Rischi del Jobs Act: “Il lavoro non è una merce”
La riorganizzazione del diritto del lavoro che sta alla base del Jobs Act mira, fondamentalmente, a far si che il datore di lavoro acquisisca quanta più flessibilità possibile nell’utilizzazione della manodopera, in moda tale che questo sia più competitivo e concorrenziale nel libero mercato accanto alle altre imprese.
La globalizzazione, infatti, ha giocato un ruolo di primaria importanza nello spingere questa riforma, fenomeno questo che è stato innalzato a “idolo”, rischiando nel contempo di mettere a repentaglio anni di conquista nel campo della giustizia sociale.
Sicuramente la globalizzazione è un fenomeno che esiste e di questo ne va preso atto, pertanto sarebbe sbagliato iniziare una battaglia contro questo, perché chiunque ne uscirebbe malconcio.
Certamente la globalizzazione è un “fatto” e che come tale va interpretato e capito, ma pensare che questo sia un fenomeno che va difeso sempre e comunque a spada tratta, potrebbe risultare un errore, portando a risultati disastrosi.
Idolatrare un pensiero, sacrificando a questo ogni cosa, può portare alla distorsione della realtà, perdendo il senso della verità.
È bene pensare a tutto il percorso del diritto del lavoro che comincia a nascere nella prima rivoluzione industriale, quando iniziavano ad esserci le prime esigenze di tutela, poi il percorso durante tutto l’ultimo secolo è stato contraddistinto da conquiste sociali, il diritto del lavoro va avanti, cresce sempre aggiungendo protezioni, mai togliendone.
Ma adesso, che il diritto del lavoro viene considerato un male che impedisce la libera e veloce circolazione della ricchezza, noi assistiamo ad un attacco al diritto del lavoro, che somiglia molto ad un ritorno del diritto del lavoro nel libero mercato (cioè non regolamentato), con tutti i rischi che ne possono derivare.
Ma ci siamo mai veramente chiesti che cos’è il lavoro? La risposta merita approfondimento perché se non riusciamo a rispondere, non potremmo analizzare le barriere poste dal diritto del lavoro come norme di diseconomia che vanno estirpate perché sacrificano l’efficienza del mercato.
La ricerca di tale risposta potrebbe farci capire che magari il lavoro è veramente qualcosa di diverso rispetto a come lo concepisce il Jobs Act, forse si sta perdendo il significato del lavoro.
Il lavoro, secondo due convenzioni internazionali fondamentali (Trattato di Versailles ’19; Dichiarazione di Philadelphia ’44), viene definito in negativo come “il lavoro non è una merce”.
L’obiettivo di questo scritto è quello di comprendere se questa definizione è soltanto una sovrastruttura giuridica, oppure, queste semplicemente non fanno altro che prendere atto di un dato antropologicamente, socialmente e giuridicamente comune.
Deve subito precisarsi che il fenomeno del lavoro si può analizzare non soltanto guardando ai testi giuridici ma anche analizzando testi non giuridici. Ed invero, per giungere agevolmente al nostro scopo, la cosa migliore è prendere come riferimento uno dei testi più antichi com’è la Bibbia, e vedere se c’è qualche riferimento al lavoro comune, essendo questo peraltro un testo diffuso in varie parti del pianeta.
Aldilà degli aspetti teologici del testo, la struttura relazionale tra uomo e Dio è una struttura essenzialmente giuridica; vengono utilizzate nella Bibbia delle strutture prettamente normative, fenomeno dovuto al fatto che nelle società antiche il potere temporale si fondeva in maniera inestricabile con il potere religioso, infatti, l’idea di Stato laico è un’idea solo post-illuminista.
In particolare possiamo soffermarci su un particolare salmo (104:23), il più antico di tutti i salmi, avendo circa 3500 anni; questo afferma: “Man goes forth unto his work and to his labour until the evening” (l’uomo va avanti con il suo lavoro fino alla sera, fino a quando il sole tramonta). Leggendo questo insieme al versetto precedente (104:22), si ricava come il sole sorge la mattina per tramontare, l’uomo esce la mattina per lavorare.
Perché questo salmo è importante? Perché il salmista ci mostra che il lavoro è coessenziale con il ritmo della vita, un elemento inscindibile all’essere umano.
Allora forse quella definizione vista sopra, non è poi così lontana da questo elemento comune, nel fatto che il lavoro è un attributo, una qualità della persona, poiché il lavoro non si può prestare senza il coinvolgimento del singolo; tutto ciò comporta che il diritto che regola questo “esistere lavorando”, è un diritto che appartiene al diritto delle persone e non al diritto degli scambi.
Fatte queste lunghe premesse, possiamo affermare come il datore di lavoro ha bisogno di un lavoratore che si obblighi, non perché schiavo, a dire di si. Il datore deve avere un uomo che si obblighi liberamente, mediante contratto, ad obbedire agli ordini lavorativi.
Le norme, pertanto, devono tutelare il lavoratore e vigilare sul fatto che il potere di etero-direzione del datore, il cui fondamento è il contratto di lavoro, non si trasformi in un potere di ridurre in schiavitù il lavoratore.
Le norme devono porre quindi dei limiti, dei divieti al datore di lavoro. Ecco il rischio del modello della flessicurezza adottato con il Jobs Act, spogliare di qualsiasi protezione il lavoratore per favorire la flessibilità delle imprese, diminuendo i costi del lavoro.
Siamo sicuri che il lavoratore non stia diventando una merce?
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Roberto Priolo
Nato a Sondrio nel 1991, ha conseguito la laurea in giurisprudenza nel luglio 2015 con pieni voti e lode, presso l'Università degli Studi di Palermo. Nel settembre 2016 ha conseguito il master in "Giurista d'Impresa" presso la Business School MeliusForm di Roma. Attualmente collabora con l’Avvocatura INPS di Trapani occupandosi, prevalentemente, del contenzioso in materia previdenziale e giuslavoristica. Inoltre, collabora con il Tribunale di Trapani - Sezione Lavoro, occupandosi in particolare della redazione dei vari provvedimenti dell'Ufficio, comprese le sentenze.
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