«TRUST: “T” maiuscola o minuscola?»: il caso Cass., n. 2043/2017
[edito in collaborazione con il Ch.mo Dott. Maurizio Muto, laureato in Giurisprudenza presso l’Università della Calabria]
Sommario: 1. Premessa – 2. Storia del trust (cenni) – 3. La convenzione dell’Aja del luglio 1985 – 4. Il trapianto giuridico 5. Soggettività del trust: Analisi Cass., n. 2043/2017 – 6. Trust vs Istituti italiani di diritto civile – 6.1. Trust e negozio fiduciario – 6.2. Trust vs contratto a favore di terzo – 6.3. Trust vs mandato – 6.4. Trust vs fondo patrimoniale – 6.5. Trust vs atti di destinazione patrimoniale.
1. Premessa
L’interrogativo del presente lavoro rispecchia a pieno titolo la distinzione tra nome proprio e nome comune secondo le regole della grammatica. Seppur il trust, quale istituto giudico-privatistico, sia un fenomeno giuridico per certi versi unitario, secondo quanto verrà sviscerato nelle pagine a seguito, diversa è la configurazione se «entificato» indi, provvisto esso stesso di un quid di soggettività, ovvero “fascio di attribuzioni patrimoniali” soggetto ad una completa capitis deminutio, riferibili, pertanto, ad una soggettività già esistente.
Non poteva non esimersi da una preliminare analisi storico-comparatistica dell’istituto, volta a rimarcare le differenze, soprattutto dal punto di vista giuridicoculturale, tra i due mondi: quello inglese e quello italiano. Dopo l’analisi di tale fenomeno, il c.d. trapianto secondo quanto affermato da Watson[1], il focus verrà spostato sull’esame della sentenza della Suprema Corte, n. 2043 del 2017, tentando di dare risposta al quesito iniziale: risposta propria della nostra cultura giuridica.
2. Storia del trust (cenni)
L’istituto in esame costituisce una delle manifestazioni giuridiche più rilevanti del pragmatismo britannico per la versatilità dei suoi impieghi e per le molteplici configurazioni che può assumere. Su tal via, come autorevolmente sostenuto, sovente è stato ritenuto un istituto plurimodulare[2] o proteiforme o polimorfo che sfugge a qualsivoglia intavolazione schematica fattuale. Sulla scorta di tale consapevolezza e senza pretese di esaustività, si può cercare di individuare gli elementi essenziali dell’istituto[3]. Nel pragmatismo della sua essenza, il trust individua un rapporto in cui un soggetto, c.d. settlor, conferisce ad altro/i, c.d. trustee, un titolo, c.d. title[4], su determinati beni affinché questi li gestisca nell’interesse di un altro soggetto, c.d. beneficiary, cui compete un equitable interest[5], sulla base di un atto di disposizione, il c.d. trust deed se inter vivos, will se mortis causa. Sulla base di tale atto, l’insieme delle attribuzioni dei beni e dei diritti costituiscono il patrimonio del trust, c.d. trust fund. Quest’ultimo deve essere completamente separato dal patrimonio del trustee e da eventuali altri fondi per cui il medesimo rivesta la medesima funzione. È proprio questo effetto di segregazione patrimoniale, che deriva dalla frammentazione delle posizioni giuridiche riferibili a più soggetti, a costituire l’effettiva peculiarità dell’istituto[6]. Di talché, i beni conferiti non possono essere escussi dai creditori del trustee, del disponente o del beneficiario. L’istituto, in prima approssimazione delineato, ha conosciuto la propria nascita ed il proprio sviluppo nel sistema giuridico inglese. Tale istituto rappresenta l’esito conclusivo di un’azione, in equity, volta a preservare le proprietà immobiliari dei nobili, dei cavalieri, da onerose forme di tassazione o di incrementare la gamma dei relativi atti di disposizione con effetti successivi alla morte. È, appunto, il prodotto del sistema Equity che, sorto per attribuire giustizia in senso sostanziale alle storture del common law, deve la sua affermazione all’attività svolta dalla Corte del Cancelliere dando vita, quindi, ad un insieme di regole e principi contrassegnate da un’elevata vaghezza e generalità[9] tanto che, autorevolmente sostenuto, trattasi “più un responso sibillino che un precetto giuridico”[10].
