Totò Riina merita un trattamento migliore? I diritti umani ed il 41 bis: un percorso tortuoso

Totò Riina merita un trattamento migliore? I diritti umani ed il 41 bis: un percorso tortuoso

Risale al 12 maggio 2016 la pronuncia della Cassazione che, confermando quanto già rilevato dal Tribunale di Sorveglianza, rigetta l’istanza di revoca delle misura ex art. 41 bis della legge 354/75 comunemente definita “carcere duro”, nei riguardi del capomafia Totò Riina.

Secondo i Giudici di Legittimità, la natura socialmente pericolosa del soggetto, confermata da riscontri oggettivi desumibili dall’ordinanza impugnata, ove si evince l’attuale capacità del reo a mantenere i contatti con la cosca mafiosa, non soltanto costituisce circostanza ostativa alla concessione di misure meno afflittive ma rende il trattamento in atto applicato potenzialmente inidoneo allo scopo perseguito.

La sentenza della Corte giunge in un momento particolarmente cruciale per la sopravvivenza della misura sanzionatoria de quo, alla luce dei recenti interventi dei Giudici di Strasburgo chiamati ad occuparsi della compatibilità del 41 bis ord. pen. rispetto agli standard di tutela dei diritti umani con particolare riferimento agli artt. 3, 8 e 11 della CEDU.

Con la pronuncia del 24 settembre 2015, nel caso “Paolello contro Italia” (Ricorso n. 37648/02), la Corte EDU ha avuto modo di chiarire, secondo una ormai costante giurisprudenza, il proprio orientamento, ritenendo ammissibile lo speciale regime detentivo nostrano, la cui applicazione ed operatività non costituisce, di per sé, una violazione dei diritti umani del detenuto.

Nel caso di specie, il ricorrente lamentava la violazione dell’art. 3 della Convenzione EDU in quanto sottoposto, a suo dire, a “pene inumane e degradanti e superiori a quelle previste dalla legge all’epoca in cui i fatti attribuitigli sono stati commessi”. Inoltre, egli sarebbe stato obbligato a sottoporsi, prima e dopo gli incontri con i suoi familiari e il suo avvocato, a ispezioni nel corso delle quali non veniva preservata la sua intimità e sarebbe stato costantemente filmato nella sua cella.

Ed ancora, il ricorrente lamentava una presunta violazione dell’art. 8 a causa del prolungato mantenimento delle restrizioni ostative agli incontri coi familiari nonché la lesione al diritto alla corrispondenza, costantemente controllata dal personale carcerario.

Orbene, la Corte, rigettando in toto le violazioni eccepite, ha rilevato, in ordine al primo motivo di doglianza, come le restrizioni, affinché possano essere ritenute disumane e degradanti, devono superare un livello minimo di gravità necessario per rientrare nel campo di applicazione dell’art. 3.

Seppure ammette, dunque, la rigidità delle misure adottate (incapaci, tuttavia, di superare quella soglia di gravità impossibile da definire aprioristicamente), esse risultano giustificate dall’esigenza di impedire contatti con l’organizzazione criminale d’appartenenza.

Per quanto attiene al prolungato mantenimento delle misure restrittive, ancora una volta, i Giudici sovranazionali hanno posto in rilievo l’imprescindibile variabilità della durata che non può essere circoscritta all’interno di parametri oggettivi, essendo piuttosto necessario avere riguardo alle circostanze concrete del caso di specie.

Spetta piuttosto al ricorrente l’onere di fornire elementi probatori atti a dimostrare che la persistente applicazione del regime di detenzione speciale gli ha provocato degli effetti fisici o psicologici che rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 3.

Ed ancora, il controllo sul detenuto tramite sistemi di videosorveglianza, le perquisizioni personali (anche consistenti in ispezioni del reo privo di ogni indumento), le limitazioni delle visite dei familiari nonché il preventivo controllo della corrispondenza costituiscono, a giudizio della Corte, misure speciali giustificate dall’esigenza di salvaguardare la sicurezza e l’ordine pubblico, assolvendo, dunque, ad una funzione specialpreventiva prima ancora che punitiva.

Dunque, appare pacifico l’arresto giurisprudenziale della Corte in ordine alla compatibilità dell’art. 41 bis ord. pen. rispetto ai diritti inviolabili del detenuto: solamente laddove, nel caso concreto, le misure restrittive, in regime di 41 bis ord. pen., oltrepassino la soglia minima di gravità di cui all’art. 3 CEDU sarà possibile individuare, nei casi più gravi un’ipotesi di tortura, ovvero, negli altri casi, di trattamento inumano e degradante.

Ricade, in ogni caso, sul detenuto l’onere di allegare e provare la sussistenza “oltre ogni ragionevole dubbio” di tali maltrattamenti; in caso contrario la Corte, nel difficile bilanciamento tra esigenze di sicurezza pubblica e diritti umani del singolo, propenderà per una dichiarazione di irricevibilità del ricorso stesso.

