Ritorna l’autonomia del danno morale
a cura di Giuseppe Di Micco
E’ quanto statuito dalla terza sezione civile della Corte di Cassazione, nella sentenza, n. 3260/2016, accogliendo il ricorso di un uomo, rimasto gravemente infortunato a seguito di un sinistro.
Ai fini della quantificazione equitativa del danno morale, l’utilizzo del metodo del rapporto percentuale rispetto alla quantificazione del danno biologico individuato nelle tabelle in uso, prima della Sentenza delle SS.UU. n.26972 del 2008, non comporta che accertato il prima, il secondo non abbia non abbia bisogno di alcun accertamento, perché se così fosse si duplicherebbe il risarcimento degli stessi pregiudizi; invece, il metodo suddetto va utilizzato solo come parametro equitativo, fermo restando l’accertamento con metodo presuntivo, attenendo la sofferenza morale ad un bene immateriale, dell’esistenza del pregiudizio subito, attraverso l’individuazione delle ripercussioni negative sul valore uomo sulla base della necessaria allegazione del tipo di pregiudizio e dei fatti dai quali lo stesso emerge da parte di chi ne chiede il ristoro.
Al ricorrente, quale conducente di una moto, il Tribunale riconosceva oltre 600.000,00 euro quale risarcimento del danno a seguito di un sinistro stradale, ritenendo la responsabilità esclusiva del conducente di un furgone.
In sede di appello proposto dalla Compagnia Assicuratrice, la Corte d’Appello di Roma ritenne la responsabilità concorrente dei due conducenti – per due terzi a carico di quello del furgone, per il restante terzo a carico del conducente della moto – determinando il risarcimento nella minor somma di poco più di euro 370.000,00.
Avverso la suddetta sentenza, il conducente della moto ha proposto ricorso per Cassazione
Il ricorrente contesta la quantificazione che il giudice aveva fatto del danno non patrimoniale sotto il profilo del danno morale soggettivo, che il primo giudice aveva parametrato ad una percentuale (pari quasi a un terzo) del danno non patrimoniale da invalidità permanente, mentre in sede d’appello ne veniva chiesta la riconsiderazione in aumento, poiché il danno morale avrebbe potuto rappresentare 1/2 del danno da invalidità permanente (danno biologico per la lesione dell’integrità psicofisica).
La Corte d’Appello, nell’affrontare l’appello incidentale, aveva stabilito che secondo l’arresto delle Sezioni Unite (n. 26972 del 2008), il danno morale soggettivo non potesse configurarsi come conseguenza immediata e diretta della durata e dell’intensità della lesione psicofisica, con la conseguenza che – quando non scompare del tutto – postula una “dimostrazione” e motivazione specifica.
Ha poi ritenuto che la sentenza impugnata aveva adottato un meccanismo escluso dalla giurisprudenza di legittimità menzionata, quantificando il danno in rapporto al danno biologico secondo una certa proporzione aritmetica; infine, ha ritenuto che in assenza di appello “principale” andava esclusa l’elevazione richiesta.
Per la Corte, “dalla circostanza che nelle sentenza impugnata era stato utilizzato un metodo di quantificazione equitativa del danno ‘morale’ come frazione del danno biologico, ha fatto derivare l’esistenza di un automatismo (vietato sulla base della giurisprudenza richiamata) tra l’accertamento del danno per lesione del bene salute, costituzionalmente tutelato, (danno biologico) e il riconoscimento automatico della lesione di interessi inerenti la persona non presidiati dal suddetto diritto costituzionale alla salute“.
La Corte di merito avrebbe dovuto verificare quali fossero i pregiudizi patrimoniali risarciti in primo grado con la formula “danno morale” attraverso una quantificazione equitativa, in percentuale al danno non patrimoniale a titolo di lesione dell’integrità psicofisica del danneggiato (conseguenze di un reato che aveva leso il bene costituzionale della salute); poi, se era stata presa in considerazione solo la sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé, dando adeguato rilievo all’intensità e alla durata nei tempo ai fini della quantificazione; ed infine se era stata presa in considerazione la sofferenza morale determinata dal non poter fare, quale sofferenza psicologica patita dal danneggiato nel prendere atto delle proprie condizioni fisiche di grave inabilità, che ne avevano stravolto le abitudini di vita in età giovanissima, con modifica della personalità (che appaiono essere i pregiudizi dei quali l’appellante lamentava la mancata presa in considerazione da parte del giudice di primo grado).
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Giuseppe Di Micco
Laureato in Giurisprudenza con votazione di 110 e lode, tesi in diritto canonico, relatore prof. Mario Tedeschi. Ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli, mediante una diretta attività di partecipazione alle udienze in tribunale, nonché nello studio dei casi pratici per la redazione di atti giudiziari e pareri. Praticante abilitato, collabora presso studi legali in materia di diritto civile e diritto del lavoro. Dottore di ricerca in diritto canonico ed ecclesiastico presso l’Università degli Studi di Milano, ha approfondito come tema di ricerca il problema della consumazione del matrimonio nei diritti religiosi (diritto ebraico, canonico, ed islamico). Collaboratore alle cattedre di diritto ecclesiastico, diritto canonico, diritti confessionali e storia e sistemi dei rapporti tra Stato e Chiesa, del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli. Collabora attivamente anche presso le strutture ecclesiali, in particolare negli ambiti liturgici e della formazione giovanile.
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