Trust liquidatorio: tra nullità e inefficacia
Nel panorama dei negozi fiduciari, una fattispecie di interesse pratico nonché teorico è costituita dalla figura del trust.
Si tratta di un istituto di origine anglosassone che ha trovato adozione nel nostro ordinamento grazie al recepimento della Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, relativa alla legge sui “Trust” ed al loro riconoscimento (L. 16 ottobre 1989, n.ro 364).
Attraverso lo strumento del trust, il soggetto che lo istituisce, detto “settlor” o “disponente” pone dei beni “sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico” (così recita l’art. 2 della Convenzione). Il trustee, dunque, è il soggetto a cui viene “affidata” l’amministrazione dei beni di cui acquista la proprietà vincolata agli scopi del trust. Le finalità cui può essere diretto il trust sono molteplici: come mezzo per la tutela di soggetti incapaci, o, in ambito societario, come strumento per tutelare l’integrità di patrimoni ed impresi o per superare fasi patologiche nella vita delle aziende. L’effetto principale del trust, infatti, è rappresentato dalla segregazione in cui viene a trovarsi il patrimonio costituito in trust, rendendolo immune da qualsiasi azione da parte dei creditori del trustee e del settlor (c.d. “effetto segregativo”).
Proprio questa sua attitudine a segregare e ad imprimere un vincolo di destinazione al patrimonio ad esso imputato ha certamente contribuito alla diffusione del trust nell’ambito delle procedure di liquidazione societaria ed alla sua conformazione quale possibile supporto di procedure concorsuali e, più in generale, come strumento per la liquidazione dei beni.
Dal punto di vista strutturale, il trust liquidatorio viene costituito in favore dei creditori dell’impresa che assumono la qualità di beneficiari ipso iure.
L’istituto è stato oggetto di numerosi di numerosi recenti provvedimenti giurisdizionali[1] e di divergenti opinioni dottrinali[2] a causa del difficile rapporto dell’istituto de quo con le norme dell’ordinamento interno in tema di liquidazione concorsuale: esso, infatti, qualora abbia ad oggetto l’intero complesso aziendale, non può mai costituire una alternativa alla procedura di liquidazione: in questo caso avremmo una utilizzazione distorta del trust poiché perseguirebbe finalità estranee al nostro ordinamento e con esso incompatibili.
Pertanto, il trust liquidatorio potrà legittimamente essere istituito ma dovrà prevedere espressamente delle clausole che ne limitino l’operatività in caso di insolvenza conclamata, in modo tale che, in caso di intervenuto fallimento, i beni possano essere restituiti alla procedura di carattere pubblicistico e, dunque, inderogabile.
Secondo autorevoli studiosi[3] è possibile distinguere i trust liquidatori in relazione alla loro tipologia, allo scopo enunciato e, soprattutto, al momento in cui il trust è istituito. Così possono distinguersi:
1) i trust “protettivi”, che sono istituiti da un imprenditore in bonis per prevenire azioni esecutive da parte di creditori “pericolosi”, mettendo a loro disposizione in trust alcuni beni destinati alla loro soddisfazione. Questi trust hanno funzione pre–liquidatoria e, soprattutto, lo scopo di rassicurare i creditori beneficiari del trust prospettando un pagamento del debito attraverso la costituzione di una prelazione atipica;
2) i trust “di salvataggio” che sono istituiti da un imprenditore in stato di crisi reversibile e mirano a scongiurare un’istanza di fallimento o a favorire e supportare soluzioni negoziali della crisi (ad esempio per rendere maggiormente appetibile una proposta di concordato);
3) i trust “puramente liquidatori”, che realizzano una modalità alternativa alla liquidazione disciplinata dagli artt. 2487 s.s. c.c., consentendo al trustee di eseguire le operazioni di liquidazione e all’impresa liquidata di cancellarsi dal registro;
4) i trust “falsamente liquidatori” istituiti da imprenditori già decotti che hanno soltanto lo scopo di ostacolare le pretese creditorie e di procrastinare il fallimento di un’impresa già in stato di conclamata insolvenza. Esso è radicalmente nullo in quanto diretto a eludere le norme imperative dettate in materia di liquidazione.
Come anticipato in premessa, a livello giurisprudenziale, molti sono stati i casi in cui i Tribunali e le Corti d’Appello hanno negato la validità di trust costituiti nella forma del c.d. trust liquidatorio, in quanto ritenuti – in concreto – privi di finalità liquidatoria per essere l’unico obiettivo perseguito dal settlor quello di segregare il patrimonio in frode ai creditori.
