Tra il mobbing e lo stress a lavoro: lo straining
Sommario: 1. Il mobbing – 2. Distinzione tra mobbing e straining – 3. Corte di Cassazione, sez. lavoro, ord. 19 febbraio 2018, n. 3977. Il caso – 4. La decisione della Corte di Cassazione: lo straining – 5. La pretesa risarcitoria ex 2087 c.c. – 6. Riflessioni conclusive.
1. Il mobbing
L’ambiente lavorativo, per le sue caratteristiche e la natura degli interessi coinvolti, rappresenta spesso l’habitat naturale di conflitti e discriminazioni tra lavoratori e tra il datore e i suoi sottoposti.
Il vocabolo inglese “mobbing” deriva dal verbo “to mob”, il quale indica “l’affollarsi intorno a qualcuno, assalire, assaltare, attaccare”. Il termine, adoperato inizialmente nell’ambito dell’etologia, acquisisce l’accezione di vessazione psicologica in ambito lavorativo sul finire degli anni ’80, sulla scorta dell’interpretazione datane dallo psicologo tedesco Heinz Leymann[1]. Sull’intuizione di Leymann si sono in breve termine indirizzati anche medici e legislatori, in modo che la questione ho ottenuto considerevoli sviluppi in tutta Europa.
Leymann definiva il mobbing come una serie di azioni ripetute per un certo periodo di tempo, realizzate da uno o più attori, definiti mobber, per danneggiare qualcuno in maniera sistematica. In altri termini, il soggetto mobbizzato viene letteralmente “attorniato e assalito” dai mobber che mettono in atto strategie comportamentali volte alla sua distruzione psicologica, sociale e professionale. Si tratta, in definitiva, di una comunicazione ostile e non etica, diretta in maniera sistematica da parte di uno o più individui generalmente contro un singolo, che è progressivamente spinto in una posizione in cui è priva di appoggio e di difesa e lì relegato per mezzo di ripetute e protratte attività[2].
In Italia, l’interesse alla tematica è andato di pari passo con l’incidenza dei lavoratori sul settore terziario, oltre alla diffusione della sindacalizzazione e della riscoperta e valorizzazione dei diritti dei lavoratori. Tuttavia, è solo con i lavori dello psicologo Harald Ege a partire dagli anni ’90 che il fenomeno del mobbing emerge in tutta la sua rilevanza, inteso come forma di pressione psicologica esercitata attraverso una moltitudine di comportamenti aggressivi e persecutori da parte di superiori e colleghi, nell’ambito lavorativo, per un determinato periodo di tempo e finalizzati solitamente all’emarginazione. Diverse le forme che il mobbing può assumere sul posto di lavoro: si pensi a pressioni o molestie psicologiche, critiche immotivate, delegittimazione dell’immagine anche di fronte ai colleghi, marginalizzazione immotivata, minacce o atteggiamenti volti ad intimorire[3]. Elemento essenziale, ai fini della qualificazione di un comportamento illegittimo, è peraltro che la vessazione psicologica sia compiuta in maniera costante, sistematica e reiterata per un lasso di tempo consistente. Nonostante il continuo emergere del fenomeno, a differenza di numerosi Stati europei[4], in Italia continua a mancare una normativa ad hoc, sia civile che penale, a tutela del lavoratore.
2. Distinzione tra mobbing e straining
Nonostante l’ampia definizione data al fenomeno del mobbing non è possibile farvi rientrare qualsiasi forma di conflitto nel posto di lavoro causa di stress e disagio.
Innanzitutto, è necessario distinguerlo da altri eventi, magari traumatizzanti, ma tuttavia sporadici e non finalizzati al danneggiamento o allontanamento della vittima. In altri termini, si intende far riferimento a quelle condotte legate per lo più a fattori caratteriali o situazionali e prive, perciò, di una certa sistematicità e regolarità. Pertanto, si può certamente asserire che tra il mobbing e lo stress esiste un rapporto di causa effetto. Ossia, se il mobbing è causa di stress non è sempre vero il contrario, nel senso che quest’ultimo può presentarsi anche in assenza del mobbing.
Altro fenomeno simile ma da distinguere dal mobbing è lo straining. Il termine significa letteralmente “sfruttare, spremere, distorcere, mettere a dura prova”. Esso è una condizione psicologica posta a metà strada tra il mobbing e lo stress e consiste solitamente nell’isolamento sistematico, nella sottrazione degli strumenti di lavoro o nel demansionamento, attraverso l’assegnazione di funzioni prive di effettivo valore o irrilevanti.