Pur trovando terreno fertile nell’equity, non si disconosceva uno strumento simile prima della sua creazione. Infatti, vi era il c.d. use, quale strumento giuridico elaborato dagli esperti legali specializzati nel trasferimento della property in senso lato e nella redazione dei relativi atti. Il sistema inglese non conosce l’istituto della proprietà così come inteso dalla famiglia “romano-germanica”. Il sistema inglese è caratterizzato da un complesso agglomerato di rapporti interpersonali di natura gerarchica in virtù del quale, diversi “concessionari”, c.d. tenants, avanzano diritti su di una medesima porzione di suolo. Al vertice della struttura piramidale è situata la Corona, mentre, al centro i vari concessionari a vario titolo anche tra loro concorrenti e, infine, alla base è posizionato il soggetto effettivamente immesso nel possesso e nell’uso del fondo.
Lo use è sorto con la finalità si superare i principi secondo cui non era possibile trasmettere la terra per testamento, ovvero agli ordini religioni, oppure aggirare il c.d. right of marriage. Se la terra era intrasmissibile mortis causa, a contrario, può essere trasmessa inter vivos. Pertanto, l’atto di alienazione avrebbe comportato, sfruttando la libertà dispositiva, un trasferimento della proprietà attraverso il ricorso ad una concessione della stessa ad individui terzi, ponendo in essere un regime di comproprietà, a condizione che la terra alienata fosse declinata al beneficio di un soggetto appositamente designato. La comproprietà che si veniva a creare, c.d. joint tenure, era caratterizzata dal c.d. right to survivorship; cioè, alla morte di uno dei comproprietari, il diritto del de cuius, veniva meno, non trasferendosi né agli eredi e né ai rimanenti. Tale meccanismo era lo use, un lontano parente del più conosciuto trust. Il trust nasce per ovviare all’inconveniente che poteva verificarsi nel caso in cui i restanti comproprietari si fossero rifiutati di onorare lo use, poiché i beneficiary non avrebbero trovato soddisfazione alcuna di fronte ad una Corte di common law.
Quella che si riflette nel trust è la distinzione, assente nel nostro ordinamento, tra la tutela accordata al legal owner e la diversa tutela accordata ai beneficiary quale precipitato della frammentazione delle posizioni giuridiche. Infatti, mentre per il primo era riconosciuta una tutela piena dalle Corti di common law, ai secondi veniva negata, poiché non aventi a better title. Così, la Corte di Equity, riconobbe i beneficiary, come titolari un equitable owner, accordando a quest’ultimi tutela. La tutela si esplica nel diritto di sequela, c.d. tracing rights, opponibile a qualunque terzo, purché quest’ultimo non provi la sua buona fede.
Questi caratteri si sono tramandati dal mondo medievale sin ai giorni nostri, portando gli accademici a qualificare il trust come un ibrido di contratto e proprietà in cui riconoscere gli elementi personali non significa disconoscere le componenti proprietarie la cui convenienza è stringente[11], appetibile, soprattutto, per le intrinseche peculiarità.
3. La convenzione dell’Aja del luglio 1985
Il trust, come si è esposto supra, è quell’istituto che ha come finalità la separazione dal patrimonio di un soggetto, alcuni beni per il perseguimento di specifici interessi a favore di determinati beneficiari o per il raggiungimento di uno scopo determinato, attraverso il loro affidamento e la loro gestione ad un altro soggetto. La peculiarità dell’istituto risiede nello sdoppiamento del concetto di proprietà romanisticamente inteso. Con l’istituzione del trust il disponente ottiene la separazione dalla parte di patrimonio che conferisce in esso da quella che resta nella sua sfera patrimoniale, secondo il c.d. effetto segregativo[12]. Effettivo proprietario dei beni stessi diventa il trustee. Il trust è un istituto diverso dal rapporto fiduciario, dove i beni restano sempre nella proprietà del soggetto disponente. Nel trust, invece, i beni costituiscono una massa patrimoniale separata e distinta da quella del disponente e del trustee, seppur quest’ultimo, a seguito del trasferimento, diventa l’effettivo proprietario dei beni a lui affidati di cui ha il potere di amministrare, gestire e disporre secondo la regolamentazione contenuto nell’atto di disposizione.
