Tra libertà di autodeterminazione e liceità dell’attività medica: il rifiuto delle trasfusioni di sangue dei Testimoni di Geova
Il rapporto tra autodeterminazione, attività medica e appartenenza religiosa suscita un continuo disputare in cui si avverte la difficoltà di percorrere una strada che approdi all’individuazione di regole di convivenza effettivamente rispettose della dimensione più personale dell’uomo, cioè della sua sostanza spirituale, seppur dentro i limiti imposti dalle esigenze più elementari di un aggregato umano. Il tema, del resto, appare estremamente complesso poiché attiene a questioni che convergono, sia dal punto di vista giuridico che filosofico, su particolari aspetti dell’esistenza, privata e pubblica, di ogni uomo, sul significato del corpo[1] e di salute, sul problema dell’appartenenza e dell’autodeterminazione, ed esprime la necessità di ridisegnare giuridicamente la dicotomia oggetto/soggetto di un corpo scientificamente parcellizzato, oggettivato, con un corpo che è pur sempre il proprio corpo vivente, custode ed espressione del sé, inscindibile dalla propria identità personale e dalla rappresentazione della propria dignità. Inoltre, l’attuale assetto multiculturale e multireligioso della nostra società, piuttosto che silenziare il dibattito, ha riacceso la classica contrapposizione (che, però, oggi assume connotazioni del tutto peculiari in ragione delle dinamiche tipiche di una frammentazione delle identità e alla vigenza di eterogenei codici etici che rendono più difficile la ricerca di punti minimi di condivisione al fine di garantire un «ponte verso il futuro»[2])[3] tra l’ideologia laica e quella confessionale che, influenzate da differenti ed inconciliabili paradigmi di natura etica, filosofica e morale[4], forniscono divergenti valutazioni e concezioni della vita umana[5]. Del resto, a meno di sostenere che il proprio paradigma bioetico sia l’unico esistente e legittimo oppure che la propria visione bioetica, in quanto onnicomprensiva della morale, si identifichi con la bioetica tout court, si deve ammettere che «da un punto di vista epistemologico- descrittivo non esiste la bioetica, ma una constatabile molteplicità di modelli o paradigmi bioetici che non è corretto misconoscere»[6].
Il tema del pluralismo religioso in ambito sanitario, così, appare oggi di enorme attualità poiché determina la contemporanea coesistenza di diversi modelli culturali, di visioni del corpo umano ciascuna a sua volta portatrice di una propria concezione di terapia, intendendo “per visioni del corpo l’insieme delle idee di un soggetto o di un gruppo riguardo al corpo umano nella sua fisiologia e patologia fisica e morale, mentre per modello terapeutico il complesso delle convinzioni in ordine a quali atti siano necessari per la soluzione della patologia e per il mantenimento dello stato fisiologico[7].
Per una corretta disamina della questione bisogna, tuttavia, compiere in primis un’analisi involgente la rilevante questione concernente la libertà di autodeterminazione del soggetto riguardo agli atti di disposizione del proprio corpo, il fondamento del consenso e l’identificazione dei confini esterni dello stesso. Il primo aspetto concerne la tutela costituzionale della libertà del singolo di autodeterminarsi in relazione ad atti coinvolgenti il proprio corpo ed i limiti connessi alla disposizione di esso. La libertà di autodeterminarsi in ordine ad attività e comportamenti che riguardano e che coinvolgono il proprio corpo, consta, per quanto concerne il suo contenuto, di una duplice accezione, distinguendosi in un aspetto “attivo” che sta a significare il diritto del singolo di decidere liberamente e volontariamente in ordine ad attività concernenti il suo corpo ed un aspetto “passivo” che si concreta nel diritto del singolo a non subire, contro la sua volontà, atti o interventi sul proprio corpo ad opera di terzi. In realtà, nel testo costituzionale non sono contemplati principi espliciti concernenti gli atti di disposizione del corpo umano e ciò ha alimentato un intenso dibattito dottrinale. Parte della dottrina[8] ne individua il fondamento nell’art. 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo. Si ritiene infatti, avallando la concezione aperta dell’art.2 Cost, che la libertà di disporre del proprio corpo rientri tra i diritti inviolabili della persona umana. Con una successiva pronuncia,tuttavia, la Corte Costituzionale si allinea su una posizione diversa, affermando che la libertà di autodeterminarsi in relazione agli atti che coinvolgono il corpo umano ha un fondamento che viene individuato nel principio di libertà personale sancito dall’art.13 Cost. In essa si configura, per la prima volta, in relazione agli atti di disposizione del corpo, il concetto di “libertà” in luogo di quello di “potere”, che si incentra sul valore inscindibile e unitario della persona umana e postula la libertà di autodeterminarsi in relazione ad atti che coinvolgono il corpo[9]. Non si tratta di un mutamento di carattere meramente terminologico, ma sostanziale, che riflette la centralità e la rilevanza, che nel nostro ordinamento, assume la persona umana, considerata al vertice della gerarchia dei valori giuridici. Così, il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione -previsto dall’articolo 32 della Costituzione che dispone, quale particolare accezione del diritto alla libertà personale di cui all’articolo 13[10], un vero e proprio diritto generale di rifiutare le cure – diviene il crocevia tra il diritto alla libertà personale e quello alla salute[11] – anch’esso con un espresso fondamento costituzionale ravvisabile negli artt. 2, 13 e 32 Cost. – le cui nuove potenzialità emergono attraverso il diritto alla libertà di cura. La portata dirompente della libertà di autodeterminazione del soggetto in relazione alla propria salute si è estrinsecata nel “principio del consenso informato,” attraverso il quale il paziente esercita la sua facoltà decisionale in relazione ai trattamenti medico-chirurgici cui intende o non intende sottoporsi[12]. Quale istituto che racchiude in sé da un lato l’informazione e, dall’altro, la volontà, entrambe da intendersi nella loro accezione sia positiva che negativa, il consenso informato, vero e proprio diritto della persona e principio fondamentale in materia di tutela della salute, deve quindi essere alla base del rapporto tra medico e paziente e costituisce norma di legittimazione del trattamento sanitario, illegittimo in assenza dello stesso (salvo che la legge preveda il contrario)[13]. Esso deve essere personale, specifico, libero e consapevole. In particolare il paziente deve conoscere l’oggetto del trattamento sul proprio corpo, i rischi che comporta e le eventuali alternative[14]. Corre l’obbligo, pertanto, per il medico di offrire al paziente un quadro completo, esaustivo ed aggiornato delle sue condizioni, in maniera a lui comprensibile riguardo a diagnosi, prognosi, probabili sviluppi, benefici e rischi del trattamento, nonché alternative e conseguenze, in modo che lo stesso possa prendere una decisione libera e consapevole. Ciò in quanto l’attività medica, in mancanza di consenso, è da considerarsi arbitraria -anche se l’intervento medico sia eseguito perfettamente e produca gli effetti risolutivi o migliorativi configurati prima della sua effettuazione- e, pertanto, foriera di conseguenze giuridiche indipendenti dall’esito positivo dell’attività medica intrapresa[15].
Nella relazione di cura e di fiducia che si instaura tra paziente e medico[16], dunque, ogni paziente capace di intendere e di volere ha sia il diritto di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario o accertamento diagnostico sia di modificare, in qualsiasi momento, il consenso eventualmente manifestato[17]. Ciò si incardina nell’alveo della cd. “rivoluzione silenziosa della medicina”[18], che rinviene i propri tratti salienti nel tramonto del modello paternalistico nel rapporto medico-paziente; nell’affermarsi di una relazione incentrata sulla autonomia del soggetto; infine, nella valorizzazione del principio di autodeterminazione del singolo in relazione alle scelte terapeutiche concernenti la propria salute. Il principio del consenso informato[19] costituisce dunque estrinsecazione della libertà di autodeterminazione del soggetto in relazione alla propria salute, e ha un suo fondamento Costituzionale, che si rinviene negli articoli 2, 13, 32 Cost..
Innanzitutto in un ordinamento incentrato sul principio personalista, la libertà di autodeterminazione, inerente alla propria integrità psico-fisica, esplicazione della personalità umana e fondamento del consenso, rientra tra i diritti inviolabili dell’uomo, solennemente riconosciuti all’art.2 Cost.[20]. Il consenso ha il suo fondamento normativo anche nell’art.13 Cost., che riconosce l’inviolabilità della libertà personale e contempla anche la libertà di autodeterminarsi in relazione alla propria salute. Inoltre, trae fondamento anche dal precetto contenuto nell’art.32 Cost., che tutela il diritto alla salute e riconosce solennemente il diritto del soggetto di autodeterminarsi, scegliendo autonomamente se effettuare o no un determinato trattamento sanitario.
La configurazione del principio del consenso informato, quale presupposto di liceità di ogni intervento diagnostico o terapeutico, implica che lo stesso deve avere, come si è detto, i seguenti connotati: deve essere personale, specifico, consapevole, informato, libero e revocabile in ogni momento. Il consenso (o il dissenso) deve, dunque, essere attuale[21] e deve essere manifestato attraverso «una volontà non astrattamente ipotetica ma concretamente accertata» che faccia emergere l’inequivocabile volontà del paziente di sottoporsi o meno al trattamento sanitario[22]. Un ruolo rilevante è espletato dall’informazione, che si configura quale requisito di validità del consenso, infatti, il paziente deve essere informato del trattamento terapeutico, cui il medico intende sottoporlo, e dei rischi ad esso inerenti[23]. Inoltre, le indicazioni dovranno essere veritiere e complete, concernendo tutte le possibili implicazioni dei risultati, ma limitate a quegli elementi che il paziente, sulla base della sua condizione psicologica e culturale sia in grado di recepire ed accettare, evitando enunciazioni eccessive di dati, che interessano l’aspetto scientifico della patologia. Il paziente, così, potrà decidere se il trattamento terapeutico sia o meno conforme ai sui valori di riferimento e alle sue convinzioni etiche, filosofiche e religiose. Innanzi a tale manifestazione di volontà il personale medico sarà dunque tenuto a desistere da qualsiasi atto ad essa contrario poiché, in caso contrario, il trattamento sanitario dovrà ritenersi ex artt. 13 e 32 Cost. illegittimo.
