Sezioni Unite, la corretta applicazione della continuazione a seguito del c.d. bilanciamento delle circostanze

Sezioni Unite, la corretta applicazione della continuazione a seguito del c.d. bilanciamento delle circostanze

Cassazione penale, SS.UU., sentenza n. 31699 del 21/07/2016

“Il limite di aumento di pena non inferiore ad un terzo di quella stabilita per il reato più grave, previsto dall’art. 81, comma 4, cod. pen. nei confronti dei soggetti ai quali è stata applicata la recidiva di cui all’art. 99, comma 4, cod. pen., opera anche quando il giudice consideri la recidiva stessa equivalente alle riconosciute attenuanti.”

Fatto

Il Tribunale di Bergamo, con sentenza del 12.02.2015, riconosceva l’imputato responsabile dei reati di cui all’art. 635, co. 1 e 2,  n. 1, 81, co. 2, e 610 c.p..

Il giudice di merito, unificava sotto il vincolo della continuazione e riconosceva le attenuanti generiche, ritenute equivalenti alla contestata recidiva reiterata, quindi l’imputato veniva condannato alla pena di mesi sei di reclusione, considerando una pena-base di mesi otto, aumentata di un mese per la continuazione  e ridotta di un terzo per il rito.

Avverso tale decisione il Procuratore Generale presso la Corte di appello di Brescia, proponeva ricorso per Cassazione denunciando la violazione di legge in ordine alla corretta applicazione degli artt. 81, co. 4, e 99, co. 4, c.p., nonché la conseguente irrogazione della pena non conforme alla legge.

In sostanza, l’Ufficio lamentava l’errata applicazione, da parte del Tribunale, dell’aumento di pena per la continuazione non corrispondente a quello “non inferiore a un terzo per la pena stabilita per il reato più grave” (art. 81, co. 4), con riferimento ai soggetti ai quali era stata applicata la recidiva reiterata.

Di fatto il Giudice, in sentenza, operava un giudizio di equivalenza tra attenuanti generiche e recidiva, implicitamente esteso anche all’aggravante di cui all’art. 635, co. 2, n. 1 cod. pen., quindi applicava l’aumento di pena a titolo di continuazione pari ad un mese, mentre secondo l’Ufficio del Procuratore Generale, la corretta applicazione dell’art. 81, co. 4., avrebbe dovuto condurre il Tribunale ad irrogare un aumento di un mese e giorni venti di reclusione.

Giunto alla Quinta Sezione della Suprema Corte, il ricorso veniva assegnato alle Sezioni Unite, per risolvere il contrasto giurisprudenziale circa la corretta applicazione dell’aumento non inferiore al terzo previsto dall’art. 81, co. 4, in caso di riconosciuta equivalenza delle circostanze attenuanti alla recidiva reiterata.

La decisione

La Suprema Corte, al fine di dare una corretta soluzione al caso in esame, operava una complessa disamina della precedente giurisprudenza e richiamava l’art. 81 del codice penale: “Fermi restando i limiti indicati al terzo comma, se i reati in concorso formale o in continuazione con quello più grave sono commessi da soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall’articolo 99, quarto comma, l’aumento della quantità non può essere comunque inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave”.

La Corte rilevava che in giurisprudenza vi erano due orientamenti contrapposti, uno maggioritario ed uno minoritario.

Il primo, secondo cui la recidiva “deve ritenersi applicata anche in caso di ritenuta equivalenza della stessa alle attenuanti, operando, così, il limite minimo per l’aumento indicato dall’art. 81, quarto comma, cod. pen.”.

L’altro orientamento affermava in realtà, che il giudizio di equivalenza produceva un sostanziale “annullamento” dell’efficacia della recidiva, la quale non poteva ritenersi applicata, con la conseguenza che l’aumento per la continuazione non sottostava al predetto limite.

Ma il nodo essenziale da sciogliere, per risolvere il dubbio interpretativo circa la corretta applicazione dell’art. 81 c.p., consisteva nell’individuare la corretta accezione, proprio del verbo “applicare”.

I giudici di legittimità richiamavano la sentenza Calibè, che  a sua volta richiamava la sentenza Grassi (SS. UU. N. 17 del 18.06.1991, Grassi, in Rv. 187856).

Secondo la predetta sentenza, il verbo “applicare” una norma, è tale “se concretamente ed effettivamente fa esercitare ad essa uno qualsiasi degli effetti che le sono propri e da essa dipendono con nesso di causalità giuridica necessaria, in modo che senza di essa non possono derivare quegli effetti che il giudice riconosce nel farne uso”.

Le Sezioni Unite pertanto, ribadivano il concetto secondo il quale nell’applicare la recidiva, il giudice doveva effettuare un accertamento complesso inerente la maggiore colpevolezza e l’aumentata capacità a delinquere, che solo in caso di esito negativo, era idoneo ad esclude ogni conseguenza.

Diversamente, a seguito della valutazione comparativa operata nel giudizio di bilanciamento, la recidiva si considera riconosciuta ed applicata, in quanto le viene attribuita quella “consistenza oggettiva” che ne consente il confronto con le attenuanti concorrenti.

In sostanza, la recidiva, esplica i propri effetti già nel giudizio comparativo anche quando il giudice la ritiene equivalente rispetto alle circostanze attenuanti concorrenti, in assenza delle quali, la recidiva avrebbe comportato l’aumento di pena.

Ma vi è di più.

La Corte affermava anche, che il verbo “applicare” la recidiva, si riferiva non solo a tutti gli effetti tipici che da essa ne scaturiscono, ovvero provocare l’aumento di pena, ma anche con riferimento alla funzione che essa svolge nel giudizio di bilanciamento di cui all’art. 69 c.p., nonché in tutti i casi in cui essa esplica la sua funzione, come ad esempio quello di paralizzare un’attenuante, impedendole di svolgere la propria funzione tipica di alleviamento della pena da irrogare (Cass., sez. II, n. 2731 del 02/12/2015, dep. 2016, Conti, Rv. 265729 in tema di prescrizione; Cass. Sez. I, n. 29508 del 14/07/2006, Maggiore, Rv. 234867, in tema di divieto di sospensione dell’esecuzione di pene detentive brevi).

In conclusione, le Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza n. 31699 del 21/07/2016, affermavano che il principio di diritto secondo cui il limite indicato dall’art. 81, co. 4, di aumento della pena non inferiore a un terzo della pena stabilita per il reato più grave, nei confronti dei soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva reiterata, deve trovare applicazione anche quando il giudice consideri la recidiva stessa equivalente alle riconosciute attenuanti.

La Suprema Corte pertanto, prendeva atto che il giudice di merito, dopo aver effettuato il giudizio di bilanciamento tra recidiva reiterata e attenuanti generiche, applicava un aumento per la continuazione nei confronti dell’imputato in misura inferiore al limite di cui all’art. 81, co. 4, c.p. ed irrogato una pena non conforme alla legge, quindi annullava la sentenza impugnata e disponeva il rinvio alla Corte di appello di Brescia al solo fine di rideterminare la pena.

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Avv. Marco La Grotta

Laurea Magistrale a ciclo unico in Giurisprudenza, conseguita presso Università degli Studi di Bari "Aldo Moro". Pratica forense svolta in ambito civile, penale e amministrativo. Attestato di frequenza della Scuola Forense Taranto. Abilitazione alla professione di Avvocato conseguita presso la Corte di Appello di Lecce. Attualmente Avvocato iscritto presso l’Ordine degli Avvocati di Taranto ed esercita la professione forense prevalentemente in ambito penale.

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