Tra nullità ed annullabilità delle deliberazioni condominiali: Sezioni Unite n. 9839 del 14 aprile 2021
La pronuncia della Cassazione n. 9839 del 14 aprile 2021, dedicata al condominio, ha permesso alle Sezioni Unite di affrontare alcuni temi di grande rilevanza sul piano del diritto sostanziale, con riferimento al tema della nullità delle deliberazioni dell’assemblea condominiale, nonché sul versante del diritto processuale, con riguardo alla possibilità di far valere l’annullabilità di una delibera condominiale in via di eccezione: in particolare, sebbene le Sezioni Unite fossero state chiamate a risolvere ben specifici quesiti, la motivazione che ha portato ai principi di diritto espressi ha il notevole merito di risolvere dei contrasti interpretativi e, al contempo, indicare una strada per la risoluzione delle future controversie in materia di contestazione delle delibere.
Con riguardo al versante processuale la Corte, nella prima parte della sentenza, ci ricorda come l’art 1137 comma 2 c.c. descriva il modello tipico di impugnazione di una delibera assembleare: questo modello tipico è costruito sull’azione di annullamento, poiché in giudizio è solo attraverso questa azione che può farsi valere l’annullabilità di una delibera assembleare, in via principale e attraverso un’azione di carattere costitutivo, in quanto finalizzata a rimuovere la deliberazione con efficacia erga omnes; resta possibile anche la proposizione dell’azione di annullamento in via riconvenzionale, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, purché nel rispetto dei termini decadenziali.
La Corte tuttavia, chiarito questo punto, esclude che l’impugnazione della delibera assembleare possa essere proposta in via d’eccezione, giacché l’effetto dell’eccezione sarebbe soltanto quello di paralizzare gli effetti della domanda altrui, con efficacia esclusivamente riservata al soggetto che la fa valere e senza alcun effetto costitutivo in grado di provocare erga omnes la rimozione della delibera: una sentenza di annullamento fatta valere in via d’eccezione infatti, esplicherebbe effetti non erga omnes, contraddicendo il senso della disciplina condominiale che il legislatore ha scolpito nell’art 1137 c.c.
A questa conclusione la Suprema Corte giunge ribadendo che la ratio dell’art 1137 c.c. è quella di assicurare certezza e stabilità nei rapporti condominiali, sicché sarebbe impensabile dedurre in via d’eccezione l’annullabilità della delibera assembleare con una efficacia esclusivamente limitata all’eccepente: nel ribadire tale assunto, la Corte si sofferma sui caratteri salienti della norma in oggetto, che stabilisce al primo comma come le deliberazioni dell’assemblea siano obbligatorie per tutti i condomini (anche assenti e dissenzienti) nonché, al terzo comma, che dette deliberazioni siano immediatamente esecutive poiché “l’azione di annullamento non sospende l’esecuzione della deliberazione, salvo che la sospensione sia ordinata dall’autorità giudiziaria”; inoltre, considerazione finale non meno importante e anzi assolutamente basilare, la sentenza di annullamento della deliberazione dell’assemblea avrebbe efficacia di giudicato nei confronti di tutti i condomini, compresi coloro i quali non hanno partecipato al giudizio di impugnativa, ribadendo il senso di una norma che il legislatore ha costruito per assicurare certezza e stabilità nei rapporti tra condomini.
La sentenza di annullamento, dunque, non potrebbe mai essere valida per alcuni e invalida per altri (come l’impugnante), poiché il condominio è un “ente collettivo” e l’esigenza di corretto ed armonico funzionamento del medesimo impone chiarezza e omogeneità della disciplina che lo regge.
La Corte conclude questo argomento ribadendo che l’impugnazione della deliberazione assembleare in via d’eccezione è rilevabile d’ufficio, in ogni stato e grado del processo, mentre non è rilevabile d’ufficio la decadenza in cui è incorso il singolo condomine che ha impugnato oltre il termine di 30 giorni, essendo detta decadenza rilevabile solo mediante eccezione della parte interessata.
Alla luce di questi rilievi, ed in risposta al quesito sulla possibilità di far valere le invalidità delle delibere anche in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, la Suprema Corte ha sentenziato come in sede di opposizione a decreto ingiuntivo il giudice possa sindacare d’ufficio o per deduzione di parte sulla nullità della delibera e, altresì, valutare le eventuali cause di annullabilità, se proposte nei termini di cui all’art. 1137, secondo comma, c.c. e sempre che siano proposte nella forma della domanda riconvenzionale: in sostanza, poiché l’opposizione a decreto ingiuntivo apre una fase processuale a cognizione piena, nel rispetto delle regole specifiche riguardanti la contestazione delle delibere condominiali non vi sono limiti in relazione alla valutazione della loro legittimità.
Con riguardo alla questione di diritto sostanziale, senz’altro di maggiore e significativa pregnanza sul piano dell’applicazione pratica, il tema affrontato dalla Suprema Corte riguarda il tipo di invalidità che inficia la delibera assembleare aventi ad oggetto la ripartizione delle spese dei condomini, in violazione dei criteri di cui all’art 1123 c.c. e seguenti o dei criteri convenzionalmente stabiliti dalle parti: esemplificando, si tratta di capire se le delibere che applicano criteri di riparto delle spese diversi da quelli legali ovvero convenzionali siano nulle o annullabili.