Come si è accennato, le questioni sottese ai rapporti tra diritto di autodeterminazione, consenso informato al trattamento medico e appartenenza religiosa appaiono in tutta la loro attuale complessità nei casi di rifiuto delle emotrasfusioni dei Testimoni di Geova[24]. Il credo religioso dei Testimoni di Geova, infatti, vieta le trasfusioni di sangue e di componenti del sangue, anche se tale trattamento sanitario rappresenti l’unica terapia salvifica. A causa di tale divieto, il Testimone di Geova si trova dunque a dover esprimere il dissenso a un trattamento terapeutico il più delle volte indispensabile per evitare un pericolo per la propria vita o per la propria salute. Si tratta di un dissenso alla cura religiosamente motivato.
Al riguardo il frequente caso delle emotrasfusioni rifiutate dai Testimoni di Geova, non di rado, ha dato luogo a controversie. Attualmente, i Testimoni di Geova, che devono essere compiutamente informati della terapia alternativa possibile o delle cure mediche necessarie e che potrebbero implicare il ricorso alle emotrasfusioni[25], hanno il diritto di rifiutare la trasfusione di sangue anche nei casi in cui ciò possa determinare la morte. Nel tentativo di scongiurare trasfusioni di sangue prive del consenso del paziente, poi, la Congregazione dei Testimoni di Geova ha predisposto un modulo per le direttive anticipate di trattamenti sanitari e amministratore di sostegno che, compilato in ogni sua parte e opportunamente firmato, deve essere consegnato all’amministratore di sostegno designato, al medico e all’ospedale[26].
Il diritto di rifiutare le cure in generale trova infatti riconoscimento in fonti normative nazionali e sovranazionali, e non può essere limitato per motivi religiosi. Inoltre, attualmente, alla luce della legge 219 del 2017[27], il rifiuto della trasfusione può costituire oggetto di direttive anticipate di trattamento nella quale il dichiarante può chiedere la nomina di un amministratore di sostegno[28] che abbia potere di garantire il rispetto della volontà di rifiutare la trasfusione[29].
Come si è detto, si tratta di pazienti che per convinzione religiosa e, dunque, per osservare i precetti a cui sono soggetti in ragione dell’appartenenza alla Congregazione[30], si oppongono a sottoporsi ad un trattamento medico opportuno o necessario per restare in vita o per mantenersi in buona salute. La questione, anche se si pone come conflitto tra la coscienza deontologica del sanitario che è chiamato ad intervenire per preservare la vita o la salute del paziente e la coscienza religiosa di quest’ultimo, nell’ipotesi da noi considerata, pur non trovandoci alla presenza di una legge che prescriva tale tipo di trattamento sanitario (emotrasfusione), si tratta di trovare un opportuno bilanciamento tra la scelta religiosa del soggetto rispetto alla tutela del diritto alla vita e alla salute[31]. Emerge, dunque, una tensione tra il diritto alla autodeterminazione del paziente, il diritto alla salute ed il diritto alla libertà religiosa[32].
Al riguardo, la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, nel difficile bilanciamento tra coscienza e salute, tra diritto ad esprimere il dissenso alle trasfusioni di sangue e i doveri inerenti alla professione medica, ha continua ad assumere posizioni non univoche pur nella consapevolezza che nell’adempimento dei doveri professionali il medico non deve prescindere da «valutazioni di proporzionalità e adeguatezza dell’azione rispetto al raggiungimento dello scopo diretto alla tutela della vita e della salute fisica e psichica del paziente ma nel rispetto della libertà e dignità della persona umana»[33].
In particolare, è da segnalare la Sentenza n. 4211/2007, con cui la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata in merito ad una domanda di risarcimento dei danni morali patiti da un membro della Chiesa dei Testimoni di Geova per essere stato costretto, contro la sua volontà a subire l’intervento, espressamente rifiutato, costituito da una trasfusione sanguigna. In primo luogo ed in via generale si deve dire che se è vero che il paziente trasfuso coattivamente rivendica la violazione della sua libertà religiosa, è altrettanto diffuso il rifiuto a causa di presunti motivi di opportunità sanitaria e di specifica consapevolezza della pericolosità delle emotrasfusioni. «Il diritto di rifiutare, pertanto, si completa da una consapevolezza che va oltre il mero rispetto dei precetti religiosi che nel caso dei testimoni di Geova, sono fondati nella Bibbia»[34]. Cosi, il diritto costituzionalmente garantito di sottrarsi ad una pratica terapeutica «sia esso motivato da istanze religiose, piuttosto che sanitarie, etiche o politiche, sia esso ulteriormente ricompreso nel diritto alla libertà religiosa ex articolo 19 della costituzione trova ab origine già ampio riconoscimento negli artt. 32, comma 2, 13 e 23 del Testo fondamentale»[35].
In ogni caso, prima che la Corte di Cassazione si esprimesse con sentenza n. 4211/2007, la domanda volta ad ottenere il risarcimento del danno subito veniva rigettata sia dal Tribunale che dalla Corte d’Appello, sulla base di due ordini di motivazioni: – si era ritenuto che i sanitari si fossero trovati di fronte alla necessità di intervenire per salvargli la vita e che, conseguentemente, ciò avrebbe reso comunque lecito, ai sensi dell’art. 54 c. p., la loro condotta[36].
Infatti la trasfusione era stata effettuata – tenuto conto del quadro clinico del paziente – in mancanza di altre alternative terapeutiche; – si precisava come il diritto alla vita costituisse un diritto indisponibile costituzionalmente garantito di cui nessuno poteva disporre e come il rifiuto alla trasfusione fosse stato effettuato in un momento in cui le condizioni del paziente non apparivano così critiche come quelle verificatesi successivamente, in sala operatoria, ove tale dissenso non poteva più essere manifestato. Comunque i giudici di merito ritenevano che il rifiuto al trattamento trasfusionale manifestato al momento del ricovero non potesse ritenersi operante anche al momento in cui le trasfusioni si erano rese necessarie, in quanto era assai dubbio che l’attore, qualora avesse saputo dell’effettiva gravità della lesione e dell’incombente pericolo di vita avrebbe senz’altro ribadito il suo dissenso, che per essere valido doveva essere inequivocabile, attuale, effettivo e consapevole. Il paziente presentava ricorso in Cassazione denunciando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 13 Cost., comma 1, e art. 32 Cost., comma 2 e art. 54 c.p., contestando l’affermazione dei giudici di merito circa la non operatività del suo dissenso alle trasfusioni anche nel successivo momento in cui le stesse si erano rese necessarie. In tale caso, la Suprema Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare che, pur esistendo nel nostro ordinamento giuridico previsioni di casi in cui il consenso del paziente è messo in secondo piano di fronte alla esigenza di adeguata protezione della salute collettiva, la emotrasfusione non rientra tra i trattamenti sanitari che possono essere disposti obbligatoriamente poiché in genere, in tali casi, non sono in gioco interessi pubblici non altrimenti garantibili. «Si può allora affermare che la imposizione di un trattamento emotrasfusionale non può trovare alcun fondamento giuridico in qualche modo legittimante, posto che in nessun caso è ravvisabile in esso la esigenza pubblica di tutelare un interesse collettivo di fronte al quale debba cedere il diritto del singolo sul proprio corpo»[37]. Tale orientamento ritiene inoltre che, in quei casi in cui vi sia un pericolo attuale di vita per il soggetto ma lo stesso persista nel suo rifiuto ad accettare la pratica trasfusionale, non possa essere fatto richiamo alla scriminante di cui all’art. 54 c. p. poiché non può essere suggerito al medico l’impiego sistematico di una scriminante che lede i diritti inviolabili della persona umana riconosciuti e garantiti dalla Costituzione[38].
Ancora, altre pronunce di giudici di legittimità in materia di rifiuto alle emotrasfusioni fanno riferimento implicito all’istituto dell’amministrazione di sostegno e alla dichiarazione anticipata ai trattamenti sanitari[39]. Ad esempio, i giudici del Tribunale di Roma in un decreto del dicembre 2005[40], in casi di richiesta di nomina di un amministratore di sostegno con l’incarico specifico di esprimere il diniego alla terapia emotrasfusionale, da parte di un testimone di Geova, si sono espressi in modo favorevole all’attribuzione ad un amministratore di sostegno l’incarico di manifestare ai sanitari la volontà contraria alla emotrasfusione a suo tempo espressa da un paziente testimone di Geova che si trova in stato di incapacità. Del resto, il riconoscimento in capo all’amministratore di sostegno “a manifestare ai sanitari la volontà a suo tempo espressa dal beneficiario in merito ad atti trasfusionali di sangue ed emoderivati” appare conforme ai diritti inviolabili della persona costituzionalmente riconosciuti come il diritto di libertà religiosa che “si manifestano anche vivendo ed operando nell’osservanza dei precetti , così come, per altro verso la Corte Costituzionale (Sent. 22/10/1990, n. 471) ha avuto modo di affermare che la libertà di autodeterminazione, in ordine ad atti che coinvolgono il proprio corpo, rappresenta espressione della libertà personale inviolabile di cui all’art. 13 della Carta Costituzionale”[41]. Allo stesso modo, la Corte di Cassazione, nella più volte citata sentenza n. 23676 del 15 settembre 2008, nel difficile bilanciamento tra il diritto alla vita e alla salute e l’identità culturale religiosa, nel caso del “testimone di Geova” che rifiuta il trattamento, privilegia quest’ultima. In tale pronuncia si legge infatti che è “ innegabile l’esigenza che, a manifestare il dissenso al trattamento trasfusionale, sia o lo stesso paziente che rechi con sé una articolata, puntuale, espressa dichiarazione dalla quale inequivocamente emerga la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita, ovvero un diverso soggetto da lui stesso indicato quale rappresentante ad acta il quale confermi tale dissenso all’esito della ricevuta informazione da parte dei sanitari». Anche la Corte di Cassazione con la sentenza n. 12998 del 15 maggio 2019, in tema di designazione anticipata dell’amministratore di sostegno, ha affermato che, anche se la ospedalizzazione impine ai medici di adempiere ad una funzione di protezione nei confronti del paziente, l’autonomia decisionale del singolo in ordine ai diversi trattamenti medici da seguire (o rifiutare) rappresenta il mezzo per perseguire, i ragione delle proprie convinzioni etiche, filosofiche, culturali e religiose, i suoi migliori interessi[42].
