Stato islamico, Italia: una sentenza di condanna al terrorismo internazionale

Stato islamico, Italia: una sentenza di condanna al terrorismo internazionale

La questione in esame prende le mosse da un’interessante sentenza della Corte d’Assise I di Milano, 25 maggio 2016 (dep. 28 luglio 2016), Pres. Ilio Mannucci Pacini, Giud. Est. Ilaria Simi de Burgis che ha condannato due imputati del delitto di cui all’art. 270-bis c.p. poiché partecipavano all’organizzazione terroristica denominata “stato islamico”, allo scopo di commettere atti di violenza con finalità di terrorismo all’interno del territorio dello Stato Italiano.

Il procedimento traeva origine nell’ambito dell’istituzionale monitoraggio della rete internet, volto al controllo di spazi virtuali riguardanti il fenomeno del proselitismo e della propaganda terroristica di matrice islamica. In particolare, gli investigatori monitoravano due profili del social network “Twitter” – poi ricondotti ad uno degli imputati – con i quali nel 2015 erano stati pubblicati centinaia di messaggi volti ad esaltare e sostenere l’attività dello stato islamico e ad intimidire la popolazione. Nei suoi “tweets” l’imputato spendeva il nome dell’I.S., annunciandone la presenza in Italia e minacciando l’imminente compimento di azioni terroristiche. Identificato l’utente dei profili “Twitter”, gli inquirenti ottenevano l’autorizzazione ad avviare attività di intercettazione nei suoi confronti, e già dalle prime conversazioni intercettate emergeva il coinvolgimento anche del secondo imputato.

Quest’ultimo aveva studiato e fornito al primo il manuale diffuso dall’I.S. intitolato “How to survive in the west: a mujahid’s guide”. Secondo i giudici tale documento rappresentava per loro un «prezioso punto di riferimento», a cui spesso si rifacevano e di cui seguivano le direttive (ad esempio su come rendere anonimi i propri dispositivi informatici e su come camuffare la propria radicalizzazione per non destare sospetti all’esterno).

Inoltre, il secondo imputato facendo leva sulle difficoltà nel trovare un lavoro del primo, si sarebbe offerto di “mandarlo in Siria”, dove lo stato islamico gli avrebbe dato una casa, una ragazza da sposare ed uno stipendio (all’inizio solo 500/600 dollari, fino a quando non avrebbe imparato ad «ammazzare»).

Infine, i due avevano discusso dei possibili escamotages da adottare per raggiungere la Siria senza essere bloccati alle frontiere, o se fosse più opportuno attuare il jihad in Italia anziché raggiungere le fila dell’I.S. Insieme si erano confrontati sui possibili obiettivi, individuandoli rispettivamente nell’azienda in cui lavorava il primo imputato, o nelle Forze dell’Ordine. Tuttavia, l’obiettivo finale e più ambito era diventato l’aeroporto militare di Brescia-Ghedi, che veniva definito una «grande porta del Janna» (cioè per ottenere il Paradiso). Sebbene si trattasse di un obiettivo assai impegnativo, gli imputati avevano iniziato a discutere su come attuare questa delicata missione, per la quale il primo imputato si sentiva “il prescelto” da Allah. L’attentato nell’aeroporto, secondo i due, avrebbe costituito un’adeguata risposta alle morti provocate in Siria proprio dai mezzi militari occidentali e così avevano iniziato a fare delle ricerche e a discutere su come farvi ingresso.

Tanto chiarito in punto di fatto, nell’affrontare il tema del terrorismo internazionale di matrice islamica, è necessario procedere preliminarmente ad alcune riflessioni di carattere generale.