Nel rispondere a detto quesito preliminarmente la Corte richiama la sentenza SS.UU. 4806/05, pronuncia importantissima, che nel tratteggiare le differenti ipotesi di nullità e annullabilità delle delibere assembleari aveva già chiarito che la nullità potesse valere solo nei casi di modifica dei criteri di ripartizione delle spese condominiali, richiamando dunque l’annullabilità per tutte le altre ipotesi (e quindi, implicitamente, anche per quella oggetto della sentenza che stiamo commentando): la sentenza, molto importante ed apprezzata perché in grado di colmare il silenzio del legislatore sull’argomento, aveva già messo ordine nella disciplina chiarendo come “debbono qualificarsi nulle le delibere dell’assemblea condominiale prive degli elementi essenziali, le delibere con oggetto impossibile o illecito (contrario all’ordine pubblico, alla morale o al buon costume), le delibere con oggetto che non rientra nella competenza dell’assemblea, le delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, le delibere comunque invalide in relazione all’oggetto”; sarebbero annullabili invece le delibere viziate da irregolare costituzione dell’assemblea o adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta, nonché affette da vizi formali in violazione di prescrizioni legali ovvero convenzionali o financo regolamentari, nonché quelle genericamente affette da irregolarità del procedimento di convocazione.
La pronuncia SS. UU. n. 4806 del 2005 ha dunque avuto il grande merito di tracciare un modello dicotomico secondo cui i vizi di sostanza determinerebbero la nullità, mentre i vizi di forma l’annullabilità; tuttavia, con riguardo al tema delle delibere assembleari aventi ad oggetto la ripartizione tra i condomini delle spese afferenti la gestione delle cose e dei servizi comuni, assunte in violazione dei criteri stabiliti dalla legge o dal regolamento contrattuale, tale criterio è subito apparso non del tutto adeguato con immediata disputa giurisprudenziale sul punto.
Orbene partendo da questo lascito, con la sentenza n. 9839/2021 del 14 aprile 2021, gli ermellini hanno ulteriormente esemplificato in maniera chiara e precisa ognuna delle ipotesi prima semplicemente elencata, fornendo un contributo esemplare alla corretta valutazione di ogni singola ipotesi di invalidità in materia condominiale e risolvendo ogni residuo contrasto giurisprudenziale sul tema.
I giudici della Corte Suprema, res melius perpensa, hanno innanzi tutto definito il condominio come una comunione forzosa tra condomini costituita su quegli elementi del fabbricato la cui utilizzazione è necessaria ai fini del godimento delle singole proprietà individuali; l’amministrazione di queste parti comuni avviene mediante il metodo collegiale, che assegna ogni potere decisionale all’assemblea condominiale, in ossequio al principio maggioritario, così da far valere “la volontà del gruppo” e senza ricorrere ad un modello contrattuale per l’individuazione della volontà collettiva fondato sul metodo tipico del consenso reciproco. Orbene, alla luce di questi rilievi, ben si comprende il chiaro favor legislativo per la stabilità delle deliberazioni dell’assemblea condominiale, necessario elemento di garanzia per l’efficiente funzionamento del condominio, come è facile intuire analizzando la nuova formulazione voluta per l’art 1137 c.c.: in primis, la norma descrive un modello di efficacia erga omnes del disposto dell’assemblea condominiale, sicché le delibere sono efficaci ed esecutive nei confronti di tutti i condomini, anche assenti o dissenzienti; inoltre, ad abundantiam, la norma mira a ricondurre nell’ipotesi più lieve e meno “paralizzante” di annullabilità tutte le deliberazioni in violazione della legge, nonché del regolamento condominiale, descrivendo una casistica di portata amplissima che risulta funzionale ad imporre come regola per l’invalidità delle delibere assembleari l’annullabilità, relegando come eccezione alla disciplina la nullità.
L’evidente sfavore nei confronti della nullità, che apparirebbe manifesto in ragione del tenore così letterale e chiaro dell’art 1137 c.c., a parere della Suprema Corte non è tuttavia sufficiente ad escludere la categoria della nullità dalle ipotesi di invalidità delle deliberazioni assembleari: non si può infatti negare un limitato ambito applicativo alla nullità, poiché come eloquentemente osservato nella sentenza in commento “esistono categorie nel mondo del diritto che non sono monopolio del legislatore, ma scaturiscono spontaneamente dal sistema giuridico al di fuori e prima della legge”; orbene, proprio in ragione di questa riflessione, le Sezioni Unitesi ricostruiscono una casistica delle ipotesi riconducibili alla nullità di una delibera assembleare, attraverso una apprezzabile analisi della disciplina in oggetto.