In altra pronuncia, avente lo stesso “petitum”, invece, il giudice tutelare del Tribunale di Genova, con decreto del 6 marzo 20098 ha argomentato il suo diniego a conferire all’amministratore di sostegno il potere di rifiutare un trattamento salvavita affermando che non è possibile incaricare l’amministratore di esprimere, comunque ed in ogni caso, un “dissenso” sulla base di una precedente scelta del tutto personale del titolare del diritto di anteporre il proprio convincimento religioso al bene della vita”. In un’altra decisione ancora, il g. t. del Trib. Di Bari, sezione distaccata di Putignano, del 18 agosto 2011[43] ha autorizzato l’amministratore di sostegno “a manifestare per conto del beneficiario, la volontà in ordine agli atti trasfusionali di sangue ed emoderivati secondo il credo della “Congregazione dei testimoni di Geova”, previa verifica della possibilità di esperire rimedi alternativi salvavita”. Come è evidente, le decisioni sopra riportate, anche se prospettano soluzioni talvolta contrastanti, nel tentativo di bilanciare l’esercizio della libertà religiosa con il diritto alla vita e di risolvere i rapporti tra libertà di coscienza e salute, in vario modo hanno evidenziato la necessità di dare rilevanza alla scelta religiosa del soggetto e, nel contempo, di individuare i limiti espliciti all’esercizio della libertà religiosa e di coscienza, che, sotto il profilo strettamente giuridico, trovano un riferimento testuale nell’art. 19 Cost. (riti e comportamenti contrari al buon costume) ed i limiti impliciti, che possono individuarsi nei diritti e negli interessi aventi rilevanza costituzionale.
In tale contesto, il dibattito dottrinale -che non ha solo natura teorica ma ha anche risvolti e ricadute pratiche che incidono su scelte di vita delle persone- si è interrogato sull’ordine di prevalenza tra i doveri che incombono sul medico nell’esercizio delle sue funzioni e il diritto da parte del paziente di esprimere il dissenso alle trasfusioni di sangue per motivi religiosi.
Al riguardo, fermo restando il diritto del paziente di autodeterminarsi in merito al piano terapeutico da seguire, nel difficile tentativo di individuare la linea di confine tra la libertà di decidere in ragione del proprio credo religioso e l’intervento del medico anche la scienza medica si è occupata di individuare strategie e trattamenti terapeutici alternativi alle emotrasfusioni anche attraverso la predisposizione, ad esempio, di ambulatori specificamente dedicati ai soli Testimoni di Geova[44]. Questa iniziativa, come altre, si inserisce in quella che viene definita come patient blood management, ovvero una strategia multidisciplinare e multimodale che mette al centro la salute e la sicurezza del paziente migliorando i risultati clinici riducendo in modo significativo l’utilizzo dei prodotti del sangue, affrontando tutti i fattori di rischio trasfusionale modificabili, ancor prima che sia necessario prendere in considerazione il ricorso alla terapia trasfusionale stessa. L’apertura pratica a tale approccio, non a caso, è avvenuta dapprima proprio nell’assistenza ai pazienti Testimoni di Geova che rifiutano trasfusioni di emocomponenti per motivazioni religiose, facendo sì che divenissero risorsa di stimolo per il raffinamento e applicazione di metodiche per il risparmio di sangue e l’attuazione di terapie alternative alla trasfusione divenute poi di beneficio per tutti i pazienti.
Con l’obiettivo di prendere in considerazione le esigenze di quei cittadini portatori di peculiari richieste assistenziali derivanti dal rifiuto di terapie che prevedono l’uso del sangue e di emoderivati, anche l’USL di Firenze nel 2007 ha adottato una Carta sul Principio di autodeterminazione: consenso e dissenso informato in merito all’uso del sangue e alla ricerca di alternative allo scopo di offrire ai professionisti sanitari un supporto contenutistico finalizzato a creare consapevolezza, a diffondere la cultura del rispetto dei valori ed all’individuazione di un’adeguata assistenza a quei cittadini che, in ossequio a specifiche indicazioni religiose o sulla base di qualsivoglia motivazione, richiedono di essere curati senza il ricorso al sangue e ai suoi derivati. Così, in base all’articolato di questa Carta[45] il medico, in caso di rifiuto a trasfusioni di sangue, deve desistere da qualsiasi atto diagnostico e curativo rifiutato, non essendo consentito alcun trattamento contro la volontà del paziente, anche in caso di concreto pericolo di vita. Inoltre, il rifiuto del paziente maggiorenne e cosciente può essere revocato in qualsiasi momento (perfino negli stati può crepuscolari di coscienza) e non cessa la propria efficacia in caso di sopravvenuta perdita di coscienza per anestesia, anemizzazione o altra causa. L’accettazione del rifiuto non è in conflitto con il dovere etico del medico di preservare l’integrità della persona, quale soggetto capace di autodeterminarsi anche in ragione delle proprie convinzioni. L’esecuzione coatta o all’insaputa e quindi fraudolenta dell’emotrasfusione di sangue allogenico, eseguita contro il volere del paziente, costituisce atto eticamente riprovevole, deontologicamente scorretto e antigiuridico. Il sanitario o l’équipe chirurgica devono, così, esplicitare al paziente la propria disponibilità – in un intervento programmato – ad accettare la limitazione imposta dal rifiuto emotrasfusionale; in tal caso, gli stessi dovranno pianificare assieme al paziente, la cura ottimale informandolo dei rischi ad essa connessi. L’accettazione del rifiuto del paziente all’emotrasfusione impone agli operatori di astenersi dal trasfondere sangue allogenico per qualsiasi sopravvenuta evenienza intraoperatoria o di degenza, anche in caso di evento emorragico imprevisto ed imprevedibile. Dunque, programmare un intervento senza informare il paziente che l’équipe sanitaria non garantisce di poter rispettare completamente il limite posto dal suo rifiuto emotrasfusionale, confidando che in stato di necessità o durante la narcosi, all’insaputa del paziente, si potrebbe comunque far ricorso all’emotrasfusione rifiutata, è deontologicamente ed eticamente inaccettabile, irrispettoso dei diritti della persona e quindi illecito.
Sempre nel tentativo di delineare strategie cliniche alternative la stessa Congregazione dei Testimoni di Geova ha delineato specifiche linee guida[46] che devono orientare l’azione dei Comitati di Assistenza Sanitaria. Questi ultimi, infatti, non solo svolgono un’azione generale di supporto e di assistenza ospedaliera al paziente -anche nella semplice scelta di quelle strutture sanitarie che operano tenendo in considerazione anche i particolari precetti religiosi- ma, con il supporto dei ministri di culto locali, forniscono informazioni ai medici e al personale sanitario che, tenendo conto anche della dimensione spirituale del paziente, siano utili ad evitare il ricorso alle trasfusioni di sangue[47].