Il c.d. stato islamico, il Califfato, è ormai un’organizzazione terroristica riconosciuta a livello sovranazionale. Le risoluzioni nn. 2170 e 2178 adottate nel 2014 dall’O.N.U. hanno rappresentato la decisione unanime delle Nazioni Unite di qualificare lo “stato islamico” quale organizzazione terroristica, imponendo agli Stati interventi idonei a limitarne la minaccia. Si è deciso, dunque, di reagire a questa spaventosa emergenza in modo unanime, e ciascun Paese ha proceduto con le modalità ritenute più opportune; in Italia una significativa risposta si è avuta con il decreto legge n. 7 del 2015.

Risulta pacifico, dunque, che l’I.S. sia un’organizzazione terroristica (e non uno Stato, come si autodefinisce), e tale natura non abbisogna di ulteriori dimostrazioni.

Le suddette risoluzioni rappresentano una netta presa di coscienza della straordinaria pericolosità di questa organizzazione, derivante principalmente da due fenomeni: quello dei c.d. foreign fighters, che rappresentano una minaccia non solo per il Paese di destinazione, ma anche per quello di partenza, e quello dei c.d. lupi solitari.

Per valutare la condotta di partecipazione degli imputati allo stato islamico, è necessario tenere a mente, da una parte, che si tratta di un’organizzazione che presenta caratteri del tutto peculiari, e dall’altra parte che i suoi associati obbediscono alla chiamata individualizzata al jihad (chiamata che si è espressa anche in recenti sanguinosi attentati).

Gli scopi di tale organizzazione, perseguiti attraverso un particolare modus operandi e la selezione di determinati obiettivi, si riflettono inesorabilmente sulla sua struttura, condizionandone le forme.

È evidente, infatti, che la pianificazione di un attentato in cui il terrorista mette in conto —anzi auspica — di sacrificare la propria vita, abbassa in maniera considerevole il livello di organizzazione richiesto per la riuscita dell’attentato stesso, nonché per la selezione dell’associato.

A ciò si aggiunga che anche l’individuazione degli obiettivi delle azioni terroristiche dell’I.S. non richiede necessariamente particolari attività preparatorie, dal momento che i bersagli sono tutti i c.d. miscredenti, ovvero atei, apostati (sciiti) o ipocriti (finti musulmani), ovvero gente comune che rappresenta uno stile di vita o un credo diversi da quelli professati dal “Califfato”. Le direttive dell’IS sono assolutamente chiare nella volontà di colpire gli infedeli occidentali ovunque si trovino, cosicché ogni singolo aderente sa perfettamente quale è il suo compito, la cui esecuzione dimostra la condivisione e il perseguimento degli scopi dell’associazione, portando la forza ed il prestigio di detta organizzazione, e viene perciò dalla stessa rivendicato.

È stata così introdotta la figura del c.d. terrorismo individuale, che contraddistingue appunto l’I.S., che si è organizzato con una frammentazione estrema del fattore umano. I portavoce dell’I.S. hanno infatti più volte sottolineato che chiunque può perseguire lo scopo dell’organizzazione effettuando attentati del tutto autonomamente. E l’attuazione di questa strategia è stata agevolata dalla comparsa di quegli enormi spazi di arruolamento rappresentati dai vari social network, che consentono il c.d. fishing informatico.

Tale modello “orizzontale” (e non “piramidale”) delle strutture terroristiche locali è stato promosso già nel 2004 dall’“Appello alla resistenza islamica globale“, il più noto e scaricato manuale sul “terrorismo fai da te” pubblicato su internet da Abu Mussab Al Suri, che per primo prese le distanze dalla strategia globalizzata di Al Qaeda, preconizzando il sistema delle piccole cellule, nonché dei lupi solitari.

