Truffa contrattuale: sorti del contratto concluso e consumazione del reato
Nel novero dei delitti contro il patrimonio mediante frode, disciplinati nell’ambito del Libro II, Titolo XIII del nostro codice penale, pare opportuna un’analisi della fattispecie incriminatrice di truffa di cui all’art. 640, con specifico riferimento all’ipotesi di truffa contrattuale, al fine di verificarne gli elementi costitutivi ed il rapporto con le vicende del contratto, nonché stabilirne il tempus commissi delicti e la rilevanza del dolo iniziale, soprattutto alla luce della recente giurisprudenza di merito sul punto.
La ratio del delitto di truffa ex art. 640 c.p. è chiaramente ispirata alla salvaguardia della libera autodeterminazione di ciascun individuo rispetto al compimento di atti dispositivi di natura patrimoniale, in ordine ai quali, pertanto, il processo di formazione del consenso deve andare esente da condizionamenti di tipo illecito. La figura criminosa di cui si tratta, infatti, si configura quale reato plurioffensivo, dal momento che la condotta antigiuridica posta in essere dal soggetto agente lede non solo l’integrità patrimoniale della vittima e la libera formazione della sua volontà, ma costituisce altresì un nocumento all’interesse pubblicistico alla correttezza dell’attività economica costituzionalmente riconosciuta.
La truffa rientra nella categoria dei c.d. reati “in contratto”, che ricomprende tutte quelle fattispecie nelle quali ad assumere rilevanza penale è la condotta tenuta dal soggetto nel procedimento di formazione del contratto o nella fase di esecuzione del negozio giuridico, distinguendosi, pertanto, dai c.d. reati “contratto” nei quali ciò che viene stigmatizzato dal legislatore penale è la stipulazione del contratto in sé.
Si parla, specificatamente, di reati a concorso necessario plurisoggettivi impropri, dal momento che è prevista la punibilità solo di uno dei soggetti protagonisti della vicenda criminosa, benché spesso essi si caratterizzino, come nel delitto de quo, per la necessaria cooperazione della vittima.
Ai fini della configurazione del reato ex art. 640 c.p., infatti, è indispensabile la partecipazione del soggetto leso, estorta mediante il ricorso da parte del reo ad artifici e raggiri che inducono in errore la vittima, la quale è condotta con l’inganno ad autodanneggiarsi attraverso l’attuazione di un atto dispositivo del proprio patrimonio che arreca al contempo un ingiusto profitto all’agente.
In merito ai reati in contratto, occorre ricordare l’annosa questione relativa alle sorti del negozio posto in essere in conseguenza della condotta truffaldina del soggetto attivo, in ordine alla quale si sono sviluppati due contrapposti orientamenti giurisprudenziali.
Secondo una prima tesi, detta “panpenalistica”, l’atto di autonomia contrattuale stipulato a seguito dell’induzione dolosa del truffatore sarebbe affetto da nullità virtuale ai sensi dell’articolo 1418, co. 1, c.c., dal momento che la violazione delle norme penali, in virtù del loro carattere imperativo, inciderebbe di per sé sulla validità del contratto. Pertanto, la violazione del precetto penale che punisce un reato in contratto come la truffa, comporterebbe senz’altro la nullità del negozio per contrasto con norme imperative.
Di diverso avviso, invece, è la giurisprudenza prevalente (tesi “autonomistica”), la quale ha sottolineato il diverso fondamento sotteso alle disposizioni civilistiche rispetto a quello proprio delle norme incriminatrici, così imponendo un’interpretazione della norma relativa alla nullità virtuale ex art. 1418 c.c. nel senso di considerarla applicabile solo alle ipotesi di violazione di regole di validità del contratto e non anche al caso in cui ad essere violata sia una regola di comportamento, circostanza quest’ultima che rileverebbe esclusivamente sotto il profilo della responsabilità, senza tuttavia determinare l’invalidità della fattispecie negoziale.
Sulla scorta di tale impostazione ermeneutica è possibile dedurre che nel reato di truffa di cui all’art. 640 c.p., ove il comportamento doloso perpetrato dal reo abbia determinato la vittima a concludere un contratto, che diversamente non avrebbe mai stipulato, esso non sarà mai nullo, ma potrà essere oggetto, se del caso, di un’azione di annullamento per vizi del consenso da far valere entro cinque anni dalla scoperta dell’inganno. Qualora, invece, i raggiri e gli artifici posti in essere dall’agente abbiano indotto il soggetto passivo a concludere un contratto a condizioni diverse, senza incidere tuttavia sulla volontà di stipularlo, la persona offesa potrà agire solo in sede risarcitoria per i danni subiti.