Da quanto detto, dunque, il difficile equilibrio fra la specificità della coscienza individuale e l’universalità della convivenza civile, non può che passare dal diritto all’autodeterminazione del paziente con preminenza rispetto alle scelte terapeutiche del personale sanitario, sia in conformità degli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione che degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sia delle politiche sanitarie europee[48]. Solo in tal modo è possibile tutelare l’homo dignus[49], libero di poter prendere determinate scelte, cosiddette sensibili, che possono incidere sull’andamento della propria vita o, addirittura, sulla vita stessa e che non possono prescindere dalle convinzioni etiche, filosofiche e religiose che ne sono alla base[50]. La dignità umana, del resto, passa anche per il riconoscimento della libertà religiosa, dell’identità personale e della libertà di autodeterminazione[51]. E’, dunque, dal riconoscimento del principio di autodeterminazione che si muove per delineare il diritto soggettivo assoluto alla salute non soltanto negli aspetti positivi ma anche nei suoi riflessi negativi, con riferimento, cioè, non al potere di consentire l’attività sanitaria su di sè ma alla facoltà di escluderla e, quindi, di rifiutare cure, terapie ed interventi di vario genere sulla propria persona. Infatti, come tutti i diritti di libertà, lo stesso implica anche la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato e, finanche, di lasciarsi morire. Del resto, c’è chi, legando indissolubilmente la propria dignità alla vita di esperienza e questa alla coscienza, ritiene che sia assolutamente contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitamente in una condizione di vita priva della percezione del mondo esterno. Uno Stato, come il nostro, organizzato, per fondamentali scelte vergate nella Carta costituzionale, sul pluralismo dei valori, e che mette al centro del rapporto tra paziente e medico il principio di autodeterminazione e la libertà di scelta, non può che rispettare anche quest’ultima scelta[52]. In questa prospettiva, una corretta interpretazione del diritto di autodeterminazione terapeutica consente anche di attuare pienamente il «principio di uguaglianza nei diritti di cui all’art. 3 Cost. che, evidentemente, non va guardato solo nella direzione di assicurare sostegno materiale agli individui più deboli o in difficoltà, come gli incapaci, ma anche in quella di rendere possibile la libera espressione della loro personalità, della loro dignità e dei loro valori»[53]. Al riguardo, da quanto sopra esposto, risulta evidente che il diritto alla libertà e all’autodeterminazione, declinato nell’articolo 32 della Costituzione con riferimento ai limiti dei doveri/poteri d’intervento dello Stato a tutela della salute delle persone, è stato affermato in modo chiaro sia dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità in materia di trattamenti terapeutici, che ha riconosciuto il diritto del paziente all’autodeterminazione nell’individuare le cure a cui sottoporsi e l’obbligo di rispettarne la decisione, anche se da questo possa derivare la sua morte, sia dalla giurisprudenza di merito[54] che spesso ha fatto esplicito richiamo a quella della Cedu[55]. tico tutelato dalla Costituzione, in base ai bisogni, alle richieste, alle aspettative, alla concezione stessa che della vita ha il paziente; tico tutelato dalla Costituzione, in base ai bisogni, alle richieste, alle aspettative, alla concezione stessa che della vita ha il paziente;tico tutelato dalla Costituzione, in base ai bisogni, alle richieste, alle aspettative, alla concezione stessa che della vita ha il paziente; Del resto, se anche gli «atti di accertamento preventivo, volontariamente richiesti dalla persona sul proprio corpo» si devono svolgere con «modalità compatibili con la dignità della figura umana, come richiesto in Costituzione dall’art. 32 comma 2»[56], allora ne consegue anche che una persona non può essere mai obbligata a subire un intervento o un trattamento sanitario perché ciò sarebbe lesivo, «non diversamente dal connesso e contiguo diritto alla vita e all’integrità fisica»[57], del diritto inviolabile di libertà personale. Ciò in quanto il diritto costituzionalmente garantito di autodeterminazione, che può avere motivazioni sanitarie, politiche, religiose, filosofiche ed etiche, si esteriorizza attraverso un’insindacabile processo volitivo dell’individuo non necessariamente orientato al rispetto di precetti religiosi[58]. Infatti, il diritto di sottrarsi ad una particolare pratica terapeutica «sia esso motivato da istanze religiose, piuttosto che sanitarie, etiche o politiche, sia esso ulteriormente ricompreso nel diritto alla libertà religiosa, ex art. 19 della Costituzione, trova ab origine già ampio riconoscimento negli articoli 32, comma 2, 13 e 23 del Testo fondamentale»[59]. Ciò anche in considerazione del fatto che, senza comprimere irrimediabilmente gli interessi pubblici, anch’essi da garantire per la realizzazione del benessere complessivo della comunità, la salute è diritto fondamentale dell’individuo ed interesse della collettività. Se infatti la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’articolo 32 quando il trattamento è diretto non solo a preservare e migliorare lo stato di salute di chi vi è assoggettato ma anche a preservare lo stato di salute del tessuto sociale (poiché non si possono comprimere i diritti della comunità ad esclusivo vantaggio del diritto di pochi), in egual modo non è accettabile «la totale negazione della dimensione individuale dei diritti fondamentali in funzione della garanzia concessa alla comunità»[60]. Tutto questo rientra nel più generale contesto dei diritti di libertà riconosciuti al singolo, soprattutto ogni qual volta la situazione patologica riguarda esclusivamente la persona del malato, senza alcun coinvolgimento degli altri membri della collettività[61]. Diversamente, nei casi nei quali alla esigenza di tutelare la salute del singolo individuo si affianca l’eguale esigenza di tutelare l’intera collettività, il diritto del singolo dovrà essere contemperato con quello della collettività nei limiti di quanto dispone in tema di trattamenti sanitari obbligatori e coattivi il secondo comma dell’articolo 32 della Costituzione[62]. Pertanto, se è vero che il diritto non può codificare le coscienze e che è necessaria una condivisione di alcune regole dell’agire sociale, con particolare attenzione proprio ai diritti inviolabili dell’uomo, alla dignità umana e alla tutela della salute, in forza del principio di laicità e di autodeterminazione non può ammettersi che una differente concezione della vita possa tradursi nell’imporre al singolo «una forma di tirannia odiosa e distruttiva»[63]. Al contrario, l’ordine giuridico deve rispettare i diversi orizzonti valoriali, etici e religiosi presenti nella società pluralistica, agevolando nuovi strumenti partecipativi capaci di reperire la regola giuridica eticamente più inclusiva. Il sistema giuridico secolare, pertanto, nel produrre norme giuridiche sulle questioni bioetiche, deve tenere conto del pluralismo etico che caratterizza la società contemporanea e, evitando di adottare una parziale visione culturale frutto della presa in considerazione solo di alcuni interlocutori, deve scongiurare la prevaricazione delle etiche forti su quelle deboli. Del resto, se il diritto «non è oggetto in proprietà di nessuno, ma deve essere oggetto delle cure di tanti» [64], il suo ruolo non può essere quello di «veicolo autoritario per imporre valori etici non condivisi»[65] ma deve assumere un carattere “flessibile”[66] e mite[67] (con regole giuridiche minime, ma certe)[68], rispettoso degli individui, ovvero laico, in una prospettiva pluralistica ed accogliente in cui «un ruolo di primo piano è giocato dai dettami delle confessioni storiche, anche nella loro proiezione culturale, e dal concomitante rilievo della retta coscienza dei cittadini, nel delicato rapporto tra regola della maggioranza e tutela delle minoranze, nonché del conseguente atteggiamento dello Stato nel raggio dei cosiddetti temi sensibili»[69]. Nell’ottica del superamento dell’autoreferenzialità il diritto deve, così, aprirsi a soluzioni giuridiche più consone a quel fenomeno di mescolanza sociale generato dai flussi migratori e alle conseguenti problematiche emergenti dal confronto di culture, spesso di matrice religiosa, diverse da quella occidentale. Tale realtà emergente rappresenta, infatti, una sfida rispetto alla quale si misura il rapporto tra libertà e laicità ed un campo di prova per il nostro Ordinamento che, contemperando la tutela delle diversità culturali e religiose con la salvaguardia dei valori comuni, deve promuovere un reale e pieno pluralismo fondato sul diritto alla differenza di ognuno rispetto alle istanze omologanti della cultura giuridica di accoglienza. In questa prospettiva, al di là del fatto che il difficile rapporto tra autodeterminazione del paziente ed esercizio dell’attività medica in conformità coni principi etico-deontologici rende complesso approdare soluzioni univoche, un approccio laico che rispetti le scelte esistenziali del singolo soggetto rappresenta il metodo espressivo di un «modo di essere dello Stato e dei cittadini, connotato dalla vocazione al dialogo e all’incontro con gli altri»[70] in un difficile processo di armonizzazione delle libertà individuali con le irrinunciabili esigenze sociali di solidarietà e sicurezza.
[1] M. M. Marzano, Il corpo tra diritto e diritti in Materiali per una storia della cultura giuridica, n. 2, 1999, p. 549 e ss.; S. Rodotà, Ipotesi sul corpo “giuridificato” in Rivista critica del diritto privato, n. 4, 1994, p. 489 e ss.
[2] V. R. Potter, Bioetica ponte verso il futuro, Sicania, Messina, 2000.
[3] Sul tema si rinvia a V. Valentini, La laicità dello Stato e le nuove interellazioni tra etica e diritto, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.Statoechiese.it), giugno 2008; F. Freni, La laicità nel biodiritto. Le questioni bioetiche nel nuovo incedere interculturale delle giuridicità, Giuffrè, Milano, 2012; G. Faggin, Bioetica ecumenica. Dal “to cure” al “to care” ovvero dal “curare” al “prendersi cura di”, Panda Edizioni, Treviso, 2017. Sui diversi modelli biogiuridici si rinvia a F. D’Agostino, Bioetica nella prospettiva della filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 1997; L. Nielsen, Dalla bioetica alla biolegislazione, in C. M. Mazzoni, Una norma giuridica per la bioetica, Il Mulino, Bologna, 1998, p. 50 e ss.; F. D. Busnelli, Bioetica e diritto privato. Frammenti di un dizionario, Giappichelli, Torino, 2001.
[4] Per uno studio sui diversi paradigmi di natura etica, filosofica e morale si rinvia a L. Palazzani, E. Sgreccia, Il dibattito sulla fondazione etica in bioetica, in Medicina e morale, 42, 1992, pp. 847-870; T. L. Beauchamp, J. F. Childress, Princìpi di etica biomedica, a cura di F. Demartis, traduzione di Sabrina Buonazia dall’originale Principles of Biomedical Ethics (1994), Le lettere, Firenze, 1999, pp. 55-125; G. Russo, Storia della bioetica. Le origini,il significato, le istituzioni, Armando Editore, Roma, 1995.
[5] Cfr. sul tema M. Aramini, Persona e libertà nel dibattito tra bioetica laica e bioetica cattolica, Mattioli, Fidenza, 2012; H. T. Engelhardt, The foundation of Bioethics, Oxford University Press, New York, 1986; M. Mori, La bioetica: che cos’è, quand’è nata, e perché. Osservazioni per un chiarimento della ‘natura’ della bioetica e del dibattito italiano in materia, in Bioetica, 1, 1993, pp. 115-143; P. Singer, Etica pratica, Liguori Editore, Napoli, 1989; Aa.Vv., Teologia e bioetica laica, a cura di L. Lorenzetti, Dehoniane, Bologna 1994; L. Palazzani, Bioetiche a confronto, in Iustitia, 1996, n. 3, pp. 305-315; R. Mordacci, L’incerta vicenda della bioetica. Saggio di interpretazione sintetica, in Aa.Vv., La bioetica. Questione civile e problemi teorici sottesi, Giuffrè, Milano, 1998, pp. 21-53; P. Giustiniani, La questione bioetica tra scienza e fede, in P. Colonnello, R. Gallinaro, P. Giustiniani (a cura di), L’albero della vita. Biotecnologie tra fede e scienze, Editoriale Comunicazioni Soc., Napoli 2002, pp. 5-26; R. Coppola, La questione bioetica nella visione laica e nei principi cattolici, in Dialogando- Riproduzione umana e prevenzione dei difetti congeniti tra biotecnologia, normativa ed etica, 21 giugno 2003, pp. 33-36; G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Mondadori, Milano, 2009; P. Giustiniani, Bioetica cattolica e bioetica laica. Nessun problema?, in P. Giustiniani (a cura di), Discussioni di bioetica, ECS-Pontificia Facoltà teologica sezione san Tommaso, Napoli 2009, pp. 9-54; M. F. Maternini, L. Scopel, Bioetica e confessioni religiose, I e II, Edizioni Università di Trieste, Trieste, 2014; C. Faralli, La bioetica e biodiritto. Problemi, casi e materiali, Giappichelli, Torino, 2014.