A sua volta lo stato islamico — affermatosi, come noto, a partire dal 2014 in un territorio che si colloca in parte in Iraq e in parte in Siria —, oltre ad essersi presentato come un vero stato sociale organizzato, ha invitato ad un’adesione generalizzata: ogni vero musulmano dovrebbe andare lì, e chi non lo fa viene equiparato al miscredente. Chi, poi, non fosse nelle condizioni per poter raggiungere il territorio dell’I.S., è chiamato ad attuare il jihad nel Paese in cui vive. Eloquente è il contenuto della guida “How to survive in the west: a mujahid’s guide”, di cui gli imputati erano in possesso, che in un paragrafo esplicita: «l’inizio di questo libro ti insegna come essere un agente segreto che fa cose autonomamente, tu sei uno che non dipende da nessun tipo di gruppo, la tua sola connessione con lo stato islamico è ideologica […] il tuo primo scopo sarà continuamente imparare informazioni ed estenderle. Questo è quello che ci legherà insieme».

D’altra parte l’esecuzione di un’azione terroristica, che peraltro normalmente viene concepita e conclusa in brevissimi lassi temporali, in genere segna anche il momento in cui l’intervento repressivo dello Stato è ormai inutile, perché non vi sono più soggetti da punire (e rieducare). Da qui le difficoltà del diritto penale — che ricalca un paradigma reattivo, e non preventivo —a contrastare una simile organizzazione. Nessuna efficacia general-preventiva può infatti avere la minaccia di una sanzione verso coloro che vedono nel martirio il massimo coronamento della propria vocazione terroristica. Ed è questa la semplice considerazione che ha portato le assemblee legislative di tutta Europa ad introdurre nuovi strumenti di contrasto alle associazioni terroristiche, improntati ad una anticipazione dell’intervento repressivo, con la configurazione di un reato di pericolo che vede nell’adesione all’organizzazione la lesione del bene giuridico tutelato (l’ordine democratico).

L’organizzazione terroristica transnazionale va pensata, più che come una struttura statica, come una “rete”, in grado di mettere in relazione persone assimilate da un comune progetto politico-criminale, che funge da catalizzatore dell’affectio societatis e costituisce lo scopo sociale del sodalizio (cfr. Cass., Sez. V, n. 31389/2008).

Di fatto, per partecipare e rafforzare una siffatta associazione è sufficiente che il partecipe si metta “a disposizione” della rete per attuare il disegno terroristico, o che, più semplicemente, segnali ad essa i propri progetti criminosi affinché questa li possa “rivendicare”.

Il che non significa, evidentemente, che la prova della partecipazione all’organizzazione terroristica possa essere desunta dalla sola adesione psicologica o ideologica all’integralismo e al fondamentalismo islamico. Semplicemente, per valutare tale partecipazione, occorre adottare criteri adeguati alla stessa identità dell’associazione terroristica, e la struttura “a rete” implica che ciascun partecipante non debba necessariamente essere in contatto col nucleo centrale dell’organizzazione, essendo sufficiente il collegamento con un singolo “nodo” della rete stessa.

Invero, la legge penale non può che limitarsi a punire la partecipazione — comunque essa avvenga — alle associazioni criminali, e sono queste ultime che, a seconda di come organizzano la propria azione, stabiliscono come, ed in che cosa, detta partecipazione si deve declinare. E quindi, poiché la strategia terroristica islamica risulta ormai per lo più improntata all’agire individuale, senza che sia necessaria una particolare organizzazione di mezzi e di uomini, e dal momento che il fine unico perseguito è quello di creare il terrore mietendo vittime con diverse singole azioni organizzate e realizzate in brevi lassi temporali, sarebbe fuorviante e scorretto ragionare con le categorie pensate per le “comuni” associazioni per delinquere.

Per quanto riguarda l’I.S., in particolare, non sono necessari particolari riti di iniziazione e non occorrono “selezioni all’entrata” — giacché tutti i veri musulmani devono, secondo il Califfato, riconoscersi nell’IS —, non servono piani d’azione sofisticati che garantiscano l’impunità, dal momento che i terroristi vanno incontro alla “gloria” del martirio, e non serve mantenere la segretezza dell’organizzazione, la quale ha interesse a rivendicare ogni condotta terroristica. L’organizzazione dell’associazione ed i contatti tra gli associati sono, dunque, spesso ridotti all’osso, e già questo minimum permette di ravvisare una vera e propria partecipazione all’associazione terroristica.