Seppur all’apparenza semplice, la distinzione tra i diversi fenomeni risulta nella prassi tutt’altro che immediata, ponendosi nei confronti della vittima prima e del giudice poi, il problema della corretta qualificazione giuridica della fattispecie, con rilevanti riflessi in tema di onere della prova.
Sulla distinzione tra mobbing e straining è intervenuta di recente la Corte di Cassazione. civile.
3. Corte di Cassazione, sez. lavoro, ord. 19 febbraio 2018, n. 3977. Il caso.
Una donna, dichiarata inidonea all’insegnamento, veniva assegnata alla segreteria della scuola. Esposto alla dirigenza scolastica l’esigenza di ulteriore personale per l’adempimento dei servizi amministrativi, emergeva una profonda crisi che portava il dirigente scolastico a reagire scorrettamente nei confronti della lavoratrice. In un primo momento, le veniva attribuita mansione didattica, seppur in coppia con altri docenti, nonostante l’accertata idoneità e, successivamente, veniva privata di ogni mansione, lasciandola totalmente inattiva.
Rifacendosi alla consulenza tecnica d’ufficio, la Corte di primo grado concludeva che la condotta del dirigente, pur non presentando i presupposti del mobbing, fosse da far rientrare nell’ipotesi di straining, ossia di “stress forzato deliberatamente inflitto alla vittima dal superiore gerarchico con un obiettivo discriminatorio”. La pronuncia veniva confermata dalla Corte di Appello di Brescia, dove veniva esclusa una possibile violazione del principio della necessaria corrispondenza fra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c., non spettando alla parte ricorrente il compito circa la corretta qualificazione medico – legale da attribuire alla condotta produttiva del danno. Più precisamente, il giudice di merito ha adottato una differente qualificazione per identificare un comportamento già puntualmente provato nel corso del giudizio di primo grado.
Avverso la sentenza proponeva ricorso in Cassazione il MIUR denunciando, da un lato, la creazione da parte della Corte d’Appello della figura dello straining, sprovvista, a sentire del ricorrente, di una specifica configurazione giuridica e di concrete basi medico – legali; dall’altro, si criticano i giudici di merito circa la mancata giustificazione giuridica sulla scelta di dare pregnanza alle conclusioni del CTU. Si rimproverava, inoltre, la qualificazione come vessatoria della condotta tenuta dal dirigente scolastico, il quale, in presenza di una riscontrata inefficienza del servizio, si limitava ad utilizzare altro dipendente per lo svolgimento di diverse mansioni. Infine, con il quarto e ultimo motivo di ricorso, si censurava la scelta di avallare le conclusioni del CTU in merito alla quantificazione del danno subito.
La Suprema Corte, dal canto suo, richiamandosi alla precedente sentenza Cass. n. 3291 del 2016, dichiara infondati tutti i motivi di ricorso.
4. La decisione della Corte di Cassazione: lo straining
Lo straining rappresenta una forma attenuata di mobbing che, a differenza di quest’ultimo, si caratterizza per una sola azione ostile, seppur con efficacia ad effetti perduranti. La giurisprudenza[5] definisce lo straining come
una situazione lavorativa conflittuale di stress forzato, in cui la vittima subisce azioni ostili limitate nel numero e/o distanziate nel tempo (quindi non rientranti nei parametri del mobbing) ma tale da provocarle una modificazione in negativo, costante e permanente, della condizione lavorativa”.
A ciò può aggiungersi che gli aggressori o strainers, a differenza del mobbing, possono essere unicamente i superiori gerarchici o i datori di lavoro e non i colleghi[6].
Pertanto, se i tratti distintivi del mobbing sono proprio la sistematicità, la regolarità e frequenza delle ostilità ai danni della vittima, nel suddetto “stress forzato” i soggetti sono invece vittima di sporadiche vessazioni, che, tuttavia, comportano i medesimo effetti del mobbing, in grado di ripercuotersi sulla qualità di vita del lavoratore. Tale mirato atteggiamento produce molteplici ed evidenti sofferenze da stress nei confronti dal lavoratore.
Orbene, dato il rapporto genere – specie che lega i due fenomeni, non sussiste, per la Corte di Cassazione, alcun vizio di ultra o extra petizione, essendosi i giudici di merito pronunciatesi entro i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dall’attore.
5. La pretesa risarcitoria ex 2087 c.c.
Prosegue la Corte affermando che lo straining, allorché si rivela causa di danni all’integrità psico-fisica del lavoratore, giustifica la pretesa risarcitoria ex art. 2087 c.c.
L’articolo 2087 c.c., rubricato “Tutela delle condizioni di lavoro”, afferma che “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
La norma trova dinamica applicazione in tutti i settori di attività pubblica e privata, applicandosi, pertanto, non solo ai lavoratori subordinati ma anche a tutti i soggetti ad essi equiparati[7].