Il possibile svariato uso che si può fare[13] del trusts[14] riflette la sua flessibilità intrinseca negli scopi da perseguire. Ecco perché funge da modello d’esportazione.
Giova chiarire come la convenzione non contiene alcuna disciplina speciale per l’istituto, ma si limita a stabilire dei criteri in grado di dirimere il conflitto di leggi ed individuare il diritto applicabile, rappresentando solo un mezzo per la corretta individuazione della norma che disciplina la fattispecie. Si pone, quindi, quale norma risolutrice di conflitti, alla strega del diritto internazionale privato e non quale diritto sostanziale.
Infatti, la sua diffusione a livello globale, ha portato gli stati a stipulare la Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, sulla legge applicabile al trust ed al loro relativo riconoscimento. Il preambolo della convenzione in esame è un onorevole tributo alla cultura giuridica inglese, quale culla dell’istituto, nella parte in cui espressamente riconosce il trust quale creazione delle Corti di Equity.
Come autorevolmente sostenuto con argomenti convincenti15, l’oggetto della Convenzione sarebbe ravvisabile in un trust c.d. amorfo, cioè in una forma di trust sfumata a tal punto da essere riscontabile in svariati Stati quale fenomeno interno.
4. Il trapianto giuridico
Dal 1° gennaio 1992 è in vigore in Italia la legge 16 ottobre 1989, n. 364, dal titolo “Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento”, adottata a L’Aja il 1º luglio 1985. Il legislatore italiano si è limitato a sancire solo la “piena ed intera esecuzione” della Convenzione internazionale, ma non si è addentrato nella disciplina concreta dell’istituto e dei suoi epifenomeni[15]. Ciò ha creato non poche spaccature all’interno degli accademici. Infatti, ciò che ha destato più riflessioni è stato, ai sensi della prima parte dell’art. 7 della Convenzione, il riconoscimento di «un trust costituito in conformità alla legge specificata al precedente capitolo dovrà essere riconosciuto come trust». Il testo dell’art. 11 indica, poi, le due “implicazioni” minimali connesse al riconoscimento quali: il trustee avrà la capacità di stare in giudizio; il trustee avrà la legittimazione a comparire davanti ad un notaio o ad una autorità pubblica.
A ben guardare, l’art. 11 indica, 3 “implicazioni” connesse al riconoscimento, condizionate al fatto che «la legge applicabile lo richieda o lo preveda: i) insequestrabilità dei beni in trust da parte di creditori personali del trustee; ii) separazione di tali beni dal patrimonio del trustee in caso di insolvenza di questi; iii) conseguenze in caso di confusione fra beni in trust e beni personali del trustee». Sempre su tal via, si pone l’art. 12, il quale condizionato al fatto che «non sia vietato o sia incompatibile a norma della legislazione dello Stato nel quale la registrazione deve aver luogo» ammette il trustee ad ottenere la “registrazione” dei beni in trust e della sua qualità di trustee.
Tali tasselli, debbono essere analizzati in comparato con l’art. 11, secondo cui il riconoscimento del trust è ammesso quando lo stesso risulti costituito «in conformità alla legge specificata al precedente capitolo»: il “precedente capitolo” altro non è che il complesso di artt. 6-10 che individuano, appunto, la “legge applicabile”. In merito a quest’ultima, il principio fondamentale è sancito dall’art. 6: «Il trust è regolato dalla legge scelta dal costituente» (rectius, disponente). In caso di mancanza di scelta, l’art. 7, in virtù del quale il trust sarà regolato dalla «legge con la quale ha più stretti legami, tenendo conto, a tal fine, di quattro elementi: a) luogo di amministrazione del trust; b) situazione dei beni del trust; c) residenza o sede degli affari del trustee; d) obiettivi del trust e luoghi delle loro realizzazione».