La questione della liceità ed efficacia del trust liquidatorio e degli effetti della sua eventuale illiceità è stata al centro di una vicenda esaminata da Cass. 9 maggio 2014 n. 10105 relativa, appunto, ad un trust (falsamente) liquidatorio istituito da una società da poco posta in liquidazione ma in un momento in cui si trovava già in una situazione di insolvenza. Dotato il trustee (il liquidatore societario) dell’intero patrimonio aziendale, compresi i debiti e crediti, l’impresa disponente aveva provveduto a cancellarsi dal Registro delle Imprese.
Nel termine annuale previsto dall’art. 10 l.f., il Tribunale di Roma aveva dichiarato il fallimento della società disponente e altresì considerato nullo, ai sensi dell’art. 1418 c.c. e 13 e 15 lett. e) della Convenzione dell’Aja, il trust liquidatorio poiché “realizza un effetto vietato dall’ordinamento”: cioè la sottrazione agli organi della procedura fallimentare della liquidazione dei beni del fallito.
I Supremi Giudici, esaminando nello specifico il trust liquidatorio, definito come la segregazione patrimoniale di tutto il patrimonio aziendale per provvedere, in forme privatistiche, alla liquidazione dell’azienda sociale, ed aderendo espressamente alla tesi della nullità sostenuta dai giudici di merito, hanno, tuttavia, ritenuto di aggiungere alla soluzione prospettata alcune «precisazioni», riferite precipuamente all’ipotesi del c.d. trust anti-concorsuale, ossia l’ipotesi in cui «il trust viene a sostituirsi alla procedura fallimentare ed impedisce lo spossessamento dell’imprenditore insolvente».
La Corte ha precisato che tale configurazione del trust deve considerarsi illegittima, “comparando strumenti di cui l’uno, il trust, ancorato a regole ed interessi comunque privati del disponente, e l’altro di natura schiettamente pubblicistica, qual è la procedura concorsuale, destinata a sopravvenire nel caso di insolvenza a tutela della par condicio creditorum e che non è surrogabile da strumenti che (ove pure siano trasferiti al trustee anche i rapporti passivi) né garantiscono tale parità, né escludono procedure individuali, né prevedono trattative vigilate con i creditori al fine della soluzione concordata della crisi, né contemplano alcun potere di amministrazione o controllo da parte del ceto creditorio o di un organo pubblico neutrale”[4].
Pertanto, prosegue la Corte “se la causa concreta del regolamento in trust sia quella di segregare tutti i beni dell’impresa, a scapito di forme pubblicistiche quale il fallimento, l’ordinamento non può accordarvi tutela”.
Un simile istituto sarebbe, infatti, in contrasto sia con norme inderogabili e di ordine pubblico in materia di procedure concorsuali, che con l’articolo 15 della Convenzione dell’Aja ai sensi del quale “la Convenzione non può costituire ostacolo all’applicazione delle disposizioni della legge designata dalle norme del foro sul conflitto di leggi in tema di “protezione dei creditori in caso di insolvenza” e l’ultimo comma aggiunge che “qualora le disposizioni del precedente paragrafo siano di ostacolo al riconoscimento del trust, il giudice cercherà di attuare gli scopi del trust in altro modo”.
La conseguenza è che il trust liquidatorio deve essere disconosciuto dal giudice del merito ogni volta che sia dichiarato il fallimento per essere accertata l’insolvenza del soggetto, ove l’insolvenza preesistesse all’atto istitutivo.
Ne consegue che, «una volta accertata la non riconoscibilità, lo strumento non produce alcun effetto giuridico nel nostro ordinamento, in particolare non quello di creare un patrimonio separato, restando tamquam non esset». In termini pratici, il trust «deve essere disconosciuto dal giudice del merito, ogni volta che sia dichiarato il fallimento per essere accertata l’insolvenza del soggetto, ove l’insolvenza preesistesse all’atto istitutivo».
La Suprema Corte, dunque, non si arresta alla tesi della nullità, ma va oltre quando afferma che dalla dichiarazione di fallimento deriva necessariamente «l’integrale non riconoscimento del trust, ai sensi dell’art. 15, primo comma, lett. e) della Convenzione».