L’unanime posizione dei Giudici di Roma e di Strasburgo deve fare i conti con una realtà che, per certi versi, mette in dubbio la ratio dell’istituto e il rispetto dei diritti umani.

In base al rapporto sul regime detentivo speciale, esito dell’indagine conoscitiva effettuata dalla Commissione Straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato datato aprile 2016, talune strutture carcerarie presentano condizioni assai instabili che minano fortemente il fine per il quale venne introdotta la misura detentiva richiamata.

Di seguito si riporta la testimonianza della Commissione Parlamentare presso il carcere di Nuoro:

“Il primo impatto con il “carcere duro” è stato a Nuoro, nel corso di una visita nel giugno 2013 all’area riservata in cui si trovavano i due detenuti in regime di 41 bis. Da alcuni mesi, tuttavia, quel carcere non è più destinato a ospitare detenuti in regime speciale. Le condizioni riscontrate, allora, erano davvero critiche. Si trattava di celle destinate originariamente all’isolamento e poi trasformate per ospitare questa tipologia di detenuti, stanze molto piccole, strette, buie, in cui c’era solo un letto singolo, con accanto un bagno alla turca chiuso da una bottiglia di plastica e un lavandino, un mobiletto, un televisore e un fornelletto a gas per il caffè. Lì trascorrevano 22 ore al giorno Antonio Iovine, uno degli esponenti di vertice della camorra, e la sua “dama di compagnia”. Le restanti due ore le passavano insieme: un’ora nei corridoi strettissimi del passeggio, murati e coperti da una grata arrugginita, bui, due metri circa di larghezza, sei o sette di lunghezza; l’altra nella stanzetta della socialità, arredata da un vogatore. “Provate voi a vivere ventidue ore al giorno dentro un bagno. Non credo sia una condizione dignitosa”, sottolineava uno dei due uomini.”

La precarietà delle condizioni strutturali del carcere di Nuoro risulta essere, tuttavia, un mero caso del tutto eccezionale che non trova un analogo riscontro.

Talora le criticità evidenziate ed emerse dalle parole delle persone ristrette riguardano la rigidità di alcune prescrizioni che paiono, agli occhi dei detenuti, incomprensibili, vessatorie e fortemente punitive come il divieto di affiggere sulle pareti fotografie o altre immagini dei familiari.

Di seguito ulteriori testimonianze di alcuni detenuti nel corso dell’indagine svolta dalla Commissione Parlamentare che inducono ad un’attenta riflessione dello strumento detentivo applicato:

“Un detenuto fa notare che gli restano da scontare pochi mesi, sarà presto libero, ma nonostante questo, è ancora in regime speciale: passerà dal carcere duro alla libertà da un giorno all’altro. “Che senso ha?” chiede. Dei 9 anni di pena, ne ha passati quasi 4 in 41 bis in un’area riservata come “dama di compagnia”. Dice che è uscito da lì con la pelle verde perché era sottoterra, completamente al buio. Chiede di indagare sulle già citate “aree riservate”.

Un detenuto racconta di essersi laureato in giurisprudenza in carcere con una tesi sul 41 bis mentre ora è iscritto a scienze politiche. Ha discusso la tesi nella sala colloqui dietro al vetro divisorio, con i sette professori della commissione dall’altra parte. Chiede perché in cella col fornelletto sia permesso fare il caffè, ma non si può cuocere un uovo e perché il tempo che viene concesso per scrivere al pc venga sottratto da quello dell’ora d’aria. Contesta il fatto di trovarsi ancora in 41-bis perché ha ammesso la sua colpevolezza e quindi la sua pericolosità dovrebbe essere cessata, ma poiché il 41 bis è dato dalla natura del reato e non dalla persona accusata, è costretto a rimanere sotto quel regime.

Un altro detenuto racconta di passare tutto il tempo facendo su e giù nella cella. Ha contato: 780 volte in un’ora.”

Altre segnalazioni sono giunte alla Commissione attraverso alcune lettere inviate dai diversi istituti, riguardano aspetti materiali della vita quotidiana apparentemente di poca importanza, ma che risultano essere vitali in una condizione di reclusione così rigida come nel regime di carcere duro. E soprattutto vengono percepite dai detenuti come privazioni e afflizioni del tutto gratuite ed esercitate al solo scopo di intimidazione.

In esito all’indagine svolta, la Commissione ha presentato una lista di raccomandazioni, alla luce di quanto appreso e avuto riguardo alla pregressa analisi svolta dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura, al fine di rendere maggiormente compatibile con i principi costituzionali e con la CEDU lo speciale regime detentivo osservato.