[6] Così V. Savoldi, Oltre l’eutanasia e l’accanimento terapeutico: politica, scienza e morale, Dehoniane, Bologna, 1991; G. Fornero, M. Mori, Laici e cattolici in bioetica: storia e teoria di un confronto, Mondadori, Milano, 2005. Del resto non sempre risulta agevole individuare i parametri o i criteri di riferimento presenti in ogni posizione bioetica. La difficoltà nasce dal fatto che sulla nozione stessa di bioetica esistono una pluralità di vedute non sempre armonizzabili fra di loro. Ad esempio, per Potter, la bioetica è una specie di «miscuglio tra biologia di base, scienze sociali e materie umanistiche» (V. R. Potter, Bioetica, ponte verso il futuro,Sicania, Messina, 2000, p. 40), per Warren T. Reich questa nuova disciplina è vista come uno studio sistematico circa le dimensioni morali delle scienze sulla vita e sulla salute, usando una varietà di metodologie etiche in una impostazione interdisciplinare (W.T. Reich, Introduction to W.T. Reich (ed.), Encyclopedia of Bioethics, Simon & Schuster MacMillan, New York, 1995) e per Sgreccia come l’«etica che concerne gli interventi sulla vita» o, in generale, come «il discorso sui valori e sui principi originari dell’etica medica e sulle fonti documentarie della bioetica (diritto internazionale, deontologia, legislazione)» (E. Sgreccia, Manuale di bioetica, I. Fondamenti ed etica biomedica, Vita e Pensiero, Milano, 2007, p. 22 e pp. 25-26).
[7] M. Ventura, Laicità e fattore religioso in bioetica, in Bioetica e Diritti dell’uomo, a cura di L. Chieffi, Paravia Scriptorium, Torino, 2000, p. 37 ss.
[8] Tra cui R. Romboli, La relatività dei valori costituzionali per gli atti di disposizione del proprio corpo,in Pol. del dir.,1991,p.569; L. Chieffi, Il diritto alla salute alle soglie del terzo millennio. Profili di ordine etico,giuridico ed economico,Giappichelli, Torino, 2003, p. 234.
[9] R. Romboli, La relatività dei valori costituzionali per gli atti di disposizione del proprio corpo, in Pol. del dir.,1991, p.565 e ss.
[10] Cfr. A. Pace, Problematica delle libertà costituzionali, Parte speciale, I, Cedam, Padova, 1985; G. Marini, Il consenso, in S. Rodotà, M. C. Tallachini (a cura di), Ambito e fonti del biodiritto, Giuffrè, Milano, 2010.
[11] Cfr. Corte cost. 23 dicembre 2008, n. 438, in Foro it., 2009, p. 1328 e ss.
[12] G. Passacantando, Il principio del consenso e l’arbitrarietà del trattamento medicochirurgico, in Riv.it.med.leg., 2003, p. 71.
[13] La natura giuridica del consenso è discussa. Secondo un primo orientamento questo sarebbe una manifestazione negoziale di volontà che fungerebbe da presupposto per un contratto d’opera professionale. Per questa tesi sarebbe dunque un elemento essenziale del negozio. Tale tesi è criticabile poiché attribuisce valore patrimoniale al consenso mentre con esso l’individuo autodetermina una complessità di effetti che ricadono nella sua sfera soggettiva intesa come persona e non come soggetto economico. Così, secondo dottrina più recente, il consenso deve essere identificato come atto giuridico stricto sensu, ossia come permesso con cui si attribuisce al medico il potere di agire. Cfr. S. Canestrari, Rifiuto informato e rinuncia consapevole al trattamento sanitario da parte di paziente competente, in Trattato di Biodiritto, diretto da S. Rodotà, P. Zatti, Il governo del corpo, Tomo II, a cura di S. Canestrari, G. Ferrando, C.M. Mazzoni, S. Rodotà, P. Zatti, Milano, 2011, p. 1901 e ss..Il principio del consenso informato è stato altresì sancito in norme sovranazionali, tra cui gli artt. 5 e 9 della Convenzione del Consiglio d’Europa sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina del 4 aprile 1997 (Convenzione di Oviedo) e l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Cfr. L. Scalera, Testimoni di Geova e rifiuto delle trasfusioni in caso di sopravvenuta incapacità del paziente, in Dir. e rel., 2010, p. 289 e ss.
[14] Caratteristiche individuate anche dall’articolo 5 della Convenzione europea sulla biomedicina secondo cui «un intervento nel campo della sanità non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato il suo libero ed informato consenso». Si veda anche l’articolo 5 lettera b) della Dichiarazione sul genoma dell’UNESCO, l’articolo 4 dei Principi di etica medica europea approvato nel 1987 dalla Conferenza degli Ordini professionali dei medici dei Paesi all’epoca appartenenti alla Comunità Europea.
[15] Cfr. A. Sassi, L’atto eutanasico al vaglio della Cassazione civile: nessuna decisione nel merito, in Dir. famiglia, 2007, 1, p. 42 e ss.
[16] Sul tema si rinvia a P. Giustiniani, Libertà e alienazione tra autodeterminazione del paziente e deontologia medica, in Civitas et Humanitas. Annali di cultura etico-politica- Il rapporto libertà-alienazione tra passato e presente della società, Milella, Lecce, 2018, pp. 107- 115.L’atto medico, da un punto di vista deontologico, si giustifica da un lato nelle conoscenze specialistiche che il medico offre al paziente nel suo esclusivo interesse e, da all’altro nella volontà liberamente espressa o delegabile del paziente. Del resto l’articolo 3 del Codice di Deontologia medica afferma che «dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollevare dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana, senza discriminazione di età, sesso, di razza, di religione, di nazionalità, di condizione sociale, di ideologia, in tempo di pace come in tempo di guerra, quale che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera. La salute è intesa nell’accezione più ampia del termine, come condizione cioè di benessere fisico e psichico della persona».
[17] Sul tema del consenso (o dissenso) informato si rinvia a F. Mantovano, Il consenso informato: pratiche consensuali, in Riv. it. med. legale, 2000, 1, p. 9. e ss.; D. Durisotto, Il valore del dissenso al trattamento sanitario nell’ordinamento giuridico. Un difficile bilanciamento di principi, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, rivista telematica www.statoechiese.it, maggio 2009; R. Mazzon, Il dissenso alla terapia preventivamente prestato e il caso dei Testimoni di Geova, in www.personaedanno.it, Persone, diritti e personalità/libertà costituzionali, 12/2012; S. Cacace, Autodeterminazione in salute, Giappichelli, Torino, 2017; J. Giammatteo, F. Cherra, M. Pastorino, L. Marsella, Autodeterminazione e responsabilità sanitaria: le trasfusioni di sangue nei pazienti Testimoni di Geova, in Pratica Medica & Aspetti Legali 11, 2017, pp. 23-27.
[18] M. Immacolato, F. Boccardo, M. Ratti, Dichiarazioni anticipate di trattamento e consenso informato:la “rivoluzione silenziosa” della medicina,in Riv. it. med. leg., 2004, p. 358 e ss.
[19] P. Frati, G. Montanari Vergallo, M. Di Luca, N. Natale, Gli effetti del consenso informato nella prospettiva civilistica, in Riv. it. med. leg., 2002, p. 1041.La Corte costituzionale ha svolto un ruolo fondamentale per l’affermazione del principio del consenso informato ai trattamenti sanitari, statuendo che quest’ultimo è la sintesi di due diritti fondamentali, quello all’autodeterminazione e quello alla salute e sottolineando che anche gli ”atti di accertamento preventivo, volontariamente richiesti dalla persona sul proprio corpo” devono avvenire “nel rispetto di modalità compatibili con la dignità della figura umana, come richiesto in Costituzione dall’art. 32 comma 2” (Cfr. Corte cost. 23 dicembre 2008, n. 438, in Foro it., 2009, p. 1328 ss.; Cfr. Corte cost., 22 ottobre 1990, n.471, in Giust. civ., 1991, p. 11 ss.). Ne consegue che una persona non può essere obbligata a subire un intervento o un trattamento sanitario, perché ciò sarebbe lesivo della libertà personale, il cui diritto è “inviolabile, rientrando tra i valori supremi…..non diversamente dal connesso e contiguo diritto alla vita e all’integrità fisica”.Anche il Consiglio di Stato ha affermato il diritto fondamentale dell’individuo sulla propria vita e sul proprio corpo, nella concezione che ciascuno ha di sé e della propria dignità, anche rifiutando le cure, sia pure sul presupposto che il diritto alla salute, pur di rilievo privatistico, assume anche una connotazione pubblicistica e sociale, come interesse della collettività di cui all’art. 32 Cost. ( Corte cost., 9 luglio 1996, n. 238, in Fam. e dir., 1996, p. 419, con nota di A. Figone, Il commento, ibid., p. 421 ss.; Cfr. Cons. Stato, sez. III, 2 settembre 2014, n. 4460, in Nuova giur. civ. comm., 2015, I, pp. 89 – 90).
[20] G. Ferrando, Consenso informato del paziente e responsabilità del medico,principi,problemi e linee di tendenza,in Riv. crit. dir. priv.1998, p. 43e ss.
[21] Cfr. Corte Cass., 23 febbraio 2007, sentenza n. 4211. Tuttavia, nel caso in cui si verifichi uno stato di incoscienza del paziente, poiché una cosa è «l’espressione di un generico dissenso ad un trattamento in condizioni di piena salute, altro è riaffermarlo puntualmente in una situazione di pericolo di vita» (Cass. Civ., Sez. III, 23 febbraio 2007, n. 4122), il rifiuto al trattamento sanitario, in assenza di una espressa e chiara dichiarazione di volontà, può essere espresso da un rappresentante opportunamente designato dal disponente.
[22] Cfr. Cass. Civ., 15 settembre 2008, n. 23676.
[23] La Corte Costituzionale con la sentenza n. 438 del 2008 afferma il «diritto del paziente di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art. 32, secondo comma, della Costituzione». Cfr. Cass. Civ., Sez. III, 11 dicembre 2013, n. 27751.