A tal proposito, la giurisprudenza ha correttamente rilevato che «diversi sono i modelli di aggregazione e operatività tra sodali che possono integrare quel minimum organizzativo, indispensabile perché di reato associativo possa parlarsi. L’esperienza di questi anni ha infatti posto gli inquirenti e i giudicanti, specie per quel che riguarda le societates di matrice islamica, di fronte a strutture “cellulari”, caratterizzate da estrema flessibilità interna, in grado di rimodularsi secondo le pratiche esigenze che, di volta in volta, si presentano, in condizione dunque di operare anche contemporaneamente in più Stati ovvero anche in tempi diversi e con contatti (fisici, telefonici o comunque a distanza) tra gli adepti anche connotati da marcata sporadicità» (cfr. Cass. Sez. V, n. 31389/2008).

La fattispecie delittuosa di cui all’art. 270-bis c.p. deve ritenersi integrata anche con riferimento a chi realizzi «condotte di supporto all’azione terroristica di organizzazioni riconosciute ed operanti come tali, quali quelle volte al proselitismo, alla diffusione di documenti di propaganda […] all’arruolamento […] ossia a tutte quelle attività funzionali all’azione terroristica».

Ecco che allora nel percorso motivazionale seguito dai giudici sembra assumere un ruolo di primo rilievo il paragrafo 7 della sentenza (“i contatti di B. con altri esponenti dell’I.S.”, p. 37 ss.), nel quale vengono ricostruiti i contatti di uno degli imputati con alcuni presunti jihadisti arruolati nelle fila del Califfato. Si tratta in particolare di: una conversazione tramite “Facebook messenger” con un soggetto che veniva localizzato ad Al Raqqah in Siria, città considerata il “quartiere generale” dello stato islamico; una lunga e significativa conversazione avvenuta tra il B. ed un suo concittadino tunisino, in cui questi lo esortava a raggiungere il territorio dell’I.S. («vieni allo Stato e lascia il paese della miscredenza giuro su Allah che qui troverai la tua dignità e sarai giudicato dal libro di Allah»), ed il B. manifestava la propria intenzione di farlo al più presto («fratello, avrai belle notizie a breve. Mi sto impegnando, ho trovato un filone. Allah ci aiuti e su di lui bisogna procedere», «giuro su Allah che ho l’onore e l’orgoglio per comunicare con voi… e che mi fa unire a voi al più presto»); una conversazione che l’imputato B. aveva avuto durante il suo soggiorno in Tunisia (avvenuto nel periodo delle indagini preliminari e monitorato dagli investigatori) con un soggetto dalla Corte ritenuto «contiguo» agli attentati lì avvenuti proprio in quel periodo. Questi avrebbe procurato all’imputato dei contatti utili per riuscire ad entrare nello stato islamico («grazie ah, stavo parlando con il nostro fratello, mi ha detto di contattarlo quando prendi l’aereo per la Turchia. Per farti capire come fare»; «contattalo così ti dirà quello che devi fare di preciso»).

Infatti, per l’integrazione di tale reato non è necessario che il gruppo ponga in essere tutte le condotte che la giurisprudenza ha individuato come sintomatiche della concretezza dell’adesione all’associazione, essendo sufficiente la prova anche di una o di alcune di esse, purché apprezzabili sulla base di dati concreti e non di mere supposizioni (Cass. Sez. VI 46308/2012).

Né, evidentemente, può rilevare che i vari adepti non riescano ad attuare il jihad. Trattasi, infatti, di reato di pericolo presunto, per la cui integrazione in giurisprudenza è richiesta solo l’esistenza di un’associazione avente un programma di atti di violenza con finalità di terrorismo, con struttura idonea al compimento di una serie di reati per la cui realizzazione l’associazione è istituita, senza tuttavia che l’atto di violenza sia realizzato o che qualcuno degli affiliati abbia dato inizio all’esecuzione del programma (Cass. Sez. VI 46308/2012).

