Cass. Pen., sez. V, 1 marzo 2016, n. 8328
a cura di Rosa Romano
Sembra assurdo, ma il passo è davvero breve dalla piazza virtuale del famoso social network alle aule di giustizia. Tutto a causa della tendenza, sempre più diffusa, a considerare la bacheca di Facebook come spazio libero dove poter scaricare rabbia, frustrazioni, sete di (presunta) giustizia.
Tutto è cominciato con un «dibattito» tra internauti, avviato «sulle pagine del social network». In origine «il dibattito avrebbe dovuto riguardare scelte e iniziative» adottate dal «commissario straordinario della Croce Rossa», e invece con «alcuni messaggi» si sono concretizzate «palesi offese al decoro personale» del predetto commissario, di cui è stata utilizzata anche la foto.
Inequivocabili i contenuti degli scritti: “…parassita del sistema clientelare…”, “…i cialtroni diventano parassiti…”, “…è un mercenario ultra pagato, che non gli frega un c…o dei vulnerabili, tanto lui, al mese, lo stipendio lo prende…”. Identificato facilmente il titolare dell’«account Facebook da cui erano stati diramati i messaggi offensivi»: l’uomo risponde di «diffamazione» realizzata con ampia diffusione. Ciò perché tale reato «può essere commesso a mezzo di internet». Peraltro, «la diffusione» di uno scritto sul social network ha «potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone», sia perché, per comune esperienza, «la bacheca Facebook» è leggibile da «un numero apprezzabile di persone», sia perché, sottolineano i giudici, l’utilizzo del social network rappresenta, oggi, «una delle modalità attraverso cui i gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita».
Di conseguenza, si può sostenere, senza tema di smentite, che il «postare un commento su Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione» di quello scritto, alla luce della «idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione» del pensiero pubblicato tra «un gruppo di persone apprezzabile per composizione numerica».
Tutto ciò legittima la condanna per «diffamazione».
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Sfogo su Facebook: configura il reato di diffamazione
Cass. Pen., sez. V, 1 marzo 2016, n. 8328
a cura di Rosa Romano
Sembra assurdo, ma il passo è davvero breve dalla piazza virtuale del famoso social network alle aule di giustizia. Tutto a causa della tendenza, sempre più diffusa, a considerare la bacheca di Facebook come spazio libero dove poter scaricare rabbia, frustrazioni, sete di (presunta) giustizia.
Tutto è cominciato con un «dibattito» tra internauti, avviato «sulle pagine del social network». In origine «il dibattito avrebbe dovuto riguardare scelte e iniziative» adottate dal «commissario straordinario della Croce Rossa», e invece con «alcuni messaggi» si sono concretizzate «palesi offese al decoro personale» del predetto commissario, di cui è stata utilizzata anche la foto.
Inequivocabili i contenuti degli scritti: “…parassita del sistema clientelare…”, “…i cialtroni diventano parassiti…”, “…è un mercenario ultra pagato, che non gli frega un c…o dei vulnerabili, tanto lui, al mese, lo stipendio lo prende…”. Identificato facilmente il titolare dell’«account Facebook da cui erano stati diramati i messaggi offensivi»: l’uomo risponde di «diffamazione» realizzata con ampia diffusione. Ciò perché tale reato «può essere commesso a mezzo di internet». Peraltro, «la diffusione» di uno scritto sul social network ha «potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone», sia perché, per comune esperienza, «la bacheca Facebook» è leggibile da «un numero apprezzabile di persone», sia perché, sottolineano i giudici, l’utilizzo del social network rappresenta, oggi, «una delle modalità attraverso cui i gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita».
Di conseguenza, si può sostenere, senza tema di smentite, che il «postare un commento su Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione» di quello scritto, alla luce della «idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione» del pensiero pubblicato tra «un gruppo di persone apprezzabile per composizione numerica».
Tutto ciò legittima la condanna per «diffamazione».
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