Ora è possibile una lettura esaustiva dell’art. 13: «Nessun Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti, ad eccezione della scelta della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione». La regola generale, quindi, è che nessuno Stato è obbligato a riconoscere un trust in cui gli elementi importanti sono strettamente connessi a “Stati
non-trust”. Detto in altri termini, in Italia non dovrebbe essere riconosciuto un trust che si presenti totalmente privo di elementi di transnazionalità o di internazionalità[16] ossia trust c.d. interni totalmente[17]. Detto orientamento pare ormai minoritario[18], secondo cui è riconoscibile esclusivamente il trust cosiddetto «straniero», cioè relativo ad una fattispecie dotata di elementi di internazionalità ulteriori rispetto a quello costituito dalla legge regolatrice.
All’uopo, parte della dottrina rileva come il maggiore ostacolo al riconoscimento in Italia dell’istituto sia integrato dalla disposizione dell’art. 2740 c.c. secondo cui le limitazioni alle responsabilità del debitore sono determinate esclusivamente dalla legge. Nettamente contrario, quindi, all’intima essenza del trust anglosassone. Secondo tale linea interpretativa, la limitazione della responsabilità del trustee, che discende dal vincolo di segregazione, non parrebbe conciliabile con la responsabilità personale ed illimitata del debitore. Ne consegue, che la convenzione, non può ritenersi deroga all’art. 2740 c.c.; inoltre, ulteriori argomenti contrari all’ammissibilità del trust sono stati ricavati dal complesso del sistema privatistico italiano. Essi sono stati identificati nei c.d. principi: a) della non opponibilità a terzi degli accordi cosiddetti fiduciari, in ragione del numero chiuso dei vincoli di indisponibilità opponibili ai terzi[19]; b) della tipicità delle cause di attribuzione traslativa e della idoneità delle stesse a fondare solo l’attribuzione cosiddetta pura, vale a dire definitiva con esclusione di quella strumentale; c) tipicità degli effetti reali[20] o obbligatori[21] derivanti dai negozi di attribuzione; d) della tipicità, nel senso di numerus clausus, dei diritti reali e dei negozi atti a produrli; e) della tipicità della destinazione patrimoniale senza personalità giuridica e della connessa separazione, in forma segregativa, cioè bilaterale, valutata ammissibile solo per il perseguimento di interessi che il legislatore qualifica come superiori a quello della tutela paritaria dei creditori e dell’in-frammentarietà del patrimonio[22]; f) della tipicità degli atti trascrivibili ovvero degli effetti trascrivibili e dunque opponibili ai terzi[23].
Si sono profilati in dottrina e giurisprudenza, però, ulteriori interpretazioni sull’ammissibilità o meno, e sulle caratteristiche del trust c.d. interno. Si allude all’eccezioni alla regola relativa agli “elementi importanti”, ex art. 13, in particolare alla legge applicabile. Tale ultima disposizione consentirebbe il riconoscimento di un «trust interno» totalmente privo di elementi di transnazionalità solo perché il costituente abbia scelto una legge diversa da quella nazionale, introducendo surrettiziamente, con la sua volontà, un solo elemento di transnazionalità, quale la legge straniera. Si pensi al seguente caso: un soggetto residente e dimorante a Cutro costituisce un trust a Bocchigliero, nominando un trustee ivi residente e dimorante, in relazione a beni situati a Cutro, scegliendo, però, la legge inglese.
Tale orientamento, ad oggi, dominante[24], ammette la riconoscibilità del trust cosiddetto “interno”, in cui l’unico elemento d’internazionalità della fattispecie è rappresentato dalla legge regolatrice. Ciò si fonda sui seguenti elementi:
sul disposto dell’art. 6 della Convenzione;
sul fatto che la Convenzione non contiene alcuna norma che ne limiti l’applicabilità alle sole fattispecie che presentino elementi di estraneità ulteriori rispetto alla scelta della legge regolatrice;
sull’interpretazione dell’art. 13 della Convenzione il quale stabilisce che «Nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti, ad eccezione della scelta della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione».