La “non efficacia” del negozio istitutivo del trust pone un’ulteriore rilevante questione per gli operatori del diritto circa la sorte degli atti dispositivi, di trasferimento dei beni o dell’azienda in favore del trustee, essendo espressamente esclusa l’applicabilità della Convenzione de L’Aja alle questioni relative alla validità degli atti giuridici di trasferimento (cfr. art. 4).
La questione va risolta a livello “interno” in virtù della legge interna: dal momento che il negozio istitutivo del trust si pone come antecedente causale dell’attribuzione patrimoniale operata con l’atto di trasferimento dei beni, “ove non riconoscibile il primo diviene privo di causa il secondo (nullo ex art. 1418, secondo comma, prima parte, c.c. perché operato in esecuzione di negozio riconoscibile)”.
Ne deriva che, essendo l’atto istitutivo del trust tamquam non esset, l’atto dispositivo di trasferimento dei beni o dell’azienda in favore del trustee è affetto da radicale nullità.
L’analisi della Corte di Cassazione non si è arrestata alla tipologia del trust liquidatorio c.d. anticoncorsuale, ma ha individuato altre due diverse sfumature del trust che sono state oggetto di differente valutazione circa la loro legittimità:
il trust concluso per sostituire in toto la procedura liquidatoria, al fine di realizzare, con altri mezzi, il risultato equivalente di recuperare l’attivo, pagare il passivo, ripartire il residuo e cancellare la società;
il trust concluso quale alternativa alle misure concordate di risoluzione della crisi d’impresa (c.d. trust endo-concorsuale), nel cui ambito potremmo ricondurre il trust c.d. di salvataggio, sopra richiamato.
Secondo i giudici di legittimità, nel primo caso “potrebbe dirsi lo strumento vietato, qualora si esiga che esso, per essere riconosciuto nel nostro ordinamento, assicuri un quid pluris rispetto a quelli già a disposizione dell’autonomia privata nel diritto interno. Non sembra però che l’ordinamento imponga questo limite, alla luce del sistema rinnovato dalle riforme attuate negli ultimi anni, che ammettono la gestione concordata delle stesse crisi d’ impresa”.
Nella seconda fattispecie, poi, la causa concreta va sottoposta ad un vaglio particolarmente attento, potendo di fatto contrastare con i fini di cui siano espressione norme imperative interne: non ci si può arrestare allo scrutinio della “causa astratta”, e cioè del programma di segregazione con il quale un soggetto svolge una determinata attività per conto e nell’interesse di un altro soggetto, secondo un programma prestabilito e in misura più continuativa e complessa di quella propria del mandato, ma occorre anche valutare la “causa concreta”, che risulta dal regolamento d’interessi effettivamente perseguito[5]. La Corte osserva che la ricerca di soluzioni alternative al fallimento è vista con favore dal legislatore, a condizione che le iniziative negoziate si svolgano sotto il controllo del ceto creditorio o del giudice, mantenendo la natura officiosa della procedura, anche perché la soluzione concordata non investirebbe tutte le fasi dell’accertamento dei crediti, dell’acquisizione dell’attivo, del riparto, ma solo taluni momenti specifici.
Quindi, se da un lato, secondo tale giurisprudenza, un trust sostitutivo della procedura fallimentare sarebbe del tutto nullo, o meglio inefficace, dall’altro parrebbe ammissibile l’impiego del trust per svolgere la liquidazione da parte di una società in bonis, senza danneggiare gli interessi dei creditori.