Sul tema si è pronunciata la Suprema Corte a Sezioni Unite, la quale ha precisato che a fronte di una condotta scorretta tenuta dal contraente in mala fede sia nella fase delle trattative contrattuali che in quella di esecuzione del negozio, il soggetto danneggiato può scegliere di mantenere in vita il contratto concluso nell’eventualità in cui questo sia a lui in qualche modo favorevole (Cass. Pen., Sezioni Unite, sentenza 2 luglio 2008, n. 26654).
Per quanto concerne le modalità attuative della condotta criminosa ex art. 640 c.p., il reato di truffa si realizza allorché il reo ponga in essere degli artifici e dei raggiri, consistenti in comportamenti tesi a far apparire una realtà inesistente o difforme dal vero, idonei a sorprendere l’altrui buona fede e accompagnati da argomentazioni subdole e ingannevoli in grado di convincere psichicamente la vittima della veridicità e conformità della situazione falsamente rappresentata. Proprio con riguardo alle forme di estrinsecazione dell’azione delittuosa tipica del reato di truffa, è opportuno evidenziare come di recente la giurisprudenza abbia sostenuto che anche una condotta di tipo omissivo, costituita cioè dal mero silenzio, possa essere idonea ad integrare la fattispecie in esame. In particolare, il silenzio serbato dal soggetto agente integrerebbe l’elemento oggettivo del raggiro e assumerebbe rilievo nel momento in cui egli abbia un obbligo giuridico di informazione rispetto ad elementi o circostanze rilevanti al fine di non indurre in errore la persona offesa, così motivandola con efficacia determinante al compimento di un atto dispositivo del proprio patrimonio per sé dannoso (Cass. Pen., Sez. II, sentenza 4 ottobre 2018 n. 44228).
Altra questione molto dibattuta sia in dottrina che in giurisprudenza è quella attinente alla corretta individuazione del momento consumativo del reato di truffa di cui all’art. 640 c.p. Tale fattispecie criminosa si configura quale reato istantaneo e di danno e, pertanto, si è ritenuto che la stessa si perfezioni allorché al compimento dell’azione delittuosa tipica consegua una deminutio patrimonii del soggetto passivo e il contestuale conseguimento dell’ingiusto profitto in capo al reo.
Con specifico riguardo alla truffa contrattuale, la Corte di Cassazione è intervenuta sul tema del tempus commissi delicti affermando che lo stesso vada rintracciato tenendo conto delle peculiarità del singolo accordo e avuto riguardo alle specifiche modalità e tempistiche delle condotte, al fine di individuare in concreto quando si è effettivamente verificato il pregiudizio in capo alla vittima e il correlativo conseguimento dell’ingiusto profitto da parte dell’agente. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha infatti precisato che il reato di truffa commesso dall’ intermediario finanziario, il quale abbia investito delle somme di denaro in operazioni finanziarie senza l’autorizzazione del privato che gliele abbia versate, si configura quale reato istantaneo e si perfeziona al momento dell’avvenuta diminuzione patrimoniale e dell’ingiusto profitto, quando le parti abbiano stipulato contratti di mandato singoli; ove, invece, a fronte di un accordo iniziale, il cliente effettui periodici versamenti di denaro al soggetto attivo, il delitto in esame andrebbe considerato quale reato a consumazione prolungata (Cass. Pen., Sez V, sentenza 8 giugno 2020 n. 17353).
In tema di truffa contrattuale e, in particolare, in merito al momento in cui vengono posti in essere gli artifici e i raggiri da parte del reo, è utile fare cenno altresì ad una recente pronuncia giurisprudenziale la quale ha statuito che la condotta tipica del delitto di truffa ex art. 640 c.p. sarebbe integrata non solo nell’ipotesi in cui la stessa venga attuata nella fase negoziale volta alla stipulazione del contratto, ma anche in quella esecutiva del medesimo, laddove la vittima sia stata indotta con l’inganno a compiere delle prestazioni che in mancanza non avrebbe eseguito (Cass. Pen., Sez. II, sentenza 19 dicembre 2019 n. 4367).
Pertanto, l’inadempimento contrattuale unito alla condotta fraudolenta del reo che con l’inganno induce il soggetto leso a stipulare un contratto a suo danno, traendone un ingiusto arricchimento, integra senza dubbio il reato di truffa contrattuale, dal momento che il dolo iniziale che sorregge il comportamento dell’agente è idoneo ad incidere sulla volontà negoziale della vittima, determinandola a compiere un atto di disposizione patrimoniale che altrimenti non avrebbe posto in essere.
Sotto il profilo dell’elemento psicologico che sorregge la condotta illecita del soggetto attivo, infatti, è proprio il dolo iniziale ad imprimere al fatto dell’inadempienza contrattuale il carattere dell’illiceità penale, costituendo un indice imprescindibile da accertare attraverso un’analisi del comportamento complessivo tenuto dall’agente, comprese tutte le circostanze di fatto che ruotano attorno alla vicenda concreta (Cass. Pen., Sez II, sentenza 24 febbraio 2021 n. 7163).
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