Con riferimento a quest’ultima norma la dottrina maggioritaria e le pronunce giurisprudenziali che hanno preso posizione sul punto, ritengono che essa sia rivolta ai giudici (secondo quanto indicato anche nei lavori preparatori della Convenzione), e che attribuisca loro il potere di non riconoscere un trust interno non per il solo fatto di essere «interno», ma solo in presenza di valide e forti ragioni, che vanno al di là del rilievo sommario secondo cui il trust, essendo “interno” non deve e non può essere riconosciuto, il che confliggerebbe, per non dire d’altro, con la libertà di scelta prevista all’art. 6 della Convenzione (che è il cardine della Convenzione). L’art. 13 viene, dunque, correntemente interpretato come “norma di chiusura”, la quale consente al giudice di non riconoscere il trust regolato da legge straniera nel caso in cui, pur non trovando applicazione le norme di salvaguardia previste agli articoli 15, 16, 18 della Convenzione stessa, il giudice ritenga ugualmente il trust non meritevole di riconoscimento in quanto realizzi un «abuso di diritto», venga utilizzato «in frode alla legge», o comunque realizzi effetti valutati dal giudice ripugnanti all’ordinamento in cui dovrebbe essere riconosciuto. E l’esame della giurisprudenza italiana in materia di trust mostra chiaramente come esso non può essere utilizzato per realizzare finalità in senso lato illecite[25]. In questi casi può dirsi che esso è, addirittura, maggiormente attaccabile rispetto ad analoghe finalità realizzate con tecniche consuete[26].
Vi è da segnalare, infine, una voce isolata nel panorama dottrinario che fornisce un’interpretazione del tutto nuova della convenzione stessa[27].
Secondo tale ermeneutica, il trust c.d. interno, sarebbe quel trust che tutti gli elementi strettamente connessi, anche la legge regolatrice, sia regolato dal diritto interno: in questo caso dall’Italia[28]. Il primo argomento la stessa adesione dell’Italia alla Convenzione de L’Aja che sembra portare nella direzione opposta a quella della non ammissibilità e operatività e regolamentazione del trust in Italia. In sintesi, il trust della Convenzione de L’Aja non è e non può essere lo specifico trust previsto dalla specifica legge di uno Stato di common law bensì una fattispecie negoziale ampia, a struttura variabile, denominabile in vario modo a seconda del sistema in cui opera ed è prevista. Ciò che conta è che essa sia in grado di produrre effetti (art. 2) e che l’ordinamento in cui opera riconosca questi effetti. Questo percorso interpretativo è incentrato sull’accidentalità del nomen iuris cita a supporto il fatto che la Francia ha adottato una legge sulla destinazione patrimoniale a scopi meritevoli di tutela, denominando la fattispecie regolata fiducie e non trust38. Inoltre, secondo l’Autrice, l’Italia non può mai essere sprovvista di regolamentazione di fattispecie negoziali in senso lato atipiche o innominate, e ciò in forza di quanto previsto negli artt. 1322, comma 2, 1323 e 1324 c.c., che individuano la disciplina di qualsiasi atto, definibile come negoziale, con struttura contrattuale ovvero unilaterale, che aspiri ad operare o che, di fatto, operi in Italia con rilevanza giuridica (c.d. atto socialmente tipico): tale è l’atto che abbia superato un giudizio di liceità e meritevolezza39 degli interessi con esso perseguibili e che, dunque, non contrasti con norme, in senso lato, imperative del nostro ordinamento. Su tal via, concluse con l’ammissibilità del trust interno con applicazione della legge italiana.
5. Soggettività del trust: Analisi Cass., n. 2043/2017
Istituendo il trust, i beni escono dal patrimonio del disponente e confluiscono in un patrimonio distinto anche da quello personale del trustee, sebbene da questi gestito. È distinto anche dal patrimonio del beneficiario che non può disporne. Il patrimonio vincolato tramite il trust non può subire l’influenza di vicende personali né del disponente, né del trustee, né dei beneficiari. Il problema da risolvere per dare il senso di tutta l’analisi è se il trust abbia o meno una soggettività giuridica all’interno del nostro ordinamento; ovverosia, possa configurarsi come il titolare stesso del centro di imputazioni di situazioni giuridiche, in questo caso, a caratura patrimoniale.