[24] Sul tema si rinvia a G. Facci, I medici, i Testimoni di Geova e le trasfusioni di sangue, in Responsabilità civile, 2006, p. 932 ss.; B. Magliona, M. Del Sante, Trasfusioni di sangue e Testimoni di Geova: il ruolo del medico tra rispetto della volontà del paziente e stato di necessità; in Riv. it. med. legale, 2009; F. Giunta, Il consenso informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, 2, p. 377.
[25] Sul tema si veda G. Facci, I medici, i Testimoni di Geova e le trasfusioni di sangue, in Responsabilità civile, 2006, p. 931 e ss.; B. Magliona, M. Del Sante, Trasfusioni di sangue e Testimoni di Geova: il ruolo del medico tra rispetto della volontà del paziente e stato di necessità; in Riv. it. med. legale, 2009, p. 345 e ss.
[26] Il modulo può essere consultato liberamente sul sito www.jw.org.
[27] La legge n. 219 del 2017 ha normato la complessa problematica della pianificazione anticipata delle terapie in vista delle decisioni di fine vita – soprattutto della fase cosiddetta “terminale” della vita -. Lo ha fatto optando per la completa autodeterminazione del soggetto umano che dovrà essere sottoposto a future cure (peraltro, ciò in perfetta sintonia con alcuni principi costituzionalmente garantiti) e, in particolare, garantendo l’opportuna informazione sanitaria (ai fini del cosiddetto “consenso informato”). Tale legge, da molti auspicata per porre fine alle incertezze ed ai problemi di natura etica e giuridica sorti sulle questioni di fine vita e sul rifiuto ai trattamenti salva vita, ha previsto, proprio per evitare che in caso di incapacità dell’individuo questi non possa esprimere il proprio consenso o dissenso informato, un’applicazione diffusa dell’amministratore di sostegno attribuendo ad esso il compito di assistere e di rappresentare, nel rapporto con il personale sanitario, le direttive espresse dal beneficiario nel pieno possesso delle proprie capacità decisionali. Non a caso la legge 219 del 2017, con l’obiettivo di tutelare il «diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona», affronta immediatamente, all’articolo 1 comma 1, il tema del consenso informato che «nel rispetto dei principi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea», tranne nei casi espressamente previsti dalla legge, risulta essere elemento imprescindibile per l’inizio o la prosecuzione di qualsiasi trattamento sanitario (Sul tema mi sia permesso rinviare a A. Palma, Finis Vitae. Il biotestamento tra diritto e religione, Artetetra, Capua, 2018. Cfr. G. Alpa, Rifiuto di cure e direttive anticipate: diritto vigente e prospettive di regolamentazione. Atti del convegno (Genova 23 maggio 2011), Bioetica, biodiritto e rifiuto di cure, Giappichelli, Torino, 2012; S. Penasa, Disposizioni anticipate di trattamento, in M. Rodolfi, C. Casonato, S. Penasa, Consenso informato e DAT: tutte le novità, Giuffrè, Milano, 2018, p. 28 e ss. Si rinvia, altresì, G. De Marzo, Prime note sulla legge in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento, in Foro it., 3/2018; M. Di Masi, Prima lettura della legge recante norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, in www.diritticomparati.it, 8 gennaio, 2018; A. Santosuosso, Questioni false e questioni irrisolte dopo la legge n. 219/2017, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 1, 2018, p. 85 e ss.; I. Cavicchi, Le disavventure del consenso informato. Riflessioni a margine della legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 1, 2018, p. 104 e ss.; M. Piccinni, Biodiritto tra regole e principi. Uno sguardo «critico» sulla l. n. 219/2017 in dialogo con Stefano Rodotà, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 1, 2018, p. 121 e ss.; R. Maddaluna, Libertà di cura e scelte di fine vita: la nuova legge sul biotestamento, in Diritto pubblico europeo, rassegna on line, n. 2/2018, p. 14 ss.; P. Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, Nuova Giur. Civ., 2018, 2, p. 247 ss.; D. Carusi, La legge sul “biotestamento”: una luce e molte ombre, Corriere Giur. , 2018, 3, p. 293 ss.; G. Buffone, Un altro tassello che disciplina il fine vita, in Guida al diritto. Il Sole 24 ore, 2018, n. 8, p. 34 e ss.; G. Amato, Biotestamento: il consenso informato influenza il reato, ibid., n. 9, p. 14 e ss.; S. Lombardo, Il testamento biologico non è un atto “fine vita” ma scelta consapevole, ibid., p. 10 e ss.; S. Del Sordo, U. Genovese, Biotestamento: Dat in forma libera “sostenute” dal medico, ibid., n. 12, p. 33 e ss.; G. De Marzo, Prime note sulla legge in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento, in www.federalismi.it.; R. Galli, Appendice di aggiornamento al nuovo corso di diritto civile, Cedam, Padova, 2018, pp. 5-17; M. Delli Carri, Il problema del rifiuto delle cure “salva vita” e l’ammissibilità del testamento biologico, in Vita not., 2009, n. 1, p. 193 e ss.; R. Bruno, Obiezioni dicoscienza e questioni bioetiche, in Nozioni di diritto ecclesiastico, a cura di G. Casuscelli, Giappichelli, Torino, 2015, p. 159; S. Attollino, La laicità della cura (a margine della sentenza del Consiglio di Stato n. 4460 del 2014 sulle direttive anticipate di trattamento), in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.Statoechiese.it), 2015).
[28] Ancor prima della legge 219 del 2017 in materia di DAT il legislatore ha voluto privilegiare la promozione ed il pieno sviluppo della persona, la protezione dell’individuo e dei suoi diritti inviolabili, una nuova valorizzazione della soggettività e della libertà dei soggetti non autosufficienti attraverso la legge 9 gennaio 2004, n. 6 all’art. 3che ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto dell’amministrazione di sostegno.
[29] L’articolo 4 della legge 219 del 2017 prevede che ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari. Indica altresì una persona di sua fiducia, di seguito denominata ‘fiduciario’, che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie. Al riguardo La Cassazione, con sentenza del 15 maggio 2019 n. 12998, affrontando il problema di una DAT espressa anteriormente all’entrata in vigore della legge 219 del 2017, ha affermato che la scelta anticipata del fiduciario determina la scelta del soggetto al quale il giudice tutelare deve, nel caso, rivolgersi e assicura anche la possibilità per il disponente di determinarsi, nella pienezza delle proprie facoltà cognitive e volitive, in merito alle pratiche terapeutiche che l’amministratore di sostegno designato sarà poi chiamato a rappresentare qualora si prospetti una condizione di incapacità del designante. Il fiduciario, per conto del malato incosciente e senza che il Tribunale competente possa pronunciarne opporsi, può negare il consenso a specifiche mediche per conto del malato incosciente o incapace di intendere, senza che il tribunale competente possa pronunciarne il rigetto (cfr. Cass. Civ., 7 giugno 2017, n. 14158; in dottrina L. Scalera, Rifiuto delle trasfusioni per motivi religiosi, disposizioni anticipate di trattamento e amministrazione di sostegno: natura gestoria o decisoria del decreto di autorizzazione?, in Diritto e Religioni, n. 1/2018, pp. 490-503). In senso contrario, tuttavia, si veda Corte Costituzionale del 13 giugno 2019 n. 144 per la quale, in ragione di quanto disposto dall’art. 3, commi 4 e 5, della legge n. 219 del 2017, la rappresentanza assegnata al fiduciario non comporta anche il potere di rifiutare i trattamenti sanitari necessari al mantenimento della vita. Del resto, afferma la Corte, «spetta al giudice tutelare … attribuirglielo in occasione della nomina – laddove in concreto già ne ricorra l’esigenza, perché le condizioni di salute del beneficiario sono tali da rendere necessaria una decisione sul prestare o no il consenso a trattamenti sanitari di sostegno vitale – o successivamente, allorché il decorso della patologia del beneficiario specificamente lo richieda».
[30] Il divieto alle emotrasfusioni si rinviene: nei passi del Levitico 17:13,14 “Solo non dovete mangiare la carne con la sua anima, il suo sangue”, nella Genesi 9:3,4 “deve versare in tal caso il sangue e lo si deve coprire di polvere, così come negli Atti 15:19,20 “Astenetevi … dalla fornicazione e da ciò che è strangolato e dal sangue”.
