Tra diplomazia del petrolio e diritti umani

Tra diplomazia del petrolio e diritti umani

Breve analisi del rapporto italo-egiziano in relazione agli sviluppi del caso Regeni

Il 25 dicembre 2016 #جوليو_ـفين (#whereisgiulio) era l’hashtag che appariva su Twitter per annunciare la scomparsa del ricercatore italiano in Egitto Giulio Regeni[1] di cui si erano perse le tracce. Il mistero è durato poco più di una settimana, quando il seguente 3 febbraio il corpo viene ritrovato senza vita, mutilato, deturpato, lasciato preda degli animali lungo la strada desertica che collega Il Cairo ad Alessandria. Evidenti i segni di tortura subiti.

Oggi, a cinque anni di distanza dallo sfortunato accaduto, non si è ancora riusciti a chiarire in modo limpido il motivo per il quale Giulio abbia subito una tale sorte e cosa ci sia stato dietro la manovra che ha portato al sequestro e alla tragedia.

La leale collaborazione promessa dalle autorità egiziane a quelle italiane per far luce sul caso Regeni è venuta meno da parte egiziana, anzi, non c’è mai stata. Hanno cercato di mescolare le carte in tavola, di offuscare l’accaduto sminuendo ciò che era accaduto a Giulio.

Essere perseguitati per quello che si crede per quanto lontano possa essere dai nostri pensieri non è – e non sarà mai – il modo corretto per accogliere, proteggere e tutelare i propri cittadini e quelli stranieri. Ora, non saremo di certo noi a cambiare il sistema con il quale il regime di Abdel Fattah Al-Sisi riesce a controllare ed amministrare l’Egitto, ma possiamo riuscire a non rimanere nell’oscurità delle menzogne del governo egiziano sull’offuscamento del caso, facendo luce su questa buia vicenda.

Si sono affiancate alle richieste della Farnesina di far luce sul caso Regeni associazioni internazionali del calibro di Amnesty International e lo stesso Parlamento europeo, che proprio su spinta italiana, ha votato per ben due volte un progetto di risoluzione volto a condannare le eventuali violazioni dei diritti umani perpetrate in Egitto, ed aggravate recentemente dalla reclusione di Patrick George Zacky, e di altri attivisti esperti dell’EIPR Gasser Abdel Razek, Karim Ennarah e Mohammad Basheer.

Negli ultimi anni la libertà dei media in Egitto si è indebolita gravemente alla luce del limitato spazio concesso ai giornalisti e reporter, sempre più soggetti a crescenti atti di persecuzione, così come di detenzioni arbitrarie, minacce ed intimidazioni. Decine di migliaia di attivisti, difensori dei diritti umani, dei diritti delle donne, di quelli della comunità LGBTQI+ vengono costantemente esposti a condizioni di pericolo per le loro vite, come le frequenti sparizioni forzate sistematicamente praticate dalle autorità egiziane volte ad impedire ed ostacolare l’esercizio pacifico delle loro libertà fondamentali.

Facendo riferimento ai dati di Human Rights Watch, dal colpo di Stato militare del 2013 a questa parte, le autorità̀ egiziane hanno inserito circa 3 000 persone negli elenchi terroristici, hanno condannato a morte 3 000 persone e ne hanno incarcerate 60 000. Dati più recenti[2], riferiti all’anno 2020, invece mettono in evidenza la fragilità del sistema egiziano, e la facilità con il quale continua a praticare condanne a morte. Sono 110 quelle eseguite, 66 delle quali hanno avuto luogo dal 3 ottobre 2020, il che significa che negli ultimi due mesi sono state giustiziate più persone che nell’interno anno 2019. Tali condanne sarebbero state pronunciate a seguito di processi palesemente iniqui, viziati da confessioni forzate e altre gravi violazioni dei diritti umani e delle garanzie processuali a sostegno dell’imputato. Infatti, si ritiene comunemente inadeguato e scarsamente insufficiente il sistema egiziano, che non è in grado di garantire il livello di protezione minima all’interno delle sue carceri e nell’ambito giudiziario, perpetrando recidivamente violazioni del diritto internazionale in materia di diritti umani e del diritto al giusto processo.

La discriminazione è diventata l’elemento centrale della gestione Al-Sisi, che adotta tale approccio – tipico di un regime totalitario e autorevole – per tenere in scacco la popolazione, plasmando la società a proprio piacimento, consentendo alle milizie di disporre di un potere molto ampio. Ciò avvantaggia l’apparato militare, in quanto perno principale del regime, poiché il governo da esso ne trae consenso e sostegno e nel quale è profondamente radicato.

Da quanto emerge, Giulio Regeni non è la sola vittima delle autorità egiziane. Dopo di lui possiamo fare tanti nomi quali il cittadino francese Eric Lang o l’americano James Henry Lawne, che hanno subito la stessa sorte, rimasti nel sangue e nell’ombra dell’Egitto, come sacrificati ad un dio che agisce per nessuna ragione. Questo ha alimentato i sospetti della comunità internazionale, che di fronte al silenzio egiziano, spinge per ottenere informazioni e chiarimenti sulle sparizioni, i sequestri, le torture, che i cittadini stranieri subiscono quando bersagliati dalle autorità locali.