Per rispondere a tale interrogativo, nel presente lavoro, è stato seguito il metodo induttivo, tramite l’analisi della sentenza della Corte di Cassazione n. 2043/2017. Tale pronuncia è stata originata dal ricorso di un creditore procedente il quale, a seguito della chiusura anticipata della procedura esecutiva, fondata sul rilievo dell’inesistenza giuridica del soggetto nei cui confronti il pignoramento era stato eseguito, impugna tale sentenza per i motivi, opportunamente raggruppati nell’ordine seguente: la sufficienza della motivazione sui motivi di opposizione; la legittimità di un rilievo ufficioso; dell’inesistenza del soggetto della procedura esecutiva; la soggettività giuridica del trust; la validità della trascrizione dell’atto istitutivo del trust.
In altri termini, Tizio aveva concesso ipoteca a garanzia dei debiti contratti dalla società XY SRL, in favore del banco popolare società cooperativa, in forza di mutuo fondiario del 19 gennaio 2001, sui beni immobili, il quale aveva poi con successivo atto in data 11 giugno 2010, trascritto il 17 giugno 2010, conferito in un trust denominato Trust “GJMA”, in cui l’elemento di transnazionalità era la trust Jersey law del 23 marzo 1984, nominando trustee se medesimo: trust c.d. autodichiarato. Risolto il mutuo per inadempimento della mutuataria, il creditore ipotecario aveva dato inizio alla procedura esecutiva, notificando titolo esecutivo e precetto, per un ammontare di euro 301.344,42, ai sensi dell’articolo 603 del c.p.c., alla società debitrice principale ed al Tizio quale terzo datore di ipoteca il 10 settembre 2012, per poi pignorare quei beni con atto notificato tra il 24 settembre 2012 e il 3 gennaio 2013, trascritto alla conservatoria dei RR.II. di Reggio Emilia il 14 gennaio 2013. Peraltro, il giudice della relativa procedura esecutiva con ordinanza del 25 marzo 2013 rilevò d’ufficio l’improcedibilità della stessa delibando come inopponibili le note di trascrizione del pignoramento e dell’atto istitutivo del trust per l’inesistenza del soggetto nei cui confronti la procedura era stata instaurata: dovendo, secondo quanto emergeva dalle notificazioni del precetto, identificarsi nel trust. Il creditore procedente propose opposizione ai sensi dell’art. 617 c.p.c. con ricorso il 14 aprile 2013, dolendosi: dell’ufficiosità del rilievo; dell’identificazione del soggetto in concreto esecutato; dell’esclusione di soggettività del trust anche solo ai fini dell’assoggettabilità ad azione esecutiva. Incardinato il giudizio di merito, questo è stato definito con sentenza resa ai sensi dell’art. 281 sexies del c.p.c. all’udienza del 25 febbraio 2014 (sentenza n. 307/2014) rigettando l’opposizione. Perciò, data la natura non impugnabile della sentenza, il ricorrente propone ricorso per cassazione.
Per quanto riguarda il primo gruppo di censure, la Corte ha rilevato come l’insufficienza della motivazione, nel caso di specie, non venga in rilievo. I motivi di tale conclusione sono da ricercare nell’art. 187 disp. att. c.p.c., e nei principi generali che governano il chiesto e pronunciato. Infatti, seguendo il ragionamento della Corte, il giudice può decidere di pronunciarsi sugli elementi decisiva, ai sensi dell’art. 275 c.p.c., in grado di dirimere e soddisfare l’interesse del giudicabile, fermo restando l’obbligo per il giudice di motivare, ex art. 111 Cost. La Corte, continua, afferma che ciò è in linea con il giusto processo di cui all’art. 6 CEDU, secondo l’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, sulla decisività degli argomenti volti a dirimere la lite[29].
Per quanto riguarda il secondo rilievo dei vizi afferenti alla sentenza impugnata a riguardo dei poteri ufficiosi del giudice dell’esecuzione, non può negarsi il dovere del giudice stesso sulla verifica dell’imprescindibilità dei presupposti dell’azione e delle condizioni in senso stretto della stessa, quali esistenza del diritto, legittimazione ad causam sia attiva che passiva. Tali presupposti, in senso lato, sono necessari ancor di più nel processo esecutivo, poiché l’effetto pregiudizievole nei confronti dell’esecutato raggiunge livelli afflittivi rilevanti, per tale motivo l’articolo 484 c.p.c., al primo comma dispone che l’espropriazione è diretta dal giudice. Secondo la tesi Pugliattiana del processo come sforzo combinato delle parti in posizioni di uguaglianza volta alla ricerca della verità processuale, compito istituzionale del giudice è proprio quello di attuare il giusto processo. Risulterebbe viziato quel procedimento instaurato senza la possibilità di rendere effettivo il contraddittorio ex art. 111 Cost[30].
