Risoluzione e recesso: i due rimedi sono incompatibili funzionalmente e strutturalmente
Cass. Civ., sez. I, 30 novembre 2015, n. 24337
I rapporti tra azione di risoluzione e di risarcimento integrale da una parte, e azione di recesso e di ritenzione della caparra dall’altro, si pongono in termini di assoluta incompatibilità strutturale e funzionale: proposta la domanda di risoluzione volta al riconoscimento del diritto al risarcimento integrale dei danni asseritamente subiti, non può ritenersene consentita la trasformazione in domanda di recesso con ritenzione di caparra; diversamente verrebbe vanificata la stessa funzione della caparra, quella, cioè, di consentire una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l’instaurazione di un giudizio contenzioso.
a cura dell’avv. Carolina Sodano
La Corte analizza i rapporti tra azione di risoluzione del contratto e risarcimento del danno e recesso con ritenzione della caparra.
Nei contratti a prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le proprie obbligazioni, l’altro può, a sua scelta, chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto ex art. 1453 c.c. fermo restano, in ogni caso il risarcimento del danno.
Tuttavia, laddove sia previsto dalle legge o dal contratto, la parte può esercitare il diritto di recesso, provocando lo scioglimento unilaterale del contratto, con diritto di ritenzione della caparra o di richiedere ed ottenere la restituzione del doppio della somma versata.
Il recesso, pertanto, va ad inquadrarsi nel novero dei diritti potestativi riconosciuti alle parti contrattuali al fine di porre rimedio a difetti genetici o funzionali del contratto (recesso impugnazione, art. 1385 c.c. II comma).
In tal caso, la liquidazione del danno è operata in maniera preventiva e convenzionale dalle parti e la caparra, in considerazione della sua natura composita, assolve anche la funzione di autotutela.
Resta ferma la possibilità per la parte non inadempiente di richiedere il risarcimento del maggior danno, azionando il rimedio ordinario della risoluzione del contratto.
Venendo al caso sottoposto al vaglio del Supremo Consesso, il promissario acquirente ha impugnato la sentenza della Corte Di Appello di Napoli di conferma della decisione di primo grado.
Ed infatti, il primo Giudice aveva accolto la domanda di risoluzione del contratto preliminare di compravendita, per inadempimento del promittente venditore, condannando quest’ultimo a restituire al promissario acquirente la somma di euro 25.822,84 versata al momento del preliminare a titolo di caparra confirmatoria, oltre al pagamento della somma di Euro 6.197,48 e di Euro 430,93 a titolo di risarcimento del danno.
La Corte di appello ha, invece, rigettato la domanda volta ad ottenere il doppio della caparra confirmatoria, giacché quest’ultima si configura come domanda nuova, inammissibile in appello. Difatti, l’art. 345 c.p.c. statuisce: «nel giudizio di appello non possono proporsi domande nuove, e se proposte, devono essere dichiarate inammissibili».
La Corte, nel decidere il caso sottoposto al suo esame, riafferma il principio di diritto già enunciato dagli Ermellini con la sentenza n. 553/2009, così statuendo:
“I rapporti tra azione di risoluzione e di risarcimento integrale da una parte, e azione di recesso e di ritenzione della caparra dall’altro, si pongono in termini di assoluta incompatibilità strutturale e funzionale: proposta la domanda di risoluzione volta al riconoscimento del diritto al risarcimento integrale dei danni asseritamente subiti, non può ritenersene consentita la trasformazione in domanda di recesso con ritenzione di caparra; diversamente verrebbe vanificata la stessa funzione della caparra, quella, cioè, di consentire una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l’instaurazione di un giudizio contenzioso”.
I due rimedi si caratterizzano per evidenti disomogeneità morfologiche e funzionali, che rendono inammissibile la trasformazione dell’una nell’altra.
Con tale pronuncia, la Cassazione prende le distanze dall’ordinanza n. 24.841 del 2011 dove si afferma che la parte, in sostituzione della domanda adempimento o di risoluzione contrattuale per inadempimento con domanda di risarcimento del danno, può legittimamente invocare (senza incorrere nelle preclusioni derivanti dalla proposizione dei ‘nova’ in sede di gravame) la facoltà di cui all’art. 1385 c.c., comma 2, poiché tale modificazione delle istanze originarie costituisce legittimo esercizio di un perdurante diritto di recesso rispetto alla domanda di adempimento, ed un’istanza di ampiezza più ridotta rispetto all’azione di risoluzione (Cass. Sez. 2, 11-1-1999 n. 186; Sez. 2, 23-9-1994 n. 7644).
La stessa Corte osserva che tale decisione si fonda su una giurisprudenza di legittimità risalente nel tempo e dei tutto superata dalla decisione delle sezioni unite del 2009, da cui detta ordinanza si discosta senza contrastarne la motivazione con alcun argomento convincente e senza tenere conto dell’ulteriore rilievo che chi ammette una fungibilità tra le azioni lato sensu risarcitorie ignora che ciò si risolverebbe nella indiscriminata e gratuita opportunità di modificare, per ragioni di mera convenienza economica, la strategia processuale iniziale dopo averne sperimentato gli esiti.
Pertanto alla parte non è riconosciuto alcuno ius variandi in corso d’opera.
Applicando tali principi al caso esaminato, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e confermato la sentenza resa dalla Corte di Appello di Napoli.
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