I mass media, le organizzazioni internazionali e le ONG si allineano facendo fronte comune in casi del genere, chiedendo collaborazione, trasparenza e assunzione di responsabilità, per non permettere eventuali e strategiche perpetrazioni di violazioni dei diritti umani e garantire a ciascun individuo lo stesso trattamento in qualsiasi parte del mondo.

Pertanto, ci si domanda come Roma possa mettere fine a tali violazioni sistematiche ed ammorbidire le politiche adottate a Il Cairo e quali possano essere gli strumenti atti a ricostruire un rapporto che ha perso credibilità. Non si può nascondere l’influenza che l’Italia esercita sull’Egitto in materia commerciale e come partner strategico nel Mediterraneo.

L’Italia gode di ottimi rapporti bilaterali con l’Egitto, essendone il primo partner commerciale fra i paesi europei, rapporti che risalgono al dopoguerra e legati al bisogno che aveva l’Italia di riallacciare rapporti diplomatici con i paesi vicini dopo le brutture della guerra e del periodo fascista che l’avevano profondamente segnata. La politica mediterranea è uno dei pilastri secolari della politica estera della Penisola. Occupando un ruolo geopoliticamente rilevante nel Mar Mediterraneo, l’Italia intrattiene rapporti diplomatici con tutti gli Stati vicini ed è molto attiva dal punto di vista della cooperazione internazionale, sia in campo commerciale che di promozione dei diritti umani e nell’ambito degli aiuti umanitari nei confronti di tali paesi terzi.

Nel 1946, con la nascita della Repubblica, l’Italia tornava verso la ‘normalità’, che sul piano internazionale significava sottoscrivere il Trattato di Pace con i Paesi vincitori, firmato il 10 febbraio del 1947 e che ha comportato dolorose rinunce territoriali. Nonostante la debolezza iniziale, la neo-Repubblica italiana mise subito in cantiere una nuova politica, rivolta soprattutto al Mediterraneo e finalizzata a ritrovare e consolidare i rapporti con i Paesi rivieraschi. Una politica nuova, posta sotto il segno della diplomazia dell’amicizia[3]. Dal 30 giugno del 1947, il Belpaese intrattiene rapporti bilaterali con l’Egitto, allora sottoposto alla monarchia di re Faruq, e che si sono intensificati nel corso degli anni ’50 quando l’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) di Enrico Mattei ha attivato collaborazioni sempre più importanti per soddisfare l’esigenza energetica del Paese, sfruttando la rete petrolifera proveniente dal Nord Africa di quei paesi di recente indipendenza che avevano iniziato a riappropriarsi delle risorse del proprio sottosuolo. La spinta mediterranea della diplomazia italiana era determinata non solo dalla naturale vocazione geostrategica dell’Italia ma anche, e soprattutto, era motivata dalla necessità di stabilire intese politiche con i Paesi arabi produttori di petrolio, liberando il Paese dal condizionamento delle grandi multinazionali.

Per l’assetto economico internazionale, la dinamica presenza di ENI in una zona così strategica ha contribuito a mettere fine al monopolio delle sette sorelle[4], costituito per far tornare sui mercati il petrolio iraniano dopo la crisi di Abadan e la deposizione di Mossadeq[5], scardinando la regola del fifty-fifty, imposta dalle compagnie petrolifere angloamericane ai Paesi produttori di petrolio.

L’ENI, che nel1953 acquistava AGIP (Azienda Generale Italiana Petroli) ente statale per la lavorazione, produzione e distribuzione di petroli, era pronta a ritagliarsi uno spazio vitale nel mercato energetico, cercando di concludere accordi e alleanze commerciali in modo da far uscire l’Italia dal ricatto straniero.

La politica commerciale italiana iniziava così a guardarsi attorno e aveva trovato in Nasser e nell’Egitto il partner ideale per potersi inserire nelle dinamiche del Mediterraneo. A seguito della decisione di nazionalizzare il Canale di Suez, Mattei era presente insieme a Nasser all’inaugurazione dei lavori di un oleodotto che sarebbe dovuto passare dal Cairo a Suez dove propose i servizi dell’Eni per costruire la diga di Assuan.

Le relazioni bilaterali tra i due paesi hanno assistito ad un exploit sul versante energetico quando, nell’agosto 2015, l’Eni ha scoperto in Egitto un enorme giacimento di gas naturale, Zohr, nella concessione Sinai. Le attività di esplorazione e di sviluppo tra l’agenzia e gli egiziani sono regolate da contratti di Production Sharing Agreement, le principali delle quali sono svolte proprio in questa zona, nell’offshore del Mediterraneo, ma molte riguardano anche lo sfruttamento del Deserto Occidentale, nell’onshore del Paese. Zohr a meno di due anni e mezzo dalla sua scoperta ha contribuito a rendere l’Egitto autosufficiente nel settore del gas e ha segnato l’inizio di una nuova fase di attività di esplorazione offshore. Nel 2018 è stato completato lo start-up di due ulteriori pozzi di sviluppo e nel 2019 quello di una pipeline per il trasporto del gas all’impianto di trattamento di El Gamil, ciò sta a significare quanto la collaborazione tra i due paesi sia importante per l’approvvigionamento energetico di entrambi.

