volerne lo scioglimento.

Gli arresti giurisprudenziali citati sono stati di monito per il legislatore.

Dopo un travagliato iter fatto di stralci ed emendamenti, la Legge Cirinnà ha espressamente chiarito che “Alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l’automatica instaurazione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”.

La disposizione citata colma il vulnus introducendo quella tanto auspicata alternativa forma di riconoscimento e salvaguardia a relazioni (divenute) same sex.

Se uno dei coniugi ottiene la rettificazione del sesso, la scelta sulla perduranza del vincolo è rimessa comunque alle parti nella loro libertà ed autonomia. Sempre che non abbiano manifestato l’intenzione di interrompere il coniugio, la relazione affettiva assume altra veste, quella di “unione civile”.

In proposito, l’art. 1, comma 1, recita che “La presente legge istituisce l’unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione e reca la disciplina delle convivenze di fatto”.

L’innovazione legislativa si è spinta fino a positivizzare la natura giuridica delle unioni omosessuali. Non più solo la giurisprudenza, ma persino la legge riconosce esplicitamente le unioni civili come formazioni sociali in cui l’individuo può manifestare e coltivare appieno la propria personalità in condizioni di pari dignità sociale ed eguaglianza rispetto a chiunque altro.

DALILA  DELL’ITALIA

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