Storicamente, secondo gli ermellini, la nullità è pur sempre collegata alle ipotesi di deficienza strutturale (mancanza di elementi costitutivi o di requisiti legali di efficacia, c.d. nullità strutturale) o di controllo normativo (illiceità o contrarietà alla legge, secondo il modello di cui all’art 1418 c.c., c.d. nullità virtuale), sicché sarebbe possibile ricostruire alcune ipotesi di nullità della delibera assembleare fondate su questi rilievi:
1) la mancanza ab origine degli elementi costitutivi essenziali della delibera, cioè volontà della maggioranza, oggetto, causa e forma; di questa prima ipotesi la Corte fornisce peraltro un breve ma significativo elenco: sarebbero certamente nulle le deliberazioni adottate senza la votazione dell’assemblea, le deliberazioni prive di oggetto o con oggetto non determinato ovvero non determinabile, o ancora le deliberazioni mancanti di una causa (ragione) o adottate senza idonea forma (orale e non scritta ad esempio);
2) l’impossibilità materiale o giuridica dell’oggetto, chiarendo che può aversi impossibilità materiale quando non si può dare concreta attuazione alla delibera, mentre l’impossibilità giuridica andrebbe valutata in base alle attribuzioni proprie dell’assemblea: in sostanza, poiché “il potere deliberativo dell’assemblea sussiste in quanto si mantenga all’interno delle sue attribuzioni”, attribuzioni che riguardano esclusivamente la gestione dei beni e dei servizi comuni, allorché il potere deliberativo ecceda le attribuzioni conferite ex lege si avrà un oggetto impossibile e la deliberazione sarà certamente viziata da nullità per “difetto assoluto di attribuzioni”, ermo restando che l’esercizio erroneo o disdicevole del potere assembleare, pur sempre nell’alveo di tali attribuzioni, comporterebbe soltanto annullabilità della delibera; questo difetto assoluto di attribuzioni attiene dunque non al “quomodo” dell’esercizio del potere, bensì all’ “an” di tale esercizio del potere (il problema non è dunque come è stato esercitato il potere, ma se c’è un potere da esercitare);
3) il contenuto illecito della delibera, richiamando espressamente l’art 1343 c.c., poiché la contrarietà alle norme imperative ovvero all’ordine pubblico o al buon costume non può che determinare la nullità della statuizione assembleare, ancorché adottata nell’ambito delle proprie attribuzioni: nello specifico, sono individuate come norme imperative quelle di cui all’art 1138 comma 4 c.c. (la norma è quella sul “regolamento condominiale”) e all’art 72 disp. att. c.c.
Orbene, alla luce dell’area di nullità ritagliata dalle Sezioni Unite con questa sentenza, in tema di condominio possono intendersi affette da nullità (deducibile in ogni tempo da chiunque vi abbia interesse) quelle deliberazioni dell’assemblea dei condomini che mancano ab origine degli elementi costitutivi essenziali, nonché aventi un oggetto impossibile, in senso materiale o in senso giuridico (dando luogo, in questo secondo caso, ad un “difetto assoluto di attribuzioni”) e che hanno un contenuto illecito, ossia contrario a norme imperative o all’ordine pubblico o al buon costume; al di fuori di queste tre ipotesi, dunque, le deliberazioni assembleari adottate in violazione di norme di legge o del regolamento condominiale sono semplicemente annullabili (e l’azione di annullamento deve essere esercitata nei modi e nel termine di cui all’art. 1137 c.c.).
Con specifico riguardo all’interrogativo posto alla Suprema Corte, dunque, devono senz’altro ritenersi nulle le deliberazioni adottate a maggioranza con cui siano stabiliti o modificati i criteri generali per la ripartizione delle spese condominiali, criteri previsti dalla legge o da convenzione stipulata dai condomini, poiché questa materia è sottratta al metodo maggioritario in quanto al di fuori dalle attribuzioni dell’assemblea previste espressamente dall’art. 1135 ai numeri 2 e 3 c.c.; sono invece meramente annullabili le deliberazioni aventi ad oggetto la ripartizione in concreto tra i condomini delle spese relative alla gestione delle parti e dei servizi comuni, adottate senza modificare i criteri generali previsti dalla legge o dalla convenzione, ancorché in violazione degli stessi, giacché queste deliberazioni sono assunte nell’esercizio delle attribuzioni assembleari che non sono contrarie e norme imperative (con relativa impugnazione che va proposta nel termine di decadenza previsto dall’art. 1137, comma 2, c.c.).
Quanto al riparto delle spese quindi, sul solco di quanto già affermato nel 2005, le Sezioni Unite hanno considerato valevole e meritevole di conferma e rafforzamento quel principio che pone una distinzione tra delibere che derogano ai criteri legali e quelle che applicano erroneamente criteri esistenti: in particolare, siccome applicare i criteri di riparto delle spese è compito dell’assemblea, l’errore non sarebbe la modifica ma l’esercizio, scorretto, di tale prerogativa.
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Sandro Geraci
Laureato in Giurisprudenza presso l'Università di Catania, ho conseguito il Master in Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali presso la Bocconi; continuo a studiare diritto per passione e per affrontare i concorsi che sto preparando.