Per avere un quadro completo delle relazioni italo-egiziane bisogna considerare i fattori sin qui analizzati, ove da un lato abbiamo la diplomazia del petrolio, ovvero il complesso dei rapporti commerciali-strategici dei due paesi che si basa sul mercato della produzione energetica, e dall’altro abbiamo la protezione dei diritti umani. Pertanto, il governo italiano – e non solo – avrebbe il diritto di agire e prendere parola sulla questione, chiarire quali sono le prerogative per la continuazione di rapporti diplomatici stabili, aperti alla leale collaborazione, ovvero condannare i comportamenti recidivi del governo de Il Cairo. È inconcepibile che uno Stato ‘amante della pace’ – requisito essenziale richiesto dalla Carta ONU per essere uno Stato degno dell’ingresso nell’organizzazione – come l’Egitto debba essere costantemente richiamato all’attenzione per le violazioni che esso frequentemente pone in essere. L’involuzione che ha intrapreso il paese guidato da Al-Sisi sul versante dei diritti umani è preoccupante, non è possibile che il regime in questione non sia sanzionato dalla comunità internazionale tutta. L’Europa più volte ha condannato le violazioni perpetrate nei confronti di persone come Giulio Regeni o Patrick Zacky, ma le risonanti dichiarazioni non hanno trovato riscontro pratico sul quale mettere in condizione l’Egitto di poter abbandonare tali pratiche.

Il multilateralismo – in evidente crisi – non riesce a farsi valere vuoi per l’assenza di strumenti vincolanti o per l’ostracizzazione politica che attanaglia frequentemente tematiche sensibili come i diritti umani. Nemmeno il vicino francese è stato in grado di opporsi al sadico gioco del regime Al-Sisi, anzi il dittatore è stato premiato dal Presidente Macron con la legion d’onore, l’onorificenza più alta della Repubblica francese, istituita da Napoleone, la quale rappresenta un altissimo riconoscimento al valore militare e ai meriti sociali e civili[6]. Dunque, una soluzione bilaterale potrebbe apparire più rapida ma meno duratura. L’Italia, per la sua collocazione geopolitica, dovrebbe essere in grado di fare pressioni per cercare di riequilibrare la situazione, in quanto ha l’obbligo di contribuire allo sviluppo della zona Mediterranea e assicurarne la sicurezza, concetto fondamentale se si vuole garantire una continuità nelle relazioni diplomatiche e non. Si attendono sviluppi.

 

 

 

 


[1] Giulio Regeni, dottorando presso l’Università di Cambridge, si trovava al Cairo per condurre una ricerca sui sindacati indipendenti egiziani.
[2] HRW CPJ. Amnesty riporta che sono 60-100 mila i prigionieri politici stimati in Egitto, che il Paese nord-africano è il terzo paese del mondo (dopo Cina e Turchia) per numero di giornalisti incarcerati e riporta con 1058 il numero degli oppositori scomparsi dal 2014.
[3] Ossia quell’originale modello politico, tipicamente italiano, di intrattenere relazioni diplomatiche con i paesi mediterranei.
[4]  Con tale termine si indicavano le compagnie petrolifere mondiali che formavano il cartello Consorzio per l’Iran tra le quali Royal Dutch Shell, Standard Oil of New Jersey e la Anglo-Persian Oil Company (diventata poi British Petroleum), Mobil, Chevron, Gulf e Texaco.
[5]  La crisi di Abadan tra Regno Unito e Iran, che arrivò fino alla rottura delle relazioni diplomatiche tra i due paesi, fu scaturita a seguito della decisione di nazionalizzazione, da parte del governo iraniano, dei beni della Anglo-Iranian Oil Company e delle raffinerie della città di Abadan. La nazionalizzazione dell’industria petrolifera iraniana fu disposta dall’allora Primo Ministro Mohammad Mossadeq che puntava a recuperare la sovranità sulla risorsa naturale più importante del Paese.
[6] Mentre la Procura di Roma rendeva noti i dettagli delle torture subite da Regeni, in Francia Al Sisi riceveva la legion d’onore. Per questo motivo Corrado Augias, giornalista ed ex politico italiano, la mattina del 14 dicembre 2020 ha deciso di restituire, in segno di protesta, la legion d’onore della Repubblica francese a lui assegnata nel 2007 considerando il dittatore egiziano complice morale dell’omicidio Regeni. La restituzione dell’onorificenza ha suscitato grande scalpore tra i media italiani ed internazionali ed è diventato uno dei simboli della lotta alla giustizia per Giulio.

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Cristian Franzese

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