In particolare, le limitazioni alle attività e alla socialità interna all’istituto (non più di un’ora d’aria e di “socialità”, in gruppi non superiori a quattro), se prolungate nel tempo, possono avere effetti dannosi sulla salute fisica e psichica dei detenuti, come rilevato dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura nella sua relazione del 2013. Il CPT, sia nel 2009 che nel 2013, ha ribadito che l’uso del regime di cui all’art. 41 bis ord.pen. come mezzo di pressione psicologica sui detenuti al fine di cooperare con il sistema giudiziario per “dissociarsi” dall’organizzazione di appartenenza o “cooperare con le autorità” sarebbe molto discutibile. Un uso di questo genere solleverebbe problemi sotto il profilo del rispetto sia dell’art. 27 della nostra Costituzione che degli strumenti di diritto internazionale dei diritti umani.

Altro elemento sintomatico è rappresentato dalla prassi della proroga: per un considerevole numero di detenuti, se non per la loro totalità, come rilevato dal CPT nel 2008, l’applicazione del regime di cui all’articolo 41 bis è stato rinnovata in maniera pressoché automatica. Con la conseguenza che i detenuti interessati sono stati per anni soggetti a un regime detentivo caratterizzato da un insieme di restrizioni le quali potrebbero rappresentare una negazione del trattamento penitenziario descritto dai principi direttivi dell’ordinamento, della sua universalità e della sua individualizzazione, fattore essenziale nella finalità della pena prescritta costituzionalmente. Effetto di ripetute proroghe dell’applicazione del regime di cui all’art. 41 bis, è il caso di detenuti ormai anziani che perdono progressivamente le proprie capacità di discernimento. Pertanto, la Commissione ritiene di dover segnalare in via generale l’opportunità di valutare una revisione della legislazione consolidata, onde evitare che nella sua applicazione si manifestino rischi quali quelli paventati dal CPT.

Un ulteriore profilo di criticità evidenziato dalla Commissione attiene alla necessità di adeguare alcune strutture detentive a standard minimi di abitabilità sia attraverso la rimozione di inutili filtri esterni al passaggio di aria e luce naturale che nella predisposizione di chiusure interne azionabili dal detenuto o su sua richiesta.

Ed ancora, si segnala:

– la limitazione all’uso del sistema di videosorveglianza alle celle, applicato solo in casi particolari e per un tempo limitato;

– la revisione delle ingiustificate regole che disciplinano il possesso di oggetti nelle camere detentive, riservandole esclusivamente a ciò che ha una incidenza effettiva sulle possibilità di comunicazione con l’esterno, precluse dalla ratio della norma di legge;

– il ricorso motivato e non routinario alle perquisizioni delle camere detentive;

– la rimozione di tutte quelle proibizioni che riguardano la possibilità di avere a propria disposizione, in cella, tutti gli strumenti necessari alla lettura, allo studio e allo svolgimento di attività artistiche che possano essere svolte individualmente;

– la cessazione dell’applicazione del regime di 41 bis per un tempo congruo in prossimità del fine pena, in ossequio al principio di progressività del trattamento penitenziario;

– infine, la Commissione raccomanda che ai detenuti in regime di 41 bis sia garantita la possibilità di prendere parte alle udienze dei processi cui partecipano nelle vesti di imputati, quantomeno nei casi in cui debbono essere escussi, ricorrendo a misure di sicurezza adeguate all’effettuazione di trasferimenti sicuri.

Come è facile capire, il bilanciamento tra gli interessi della collettività intesi come salvaguardia della sicurezza e dell’ordine pubblico in funzione preventiva e il rispetto dei diritti umani dei detenuti in regime di 41 bis passa attraverso un percorso legislativo complesso e ancora in fieri.

Tanto si è fatto sinora ed importanti le tappe raggiunte, tuttavia, solo tramite una visione miope sarebbe possibile ritenere, allo stato dei fatti, concluso il ciclo legislativo.

Preme sottolineare l’importanza del regime detentivo introdotto nonché gli indubbi vantaggi conseguiti fino ad oggi tramite l’isolamento di soggetti particolarmente pericolosi, la cui presenza presso ordinari ambienti carcerari metterebbe a serio repentaglio la sicurezza nazionale.

I profili di criticità segnalati dalla Commissione inducono, tuttavia, ad un miglioramento del sistema correttivo vigente, più umano e vicino alle problematiche riscontate presso gli ambienti carcerari visitati.

Non resta che augurarsi un serio e celere intervento legislativo che, avulso da condizionamenti ideologici, metta fine a inascoltate situazioni deprecabili affinché, parafrasando le parole dello scrittore statunitense Edward Bunker, “la prigione non si trasformi in una fabbrica di animali in cui le probabilità che uno esca peggiore di quando è entrato siano altissime”.

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Marco Testai

Dottore in Giurisprudenza nell'A.A. 2012/2013 con la tesi di Laurea in diritto penale sul sequestro di persona ottenendo il voto di 110/110, ha intrapreso l'attività di pratica forense presso lo Studio Legale dell'Avv. Marco Verghi ultimata nel 2015.

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