Va peraltro sempre sottolineato che a questa anticipazione della soglia di punibilità rimangono estranee le manifestazioni di un’adesione meramente ideologica; rileva la Corte di legittimità che «l’associazione con finalità di terrorismo […] è fattispecie delittuosa di pericolo presunto diretta ad apprestare tutela contro uno specifico programma di violenza e contro coloro che a tale programma aderiscono proponendosi il compito di realizzare atti di violenza con finalità di eversione dell’ordine democratico, intendendosi, peraltro, per programma l’insieme di propositi concreti e attuali di violenza e non posizioni meramente ideologiche che, di per sé, ricevono tutela proprio dall’ordinamento democratico e pluralistico che contrastano» (Cass. Sez. I, n. 30824/2006).

In giurisprudenza sono stati ritenuti elementi concreti denotanti la partecipazione ad un’associazione terroristica, oltre che le attività sopra indicate, anche quei «propositi eversivi degli aderenti espressi con reiterate manifestazioni di disponibilità a partire per “fare Jihad” e con la ricerca di un contatto operativo che consentisse loro di tradurre in pratica i propositi di morte» (cfr. Cass. sez. VI n. 46308/2012).

La giurisprudenza di legittimità riconduce infatti «il delitto associativo previsto dall’art. 270-bis c.p. nell’ambito dei delitti di pericolo presunto, o a consumazione anticipata, caratterizzati dall’anticipazione della soglia di punibilità nel momento stesso della costituzione di un’organizzazione di persone e di mezzi, volta a realizzare un programma di violenze ed aggressioni per finalità di terrorismo, onde la fattispecie punitiva ha ad oggetto attività meramente prodromiche e preparatorie antecedenti all’inizio di esecuzione delle programmate condotte violente» (Cass. Sez. I, n. 34989/2007).

La Suprema Corte, ravvisando nelle “condotte univocamente sintomatiche, consistenti nello svolgimento di attività preparatorie rispetto alla esecuzione del programma” la spia dell’effettivo inserimento degli imputati nell’associazione terroristica, rimanda con evidenza alla struttura “finalizzata” dell’elemento psicologico del delitto in esame che, non a caso, la Corte di legittimità identifica in quella del “dolo specifico”: «la consapevolezza e la volontà del fatto di reato devono essere rivolte al perseguimento della peculiare finalità di terrorismo che connota l’attività dell’intera associazione» (Cass. Sez. I, n. 34989/2007).

Se, dunque, l’associazione con finalità di terrorismo si palesa in modo assai nuovo e meno tangibile per ciò che concerne la struttura operativa, soprattutto se concepita secondo i canoni desumibili dalle esperienze passate collegate allo studio delle associazioni per delinquere di tipo “classico”, per converso la condotta dell’associato deve palesare la “peculiare finalità terroristica” e ciò, in sostanza, fa sì che l’indagine sulla sussistenza o meno dell’associazione con finalità di terrorismo comporti un percepibile spostamento del baricentro valutativo verso la componente psichica del delitto (cfr. Corte di Assise d’Appello di Milano, Sez. II, sentenza n. 4011 del 10 maggio 2011).

I giudici meneghini hanno, così, ritenuto provata la penale responsabilità degli imputati con riferimento al reato loro ascritto. Invero, le condotte degli imputati — che durante tutta la durata delle indagini hanno sempre agito in concorso — sono state ritenute idonee ad integrare quel minimum organizzativo in cui si deve estrinsecare il reato associativo di cui all’art. 270-bis c.p.

Accolta la chiamata del Califfato ad attuare il jihad, e dopo una adesione anche formale con la formula del giuramento da parte di uno di loro, i due imputati hanno sempre fatto espresso riferimento alla volontà di commettere attentati, valutando possibili obiettivi. A ciò si aggiunga che il primo imputato spendeva il nome dell’organizzazione terroristica nella sua attività di propaganda attraverso l’account Twitter, e si era procurato dei contatti diretti con altri mujaheddin (come risulta dalle inequivocabili intercettazioni telematiche).