Sebbene durante suoi “primi anni di vita”, l’istituto in oggetto veniva visto con diffidenza dalla lettura, oggi appare sostanzialmente jus receptum che il trust sia legittimamente utilizzabile nell’ordinamento italiano, secondo una ormai copiosa giurisprudenza. Sicuramente la strada da percorrere è ancora lunga perché il trust trovi una sua “posizione” nel nostro ordinamento, visto che molte sono le perplessità che residuano in ordine alla compatibilità del trust con la disciplina delle procedure concorsuali a causa della previsione dell’art. 15 lettera e) della Convenzione dell’Aja che contiene una riserva riguardante la protezione dei creditori in caso di insolvenza. Da ciò taluno trae argomento per ritenere esclusa la compatibilità del trust con le procedure concorsuali per violazione del principio della par condicio creditorum. Si tratta, tuttavia, di perplessità superabili. In primo luogo poiché la protezione di cui all’art. 15 della convenzione deve essere riferita all’insolvenza del disponente, talché tale argomento non è invocabile ogni volta che il trust non rechi pregiudizio ad uno o più creditori del medesimo. In secondo luogo poiché dottrina e giurisprudenza hanno a più riprese osservato che l’art. 2740 c.c. non costituisce più un principio fondamentale ed inderogabile del nostro ordinamento, talché il dogma dell’unitarietà del patrimonio del debitore non implica di per sé un impedimento insormontabile all’uso del trust. Appare oggi poco persuasivo ragionare ancora in termini di rapporto regola/eccezione tra principio di responsabilità patrimoniale generica e separazioni patrimoniali normativamente previste[6]. Più conveniente appare ritenere che la regola dettata dall’art. 2740 c.c. coesista con il complesso di regole che consentono all’autonomia privata di creare separazioni patrimoniali e tutte con pari dignità concorrono alla composizione del sistema, nel senso che vi sono varie aree di responsabilità patrimoniale limitata, solo al netto delle quali vale la regola residuale della garanzia patrimoniale generica sui beni del creditore. Sebbene queste considerazioni valgano a dimostrare che non esiste un vero ostacolo assoluto all’impiego del trust nelle procedure concorsuali, ciò non implica che possa farsene un uso generico e illimitato: la legittimità dell’utilizzo del trust dipende dalla legittimità dell’intera operazione nel cui ambito si inserisce l’atto di segregazione.
Nel particolare settore dei trust liquidatori tuttavia i giudici sono intervenuti con notevole rigore di fronte a fattispecie di uso abusivo del trust dichiarando spesso la nullità o inefficacia dell’atto istitutivo o degli atti di conferimento dei beni in trust e hanno disposto talora il sequestro conservativo dei beni trasferiti al trustee.
Questi precedenti giurisprudenziali e i profondi mutamenti ordinamentali sopra sinteticamente richiamati indicano dunque la necessità da parte degli operatori del diritto, in particolare da parte dei notai, di un approccio prudente nella redazione del regolamento negoziale teso a disciplinare la fattispecie concreta per la quale è richiesto il suo intervento.
[1] Trib. Forlì 4 febbraio 2015 in Contratti, 2015, 437; Trib. Ravenna 22 maggio 2014 in www.ilcaso.it; Trib. Reggio Emilia 12 agosto 2014 in Trusts att. fid., 2014, 630; Trib. Palermo 22 maggio 2014 in Trusts att. fid., 2014, 633; Trib. Ravenna 22 maggio 2014 in Trusts att. fid., 2014, 635; Trib. Reggio Emilia 27 gennaio 2014 in Trusts att. fid., 2014, 643; Trib. Milano 28 marzo 2014 in Trusts att. fid., 2014, 650; Trib. Bari 12 febbraio 2013 in Trusts att. fid., 2014, 653.
[2] Cfr.L. PANZANI, Trust e concordato preventivo, in Fallimento, 2005, 553 ss; G. LO CASCIO, Il concordato preventivo ed il trust, in Fallimento, 2007, 245 ss; ID., Proposta di concordato preventivo mediante trust, in Fallimento, 2009, 340 ss; C. D’ARRIGO, L’impiego del trust nella gestione negoziale della crisi d’impresa, in La crisi d’impresa. Questioni controverse del nuovo diritto fallimentare a cura di F. DI MARZIO, Padova 2010, 451 ss; G. FANTICINI, L’ingloriosa fine del trust liquidatorio istituito dall’imprenditore insolvente: tamquam non esset! in Trusts att. fid., 2014, 585 ss.; A. FAROLFI, Il trust liquidatorio secondo le risultanze della prassi e della giurisprudenza in Trusts att. fid., 2014, 616 ss., ove ampie citazioni di dottrina e giurisprudenza.
[3] A. BUSANI, in Busani – Fanara – Mannella, Trust e crisi di impresa, Milano, 2013, 56; D. MURITANO, Note sul trust istituito da imprese in crisi (in funzione liquidatoria) studio del CNN n. 161 – 2011/I.
[4] Cass. Civ., 9 maggio 2014, n.ro 10105.
[5] Cfr. M. Palazzo Studio 315-2015/I CNN
[6] C. SCOGNAMIGLIO, Negozi di destinazione, trust e negozio fiduciario, in Gli strumenti di articolazione del patrimonio profili di competitività del sistema, a cura di M. Bianca e Capaldo, Milano, 2013; F. MACARIO, Principi generali e nuovi scenari del sistema della responsabilità patrimoniale, in Giustizia civile, 2015, p. 59 ss.
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