Richiesta di soccorso e sottovalutazione del rischio: la responsabilità per colpa dell’operatore del 118
Nota a Cassazione penale sez. IV n. 40036 del 27/09/2016
di Pierfrancesco De Marco
La Corte di Cassazione, con una recentissima sentenza, torna ad affrontare l’ampia e complessa materia della responsabilità sanitaria, soffermandosi stavolta sugli obblighi e sui compiti a cui sono tenuti gli operatori del 118.
LA VICENDA
Un uomo veniva colpito da crisi epilettica. La madre chiamava il 118 chiedendo l’intervento di un’ambulanza. L’operatore però, senza assumere specifiche informazioni ma limitandosi ad ascoltare quanto riferiva la donna al telefono, consigliava di aspettare sostenendo che la crisi epilettica si sarebbe sicuramente risolta da sola nel giro di pochi minuti, altrimenti di richiamare o di accompagnarlo con la macchina privata. Trascorso altro tempo senza che la crisi accennasse a passare, la donna contattava nuovamente il 118: finalmente l’operatore decideva di inviare sul posto un’ambulanza, priva però di medico rianimatore. L’uomo per il prolungarsi della crisi epilettica aveva un collasso cardiocircolatorio e decedeva.
Instaurato il procedimento penale nei confronti dell’operatore del 118, la Corte di Appello lo condannava riconoscendo la sussistenza del nesso causale tra il comportamento negligente da questi tenuto e la morte del paziente per la prolungata crisi epilettica.
Avverso la sentenza di condanna l’operatore del 118 ricorreva innanzi alla Corte di Cassazione.
LA DECISIONE
Con la sentenza n. 40036 depositata il 27 settembre 2016, la quarta sezione penale della Suprema Corte ha confermato l’impianto motivazionale della Corte di Appello, evidenziando la responsabilità dell’operatore del 118, venuto meno ai suoi compiti nella valutazione preliminare e gestione della richiesta di soccorso.
Afferma la Cassazione, infatti, che l’operatore del 118 nell’espletamento dei suoi compiti non deve limitarsi a ricevere la richiesta di soccorso dell’utente alla quale decidere di dar seguito solo secondo codificati e non discrezionali indici di gravità, ma deve valutare, in base alle informazioni richieste all’interlocutore e sulla scorta delle proprie conoscenze professionali, la criticità dell’evento, dando adeguata risposta nei tempi stabiliti.
Nel caso al vaglio dei Supremi Giudici, invece, era stato riscontrato – grazie alle prove testimoniali ed alla registrazione della telefonata – la negligenza dell’operatore, il quale si limitò ad ascoltare quanto riferitogli al telefono dalla persona che richiedeva il soccorso, senza premurarsi di fare specifiche domande per conoscere l’ora di insorgenza della crisi, la durata, le condizioni del paziente (cosciente o incosciente) al momento della telefonata. Osserva, poi, la Corte che l’imputato anzichè assumere utili informazioni, quindi senza avere contezza della situazione, azzardava persino una prognosi sostenendo che la crisi si sarebbe risolta da sola nel giro di pochi minuti, aggiungendo (senza sapere se quella fosse o meno la prima crisi epilettica da cui il paziente veniva colpito) che già il paziente aveva sicuramente avuto altre crisi in precedenza risoltesi da sole.
Dunque per la Cassazione “correttamente il Giudice [di appello] ha stigmatizzato la leggerezza, la superficialità il sostanziale cambio di prospettiva operato dall'[imputato] il quale, privo di informazioni specifiche, che non aveva richiesto, aveva rimesso il da farsi agli stessi ignoti interlocutori, senza peraltro fornire specifiche indicazioni cui attenersi, ponendo unilateralmente fine alla conversazione, lasciando in sospeso la questione centrale, sulle iniziative da intraprendere qualora la crisi epilettica non fosse passata in un tempo ragionevole”
Indubitabile, dunque, secondo la Suprema Corte la negligenza dell’operatore, il quale senza assumere le opportune informazioni sullo stato del paziente si era addirittura avventurato in valutazioni mediche fuorvianti ed elusive rispetto alla richiesta di soccorso.
Solo alla seconda telefonata, dopo che si era perso tempo prezioso, decideva di inviare un’ambulanza, però senza medico rianimatore e, quindi, impossibilitata a salvare la vita al paziente colpito da collasso cardiocircolatorio per il protrarsi della crisi epilettica. Peraltro la Corte ritiene raggiunta la ragionevole certezza del nesso di causalità tra l’evento e la morte del paziente.
Secondo la Suprema Corte, “se l'[operatore] avesse esplorato, con la diligenza ed il rispetto dei protocolli richiesti dal caso concreto, le reali condizioni del [paziente], valutando l’urgenza dell’intervento, i pregressi stati morbosi, la durata della crisi (che già si protraeva al momento del primo contatto), sarebbe stato in grado di fornire adeguate risposte all’interlocutore, veicolando l’assistenza necessaria nel ragionevole termine prospettato (un quarto d’ora, venti minuti); ovvero avrebbe indirizzato il richiedente verso il trasporto familiare, se ne avesse ravvisato la convenienza rispetto ai tempi di verosimile intervento e previa la constatazione di pratica realizzabilità. A fronte di un accennato quadro clinico realmente preoccupante e carico di insidie, l’aver condotto la interlocuzione dirottandola verso un nulla di fatto, che significava la mancata presa in carico del paziente, al contempo demandando al congiunto del [paziente] le successive opzioni di assistenza sul presupposto (peraltro ignoto all’interlocutore) che non era la prima crisi epilettica e che sarebbe passata come le precedenti, oltre a costituire motivo di rimprovero in capo all'[imputato] per la superficialità dell’approccio e per inosservanza dello specifico protocollo, sostanzia la concretizzazione del rischio che le regole cautelari miravano a prevenire, rendendo palese l’assoluta sottovalutazione della richiesta di intervento e la tardività del successivo ripensamento“.
Il ricorso viene, quindi, respinto e confermata la sentenza della Corte di appello.
La sentenza in commento, pur non contenendo significative innovazioni sui consolidati principi in materia di responsabilità sanitaria, è molto interessante perchè esplora e perimetra gli ambiti di responsabilità ed i compiti degli operatori del 118. Solitamente nei procedimenti per responsabilità sanitaria sono chiamati a rispondere medici ed infermieri: con questa sentenza si dà il giusto risalto anche alla figura dell’operatore del 118, il primo contatto che l’utente ha al momento della richiesta di soccorso. Viene, in sostanza, evidenziato che gli operatori del 118 non sono dei meri “centralinisti” chiamati a smistare le richieste di soccorso, bensì devono vagliare il caso assumendo le utili informazioni (secondo concreti protocolli da adattare al caso specifico anche in base alle conoscenze professionali) per dare concreta e pronta risposta all’emergenza, risultando spesso salva-vita.
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Pierfrancesco De Marco
Avvocato con patrocinio innanzi alle Giurisdizioni Superiori con studio a Trebisacce e Castrovillari.
Si occupa di civile, penale ed amministrativo.
Collabora con studi di Roma, Napoli, Cosenza e Catanzaro.
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