I due a tratti erano determinati ad «ammazzare» in Italia, a tratti sognavano di raggiungere il territorio dell’I.S. — organizzazione terroristica di cui si sentivano e facevano parte — per partecipare al jihad in quella terra. In ogni caso, il loro agire — anche estemporaneo ed isolato — è facilmente riconducibile allo stato islamico, e da esso certamente sarebbe stato rivendicato.

Sebbene guardando al complesso del materiale probatorio può affermarsi che il primo imputato abbia interpretato un ruolo più attivo rispetto al secondo la corte meneghina non ha ritenuto che ciò solo possa giustificare un differente e più mite trattamento sanzionatorio per il secondo imputato. Quest’ultimo, infatti, è solo risultato essere più “prudente e pragmatico”, ed ha sempre fornito il proprio supporto al suo amico, con il quale condivideva il medesimo disegno criminoso ed al quale era accomunato dall’intensità del dolo, ovvero dalla forte determinazione a commettere un qualsiasi attentato.

L’impostazione dogmatica tenuta dai giudici milanesi consente di far luce su un punto decisivo. Il fatto che la ricerca di un “contatto” da parte di un soggetto al fine di organizzare il viaggio verso i territori dell’I.S. possa essere considerato quale elemento «denotante la partecipazione ad un’associazione terroristica» implica, appunto, che la condotta partecipativa (magari ad un’autonoma cellula) debba risultare già da altri elementi. Non potrebbe, cioè, farsi discendere la partecipazione di un soggetto direttamente allo stato islamico dalla sola ricerca di un modo per raggiungere i territori da esso occupati, o dall’autonoma preparazione del proprio viaggio avulsa da un contesto associativo. E nemmeno quest’ultima condotta potrebbe esser fatta rientrare nel perimetro dell’art. 270-quater, comma 1, c.p. («organizzazione di trasferimenti per finalità di terrorismo») che, evidentemente, punisce chi organizza il viaggio con finalità di terrorismo altrui, e non il proprio.

Solo tale lettura, ad avviso di chi scrive, pare coerente con le stesse novità normative introdotte dalla riforma del 2015: l’art. 4, lett. d., del d. lgs. n. 159 del 2011 (c.d. codice antimafia) prende infatti in considerazione proprio gli «atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti… a prendere parte ad un conflitto in territorio estero a sostegno di un’organizzazione che persegue le finalità terroristiche di cui all’art. 270-sexies c.p.», e in presenza di essi legittima un intervento meramente preventivo, e non ancora repressivo.

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avv. Giacomo Romano

Ideatore, coordinatore e capo redazione at Salvis Juribus
Nato a Napoli nel 1989, ha conseguito la laurea in giurisprudenza nell’ottobre 2012 con pieni voti e lode, presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II, discutendo una tesi in diritto amministrativo dal titolo "Le c.d. clausole esorbitanti nell’esecuzione dell’appalto di opere pubbliche", relatore Prof. Fiorenzo Liguori. Nel luglio 2014 ha conseguito il diploma presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell'Università degli Studi di Napoli Federico II. Subito dopo, ha collaborato per un anno con l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli occupandosi, prevalentemente, del contenzioso amministrativo. Nell’anno successivo, ha collaborato con uno studio legale napoletano operante nel settore amministrativo. Successivamente, si è occupato del contenzioso bancario e amministrativo presso studi legali con sede in Napoli e Verona. La passione per l’editoria gli ha permesso di intrattenere una collaborazione professionale con una nota casa editrice italiana. È autore di innumerevoli pubblicazioni sulla rivista “Gazzetta Forense” con la quale collabora assiduamente da giugno 2013. Ad oggi, intrattiene collaborazioni professionali con svariate riviste di settore e studi professionali.

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