Turchia, si possono davvero sospendere i diritti umani?
Sembra ormai lontana la notte del golpe in Turchia, la notte del tentato colpo di stato che ha visto l’esercito turco sconfitto e il presidente Recep Tayyip Erdoğan consacrarsi alla guida del paese.
Il fallito golpe porta, però, con se innumerevoli altri effetti, sia sull’equilibrio internazionale che su quello nazionale. La reazione del Presidente è stata, infatti, tempestiva e dura. Sono migliaia gli arresti portati a termine a carico dei golpisti e di coloro che sono stati riconosciuti come loro sostenitori. La repressione ha toccato, inoltre, molti settori dell’amministrazione: dalla magistratura, ai ministeri dell’istruzione, della gioventù e dello sport.
Il 21 luglio 2016, il vice primo ministro Numan Kurtulmus ha reso nota la decisione del Presidente di dichiarare lo stato d’emergenza e di sospendere la vigenza della CEDU nel paese. Ciò comporta che per un certo periodo di tempo, che come lo stesso Erdoğan ha dichiarato potrebbe protrarsi anche per tre mesi, in Turchia non verranno rispettati e applicati i principi che la Convenzione prevede.
Ma può uno stato sovrano, un paese candidato all’adesione all’Unione Europea, disconoscere prerogative fondamentali del singolo in quanto uomo?
La Convenzione europea dei diritti dell’uomo fu firmata a Roma nel 1950 dai 12 paesi allora facenti parte del Consiglio d’Europa, con la finalità di salvaguardare i diritti umani e le liberta fondamentali. La Carta promuove principi di tutela dei singoli e introduce la possibilità, da parte di ciascun cittadino dei paesi firmatari, di adire direttamente la Corte Europa dei diritti dell’uomo per denunciare violazioni commesse dai singoli stati.
La stessa Convenzione, però, prevede due diverse tipologie di percorsi che possono determinare una totale o parziale disapplicazione delle proprie disposizioni: restrizioni e deroghe.
Le prime sono giustificate dal verificarsi di determinate fattispecie di reato e hanno carattere continuativo. Ne è un esempio in Italia la normativa di cui all’art 41 bis della legge sull’ordinamento penitenziario italiano, il cosiddetto carcere duro, che limita i diritti dei detenuti e incide fortemente su alcune garanzie procedurali.
Le seconde, invece, previste dall’art.15 della Convenzione, sono temporanee e possono operare solo “in caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione”. Tuttavia non senza confini. Neanche in presenza di tali condizioni, infatti, gli stati firmatari potrebbero spingersi sino a negare alcuni principi della Carta, che si vogliono, perciò, non suscettibili di alcuna compressione: il diritto alla vita (art.2), il divieto di sottoposizione ai lavori forzati (art.4) o a tortura (art3), il principio di irretroattività della legge penale (art.7).
La Turchia non è il primo paese ad avvalersi della possibilità di cui all’art.15, la nazione francese, duramente colpita dagli attacchi terroristici degli ultimi mesi, ha deciso di operare nella stessa maniera, il che potrebbe far sentire certe vicende molto più vicine di quanto non si pensi in realtà.
Le decisioni di Erdoğan in merito alla CEDU, unitamente ai provvedimenti legislativi che hanno ampliato di non poco i poteri del parlamento e della presidenza, hanno suscitato la preoccupazione dei leader europei. Inoltre, se a ciò si aggiungono le indiscrezioni circa una possibile reintroduzione della pena di morte, si potrebbe pensare che questo comporti un’aperta violazione dei principi della Convezione, anche durante la vigenza di uno stato di emergenza.
Le finalità dichiarate sono quelle di garantire un più celere ripristino dell’ordine nella nazione e la massima sicurezza dei cittadini. Il percorso intrapreso, però, suggerisce forse un interrogativo: quanta libertà si è disposti a cedere in nome della sicurezza?
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Giuseppe Maggio
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