[31] Più problematico ancora appare il caso in cui il dissenso alle emotrasfusioni coinvolga un paziente minorenne poiché possono sorgere conflitti il diritto alla vita ed il conseguente interesse del minore al trattamento emotrasfusionale e la diversa volontà dei genitori orientata da motivi di natura religiosa ( M. L. Lo Giacco, Educazione religiosa e tutela del minore nella famiglia, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, rivista telematica www.statoechiese.it, febbraio 2007; A. Gargani, Libertà religiosa e precetto penale nei rapporti familiari, in Il diritto ecclesiastico, 2003, I, pp. 1026-1027; P. Floris, Libertà di coscienza, doveri dei genitori, diritti del minore, in Foro italiano, 1984, IV, pp. 360-380; G. Furgiuele, Diritto del minore al trattamento medico-sanitario, libertà religiosa del genitore, intervento e tutela statuale, in Giurisprudenza italiana, 1982, IV, pp. 349-359; G. Corasanti, Trasfusioni di sangue sul minore, diniego per motivi religiosi del consenso dei genitori e intervento del giudice, in Giustizia civile, 1981, I, pp. 3098-3099). In tali casi emerge, infatti, il problema che, nel complesso rapporto tra diritto e dovere dei genitori di educare la prole, vi possa essere, in ragione dei precetti propri di una confessione religiosa, il sacrificio di diritti costituzionalmente protetti del minore. Si dovrà dunque verificare se si è in presenza «dell’esercizio del diritto di libertà religiosa» o se, piuttosto, si è in presenza di «contegni che eludono l’osservanza di quei divieti e di quelle imposizioni contenute nelle leggi penali e d’ordine pubblico, … anche se tali contegni trovano diretta fonte in un precetto della fede religiosa qualificato come inderogabile». Nel silenzio della legge 219 del 2017, se certamente il medico deve applicare, ove possibile, cure alternative alle emotrasfusioni che siano rispettose delle convinzioni religiose dei genitori, di non facile soluzione appare l’ipotesi in cui in ipotesi di emergenza sia lo stesso minore a manifestare il dissenso alle emotrasfusioni. Al riguardo, se numerose appaiono le normative internazionali sul tema(Dichiarazione di Helsinki, adottata dalla XVIII Assemblea dell’Associazione medica mondiale nel 1964, art. 11; Convenzione sui diritti del fanciullo, New York, 20 novembre 1989, artt. 12 e 14; Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, Strasburgo 25 gennaio 1996, artt. 1, 3 e 5; Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano all’applicazione della biologia e della medicina, Oviedo 4 aprile 1997, art. 6; Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, art. 24) a livello nazionale, la Carta dei diritti dei bambini in ospedale al n. 8 prevede diritto del fanciullo di essere coinvolto nel processo di espressione dell’assenso e/o dissenso ai trattamenti sanitari che lo riguardano. Del resto, un assenso/dissenso progressivamente consapevole in rapporto alla maturazione del minore va sempre promosse e ricercato anche e soprattutto attraverso le relazioni familiari. Tenuto conto che il bambino non ha tutti gli strumenti per utilizzare appieno un’informazione adeguata ad esprimere un assenso/dissenso in merito a decisioni legate alla malattia, va tuttavia considerato che il silenzio aumenta le paure. E’ difficile pensare ad un assenso/dissenso informato prima dei sette anni. Successivamente, quando il bambino esplora meglio le proprie motivazioni e le confronta con ciò che gli altri dicono e fanno, è concepibile un assenso/dissenso informato insieme con quello dei genitori. A partire dai dodici anni, si può credere in un assenso o dissenso progressivamente consapevole, perché anche di fronte a situazioni di accanimento terapeutico i preadolescenti e gli adolescenti riescono a prefigurarsi il futuro e ad assumersi la responsabilità di fronte al proprio progetto di vita. Pertanto l’assenso/dissenso va sempre richiesto, non soltanto per un’esigenza giuridica o etica, ma soprattutto per far comprendere al bambino quanto gli sta accadendo intorno. E’ opportuno presentargli tutti gli scenari che è in grado di comprendere o immaginare/pensare. L’assenso/dissenso su atti concreti vicini alla sua esperienza farà nascere la necessaria alleanza tra l’adulto e il bambino. Se, dunque, nel caso in cui sussista uno stato di necessità il medico potrà intervenire anche in disaccordo con il minore e senza dover ottenere l’autorizzazione del giudice tutelare, quest’ultima sarà invece necessaria in tutti quei casi in cui, per procedere d un trattamento sanitario, sia necessario un provvedimento limitativo della responsabilità genitoriale. Del resto, come ha affermato anche il Parlamento Europeo «fino a quando il minore non può prendere una decisione autonoma, non gli si può imporre alcuna convinzione religiosa né rifiutargli un trattamento medico necessario a causa del credo religioso dei genitori o di terzi. Potrà essere necessario revocare temporaneamente e parzialmente o meno la patria potestà» (punto 10, parere della Commissione giuridica sulla Carta europea dei diritti del paziente, in Documenti di seduta del Parlamento europeo, doc. 1-970/83).
[32] Sul tema si rinvia a C. Ciotola, Preliminari a uno studio del rapporto tra diritto alla salute e fattore religioso, in Diritto e Religioni, 2/2008, pp. 178-245.
[33] Cfr. Tribunale di Milano, 16 dicembre 2008, sentenza n. 14883.
[34] S. Attollino, Diritto alla cura e laicità dello Stato: profili etici e prospettive giuridiche, in Diritto e Religioni, Anno VII, n. 2, 2012, pp. 131-145, ivi p. 141.
[35] Ibidem.
[36] Per un orientamento minoritario lo stato di necessità obbligherebbe il medico ad intervenire anche qualora il dissenso del paziente alle emotrasfusioni sia stato chiaramente espresso in una precedente manifestazione di volontà. Tale interpretazione, tuttavia, introdurrebbe un trattamento sanitario di fatto obbligatorio in evidente contrasto con il principio di diritto di cui all’art. 32 Cost. (su tale aspetto cfr. Cass. Civ., Sez. III, 23 febbraio 2007, n. 421, in www.personaedanno.it; Corte di Appello di Cagliari, Sez. Civ., decreto del 16 gennaio 2009, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2009, pp. 620-628; in dottrina si veda G. M. Vergallo, Il rapporto medico-paziente. Consenso e informazione tra libertà e responsabilità, Giuffré, Milano, 2008, pp. 59-62). Secondo la giurisprudenza maggioritaria, invece, la scriminante dello stato di necessità può operare soltanto quando il paziente, che si trovi in una situazione di incapacità di manifestazione del volere, non abbia espresso in precedenza nessuna volontà in merito ad un quadro clinico connotato dall’emergenza, dall’impossibilità di ricorrere a cure alternative volte a scongiurare il pericolo imminente di un grave danno alla persona (cfr. E. Sacchettini, Quando interviene uno stato di necessità la scelta della terapia passa al sanitario, Guida al diritto, 2007).
[37] G. Dell’Osso, Il rifiuto della trasfusione di sangue da parte dei Testimoni di Geova : aspetti deontologici e medico legali, Zacchia, 54, p. 237.
[38] F. Mantovani, Diritto Penale, Cedam, Padova, 2005, p. 87. Cfr. anche G. Bigliardi, R. Gilioli, Comportamento deontologico del medico e diritti del Testimone di Geova, in Acta Biomedica Ateneo Parmense, 61, 1990, p. 165.
[39] Sul punto e per quanto riguarda la giurisprudenza di legittimità si veda Cass. 15 settembre 2008, n. 23676, in Guida al dir., n. 39, 2008, p. 52 ss. Per quanto riguarda i giudici di merito si veda Trib. di Roma, sent. 20 dicembre 2005, in Fam. e dir., 2006, p. 525; Trib. Di Modena, sent. 13 maggio 2008, in Foro it., I, 2008, p. 318.
[40] In Fam. e dir. 2006/5, p. 523 e ss.. La giurisprudenza ha sottolineato la necessità del “rispetto dell’obbligo dei sanitari di svolgere la propria professione secondo il codice deontologico e secondo le regole dell’arte, è principio comunemente affermato che quando, il paziente non sia in grado di manifestare il proprio consenso al trattamento sanitario, quest’ultimo è giustificato nei limiti consentiti dallo stato di necessità ed il consenso si presume”. Tuttavia è altrettanto necessario bilanciare detta situazione con il diritto all’integrità fisica e alla libertà religiosa, supplendo alla mancanza di specifiche indicazioni scritte con l’espletamento di una dettagliata istruttoria consistita nell’assunzione di sommarie informazioni e testimonianze concordi nell’evidenziare che il paziente aveva espresso l’univoca volontà “ di non soggiacere ad emotrasfusioni anche in caso di pericolo di vita e pur in assenza di cure alternative, data la sua qualità di ministro di culto della Congregazione dei Testimoni di Geova. Cfr. R. Masoni, Vivere è un diritto, non un obbligo: amministrazione di sostegno e consenso ai trattamenti sanitari e difine vita, in Dir. Famiglia, 2008, 2, p. 676 e ss.
[41] Del resto è stato sottolineato che la legittimità del trattamento medico dipende dal consenso informato del paziente piuttosto che dall’autolegittimante fine di tutelare il bene della salute, l’applicazione del principio del consenso presunto costituirebbe palese violazione del valore della persona, implicitamente consacrato nella disposizione di cui all’art. 32, comma 2, della Carta costituzionale, e dell’espressione dell’identità religiosa del sig. S. F., essendo a confronto diritti
inviolabili della persona costituzionalmente riconosciuti e garantiti quali il diritto all’integrità fisica e alla libertà religiosa, il cui ordine di priorità non può essere determinato o, peggio, alterato, dall’attuale impossibilità dell’interessato di esprimere tale volontà.
[42] La Corte, infatti, afferma che appare erronea l’affermazione secondo cui l’amministrazione di sostegno – in quanto finalizzata solo a consentire al beneficiario la cura dei propri interessi, alla quale è impedito a causa di una malattia
o una menomazione psichica fisica – non può essere funzionale alla tutela del diritto soggettivo a rifiutare determinati trattamenti terapeutici, trattandosi di un diritto azionabile autonomamente e direttamente in giudizio, e non tutelabile, in via indiretta, mediante tale forma di protezione. Al contrario, deve ritenersi che – attraverso la scelta dell’amministratore da parte del beneficiario – sia possibile esprimere, nella richiesta di amministrazione di sostegno – ai sensi del combinato disposto degli artt. 406 e 408 cod. civ. – proprio l’esigenza che questi esprima, in caso di impossibilità dell’interessato, il rifiuto di quest’ultimo di determinate terapie; tale esigenza rappresenta la proiezione del diritto fondamentale della persona di non essere sottoposto a trattamenti terapeutici, seppure in via anticipata, in ordine ad un quadro clinico chiaramente delineato.
[43] M. Masi, Testimoni di Geova e amministrazione di sostegno: nuovi orizzonti del fine vita, in Riv. Critica del dir. priv., marzo 2012, p. 145 e ss.
[44] F. Baron, Sesto, ambulatorio per testimoni di Geova: l’unico in Lombardia, in Il Corriere della Sera, 11 febbraio 2014.
[45] La stesura dell’articolato si è basata sul testo del “Documento sull’autodeterminazione del paziente in ordine al rifiuto della terapia emotrasfusionale” elaborato ed approvato dal Comitato Etico Locale dell’Az. USL8 di Arezzo nella seduta del 30 marzo 2000 e recepito con Delibera aziendale n. 671 del 09.06.2000. Gli estensori della Carta dell’Azienda sanitaria USL10 di Firenze hanno scelto di inserire tale testo nel proprio documento, apportandone alcune modifiche condivise durante la Consensus Conference aziendale, a fronte di una totale condivisione dello stesso.
[46] Pubblicate nel 1995 sul The American Journal of Surgery, Vol. 170, n° 6.