Ebbene, la Suprema Corte ha da tempo ribadito che l’obbligo di sicurezza gravante in capo al datore di lavoro trova la propria giustificazione costituzionale nel combinato disposto degli artt. 32, 41 e 2 Cost, a tutela del diritto alla salute, della dignità umana e dei diritti inviolabili della persona. Ne consegue che l’ambito di applicazione della norma è quindi certamente ampliato rispetto al mero tenore letterale, ponendosi a carico del datore di lavoro, non solo la predisposizione dei mezzi di prevenzione antinfortunistica, bensì ogni obbligo a tutela del benessere psichico e fisico di tutta l’organizzazione lavorativa.
Orbene, secondo la dottrina maggioritaria[8], l’art. 2087 c.c. rappresenterebbe un norma di chiusura di un sistema prevenzionale a carattere aperto, il cui contenuto è volto principalmente a supplire alle lacune della disciplina giuslavoristica. Ratio della norma è, dunque, quello di adattare i livelli di sicurezza imposti al datore rispetto al mutare della tecnologia e del progresso. In altri parole, il sistema pone a carico del datore di lavoro uno speciale obbligo di protezione del lavoratore comprensivo oltre del rispetto deli limiti legali per la prevenzione degli infortuni e l’igiene del lavoro, l’introduzione e il mantenimento di misure concretamente idonee a prevenire fattori nocivi sotto il profilo dell’integrità psico-fisica dei lavoranti, anche sotto il profilo della personalità morale[9].
In conclusione, per la Suprema Corte,
la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. sorge, pertanto, ogniqualvolta l’evento dannoso sia eziologicamente riconducibile ad un comportamento colposo, ossia o all’inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali imposti o al mancato rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede, che devono costantemente essere osservati anche nell’esercizio dei diritti”.
6. Riflessioni conclusive
Ebbene, attraverso quest’ulteriore pronuncia della Cassazione, che va ad aggiungersi a quella del 2016, la giurisprudenza pone un nuovo passo verso il definitivo riconoscimento dello straining e, dunque, di una più ampia tutela del lavoratore contro ogni forma di intromissione nella propria sfera personale.
Tuttavia, se condivisibili appaiono i motivi sottesi ad una scelta in tale direzione, sorretti in particolare modo dall’esigenza di alleggerire l’onere probatorio in capo al lavoratore, non meno lampante rimane l’ esigenze di una più specifica presa di posizione da parte del legislatore.
In altre parole, il rischio è quello di allargare troppo le maglie della tutela, finendo per far rientrare nell’ambito dell’art. 2087 c.c., anche quelle situazioni di stress fisiologico rientrante, invece, nella dinamica lavorativa.
De iure condendo, è pertanto auspicabile una presa di posizione da parte del legislatore, che escluda del tutto forme incontrollate di discrezionalità giudiziale.
[1] H. Leymann, Mobbing and psychological terror at workplaces, Violence and Victims, 1990
[2] T. Bartalucci – Conoscere, comprendere e reagire al fenomeno del mobbing, 2010
[3] In dottrina e giurisprudenza si è soliti distinguere tra mobbing verticale, anche detto bossing e consistente negli abusi perpetrati da un superiore gerarchico nei confronti di uno o più dipendenti, dal mobbing orizzontale, dove gli atti persecutori sono ad opera di uno o più colleghi nei confronti di un altro, al fine di screditare la sua reputazione.
[4] Nelle singole legislazioni nazionali dei Paesi europei, la Svezia è stata il primo Paese europeo a dotarsi di una legge nazionale sul mobbing. L’Ente nazionale per la salute e la sicurezza svedese ha emanato, in data 21 settembre 1993, una specifica ordinanza (AFS 1993/17), entrata in vigore il 31 marzo 1994, recante misure contro qualsivoglia forma di «persecuzione psicologica» negli ambienti di lavoro. A questa, sono poi seguiti, nel 1997, nuovi atti dispositivi relativi alle misure da adottare contro le forme di persecuzione psicologica in ambito lavorativo.
[5] Corte Cass. Civ., sentenza 19 febbraio 2016, n. 329
[6] Corte Cass. Civ, sentenza 7 maggio 2014 n. 9870
[7] G. Natullo – La tutela dell’ambiente di lavoro, 1995
[8] M. Lai – Il diritto della sicurezza sul lavoro tra conferme e sviluppi, 2017, afferma al proposito che “al datore di lavoro si impone infatti di adottare tutte quelle misure che, anche se non richiamate in modo specifico da norme particolari e la cui violazione sia prevista come reato autonomo, appaiono in concreto necessarie a garantire la sicurezza”.
Giacomo Tasca
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