[47] Sui Comitati di Assistenza Sanitaria si rinvia al sito https://www.jw.org/it.
[48] Si pensi ad esempio alla Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 25 giugno 1999, n. 1418 sulla “protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dei malati incurabili e dei morenti” e alle linee guida, del 5 maggio 2014, emanate dal Consiglio d’Europa sui “processi decisionali che riguardano i trattamenti sanitari in situazioni di fine vita”, ove si ribadiva la necessità di dare rilevanza ai desideri espressi in precedenza dal paziente. In conformità, peraltro, tanto all’art. 8 della Convenzione EDU che all’art. 9 della c.d. Convenzione di Oviedo del 1997.
[49] S. Rodotà, Antropologia dell’homo dignus, in Riv. crit. dir. priv., n. 4/2010, p. 547 ss. Non a caso, nel testo della legge n. 219/2017 l’espressione dignità compare numerose volte. La prima, all’interno del comma 1 dell’art. 1, ove viene qualificata come diritto. La rubrica dell’art. 2 fa invece riferimento alla Terapia del dolore, divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e dignità nella fase finale della vita. Sono poi i commi 2 e 3 dell’art.3 ad indicare che il consenso informato è espresso o rifiutato, quando riguarda minore e disabile, nel pieno rispetto della sua dignità. Del resto, la tutela della dignità della persona passa necessariamente anche per il riconoscimento della libertà religiosa, dell’identità personale e della libertà di autodeterminazione. Dignità, dunque, quale espressione di autonomia e «valore preliminare a quelli di libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza e giustizia». Così G. M. Flick, Elogio alla dignità (se non ora, quando?),in Rivista dell’associazione italiana costituzionalisti, n. 4, 2014, pp. 1-36. Cfr. anche D. Von Der Pfordten, Considerazioni sul concetto di dignità umana, in V. Marzocco (a cura di), La dignità in questione. Un percorso nel dibattito giusfilosofico contemporaneo, Giappichelli, Torino, 2018, pp.1-18.
[50] E. Lecaldano, Dall’autonomia del paziente alle carte di autodeterminazione: il contributo della riflessione bioetica, in Bioetica, n.2, 2001, pp. 9-18; P. Giustiniani, Uscita consapevole dalla vita e desiderio di esistere per sempre. Prospettive filosofiche per una bioetica di fine vita, in Progressi biomedici tra pluralismo etico e regole giuridiche, a cura di R. Prodomo, Giappichelli, Torino, 2005, pp. 199-228.
[51] Cfr. F. Botti, Il pluralismo religioso come antidoto allo Stato etico, all’indirizzo www.forumcostituzionale.it.
[52] Cfr. F. Petrini, I princìpi, i precedenti, la giurisprudenza e le leggi (con i loro profili potenzialmente incostituzionali) in materia di “fine vita” in Italia, in http://www.pereluana.it/wp-content/uploads/2010/02/francesca-petrini.pdf
[53] A. Fuccillo, Giustizia e Religione Vol. I. Patrimonio ed enti ecclesiastici. La tutela positiva della libertà religiosa tra danno, simboli e privacy, Giappichelli, Torino, 2011, p. 194.
[54] Cfr. Sentenza del GUP di Roma n.2049 del 23 luglio 2007 e Corte Cass. n. 21748 del 16 ottobre 2007.
[55] E’ bene precisare che sul tema la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha subito una significativa evoluzione nel tempo. Se, ad esempio, nel caso Pretty vs. Regno Unito del 29/4/ 2002 la Corte ha riconosciuto il diritto di ogni Stato di vietare e sanzionare l’aiuto al suicidio individuando la ratio di queste norme nell’esigenza di tutelare appunto le persone deboli e vulnerabili, nella sentenza Haas vs. Svizzera del 20/01/2011 è stato invece affermato espressamente che il diritto di un individuo di decidere con quali mezzi ed a che punto la propria vita finirà è uno degli aspetti del diritto al rispetto della vita privata previsto dall’articolo 8 della Convenzione. Infine, con la sentenza Gross vs. Svizzera del 14/05/2013 la Corte ha dato atto del superamento della pronuncia Pretty con l’esplicito riconoscimento del diritto di un individuo, a condizione che sia capace di adottare una decisione libera e consapevole, di decidere il mezzo ed il momento in cui la sua vita debba finire. Sul tema tema si rinvia anche ai recenti casi Horoz vs. Turchia del 14/08/2014 e Rapaz vs. Svizzera del 26/03/2013.
[56] Cfr. Corte cost., 22 ottobre 1990, n. 471, in Giust. civ., 1991, p. 11 e ss.
[57] Corte cost., 9 luglio 1996, n. 238, in Fam. e dir., 1996, p. 419.
[58] R. D’Alessio, Limiti costituzionali dei trattamenti sanitari, in Dir. e soc., 1981, p. 540 e ss.
[59] S. Attollino, Diritto alla curta e laicità dello Stato: profili etici e prospettive giuridice, in Diritto e Religioni, 2012, 2, pp. 131-145, ivi p. 141.
[60] S. Attollino, Diritto alla cura e laicità dello Stato: profili etici e prospettive giuridice, in Diritto e Religioni, 2012, 2, pp. 131-145, ivi p. 139. Pertanto l’unico limite al rifiuto di cure sarebbe da individuare nella presenza di un pericolo per la salute pubblica che giustifichi la richiesta di trattamenti obbligatori. Solo in tal modo il diritto alla salute non si contrapporrebbe all’autodeterminazione ma diventerebbe tutt’uno con essa. Secondo la Corte Costituzionale (22 giugno 1990, n. 307, in Foro.it, 1990 I, p. 1694 e ss.) «la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con l’articolo 32 della Costituzione se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale».
[61] Sul punto M. Luciani, Il diritto costituzionale alla salute, in Dir. Soc., 1980, p. 769 ss..
[62] P. Bellini, Aspetti costituzionali on specifico riferimento alla libertà religiosa, in Aa. Vv., Trattamenti sanitari tra libertà e doverosità, Atti del Convegno di Roma, 01/12/1982, Napoli, 1983, p. 61 e ss.
[63] Così R. Dworkin, Il dominio della vita. Aborto, eutanasia, libertà individuale, Edizioni di Comunità, Milano, 1994, p. 300.
[64] G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Einaudi, Torino, 1992, p. 213.
[65] C. Ciotola, Preliminari a uno studio del rapporto tra diritto alla salute e fattore religioso, in Diritto e Religoni, 2008, 2, pp. 178- 244, ivi p. 239.
[66] Cfr. A. Patroni Griffi, Le regole della bioetica tra legislatore e giudici,Editoriale Scientifica, Napoli, 2016, p. 23 per il quale «occorre una disciplina giuridica la più “flessibile” possibile, che lasci adeguati spazi al momento dell’applicazione del diritto al caso concreto, senza per questo cadere nell’eccesso dell’indeterminatezza così lasciando gli operatori e i singoli individui di fronte a dubbi circa la liceità o no delle condotte da tenere».
[67] Al riguardo S. Prisco, La musica della vita. Quaderno di bioetica e biopolitica di un giurista, Editoriale Scientifica, Napoli, 2015 propone una «pratica biogiuridica fondata in primo luogo sull’ascolto dei casi e in cui il diritto sia non tanto “mite” (cioè declinato secondo applicazioni “ragionevoli”, ma comunque esistente e operativo nella fattispecie), quanto proprio disponibile a dialogare con sistemi regolativi che sono esterni ad esso (ad esempio il vissuto personale, l’etica, le acquisizioni scientifiche) e a lasciarsene ispirare, quindi depurato da istanze e pretese disciplinative forti».
[68] L. Chieffi, Introduzione. Una bioetica rispettosa dei valori costituzionali, in Id. (a cura di), Bioetica e diritti dell’uomo, Paravia-Mondadori, Milano 2000, XVII-XIX; cf. anche L. Chieffi, P. Giustiniani (a cura di), Percorsi tra bioetica e diritto. Alla ricerca di un bilanciamento, Giappichelli, Torino 2010.
[69] Così R. Coppola, Laicità relativa, in P. Picozza, G. Rivetti (a cura di), Religione, cultura e diritto tra globale e locale, Giuffrè, Milano, 2007, p. 105. Cfr. anche A. Albisetti, Un diritto”tanto lontano dalla vita”?, in G. B. Varnier (a cura di), Il nuovo volto del diritto ecclesiastico, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004, pp. 219- 223.
[70] P. Consorti, Diritto e religione, Laterza, Roma-Bari, 2014, p. 46; P. Donati, La laicità in una società multiculturale : declinare le differenze con la “ragione relazionale”, in Id., Laicità : la ricerca dell’universale nelle differenze, Il Mulino, Bologna, 2008 , pp. 141-201; M. Ricca, Pantheon : agenda della laicità interculturale, Torri del vento, Palermo, 2012.
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Avv. Alessandro Palma
Alessandro Palma, avvocato del Foro di Napoli e specializzato in professioni legali, è dottore di ricerca in Filosofia del Diritto presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Presso lo stesso Ateneo si è perfezionato in Amministrazione e Finanza degli Enti Locali ed è cultore della materia in Diritto Ecclesiastico ed in Diritti Confessionali.
E’ Tutor di Diritto Costituzionale alla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II nonché Tutor di Diritto Ecclesiastico presso l’Università Telematica Pegaso. Per l’a. a. 2018/2019 è docente a contratto sulla cattedra di Diritto Ecclesiastico presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Cassino.
I suoi interessi di ricerca vertono principalmente su questioni di bioetica e biodiritto, con particolare riguardo alle tematiche della fine vita e dei diritti fondamentali, sull’esperienza religiosa alla luce delle neuroscienze e della psicologia evoluzionistica e cognitiva, sui rapporti tra diritto e religione e sugli strumenti di inclusione giuridica delle diversità culturali nelle società multiculturali.
E’ autore di molteplici recensioni e pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali e di una monografia intitolata Finis Vitae. Il Biotestamento tra diritto e religione, Artetetra, Capua, 2018.
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