La mancanza ab origine, ovvero sopravvenuta in fieri, presenza di tutti i presupposti del processo non consente a quest’ultimo di iniziare, proseguire o raggiungere i suoi scopi istituzionali e va chiuso anticipatamente, a prescindere di ogni previsione normativa ad hoc[31]. In merito al primo motivo di ricorso, quindi, il giudice dell’esecuzione ha adempiuto al suo dovere di direzione ex art. 484 c.p.c. tratto, dalla conclusione dell’inesistenza del soggetto esecutato, con la drammatica conseguenza della improseguibilità del processo esecutivo. Questa premessa consente di affrontare il terzo motivo di ricorso in ordine alla natura del trust. Il trust è costantemente definito, non già come ente dotato di personalità giuridica, ma quale massa di beni e rapporti destinati ad un fine determinato, nell’interesse di uno più beneficiari formalmente intestati al trustee. Infatti, secondo la Suprema Corte, necessario in tal senso il richiamo all’art. 2 della Convenzione dell’Aja del 1 luglio del 1985, resa esecutivo in Italia con la legge n.364/1989 secondo cui i beni in trust costituiscono una massa distinta e non sono parte del patrimonio del trustee aggiungendo ai sensi del § 3, che i beni in trust sono intestati al trustee o ad un altro soggetto per conto del trustee; inoltre, quest’ultimo, ai sensi del § 3 lett. c, è investito del potere ed onerato dell’obbligo di amministrare, gestire e disporre dei beni in conformità delle disposizioni del trust.
Inoltre, ai sensi dell’articolo 11 della medesima convenzione, un trust istituito in conformità della convenzione in oggetto sarà riconosciuto come trust: in questo caso e a seguito delle argomentazioni svolte nel cap.4, retro, e secondo l’orientamento maggioritario sarebbe più in linea da intendersi come obbligo del giudice del foro di applicare la legge straniera. Ma, nonostante il riconoscimento, da leggersi nei termini ut supra, si impone ai sensi del § 2 dell’articolo 11, che il trustee abbia la capacità di agire ed essere convenuto in giudizio, di agire davanti a notai o ad altre persone che rappresentino un’autorità pubblica e che i beni in trust: a) rimangano distinti dal patrimonio personale del trustee; b) siano segregati intendendosi con ciò posizioni soggettive le quali appartengono ad un soggetto, ma rimangono distinte e non si confondono con le vicende obbligatorie generali: quest’ultimo sintagma, nel nostro ordinamento è riconosciuto come regola generale dal principio c.d. di confusione di cui all’articolo 2740 c.c.; c) non rientrano nel regime matrimoniale o nella successione
del trustee. Inoltre, su tal via si pone l’articolo 12 della presente convenzione, secondo cui è il trustee che desidera registrare beni mobili o immobili a richiedere l’iscrizione nella sua qualità di trustee. Con ciò, si ricava indirettamente che verrà rilevata l’esistenza del trust, ma non, direttamente l’iscrizione «entificata» dello stesso. Potrebbe indurre in tentazione una traduzione sbagliata dell’articolo 11 della convenzione, nel costrutto lemmatico, «trust property», da non tradurre, non come beni di proprietà del trust ma, come beni in trust. Nel caso di specie, pertanto va escluso che possa ritenersi in alcun modo secondo le norme sopra menzionate, il trust quale titolare di diritti e tanto meno destinatario di un pignoramento che abbia ad oggetto i beni medesimi. Di conseguenza ed in linea con la convenzione, l’unica persona di riferimento con i terzi, in iure proprio e non iure rappresentationis, è il trustee[32]. In virtù di ciò, l’effetto del trust è quello di istituire un patrimonio ad un fine prestabilito e non quello di dare vita ad un autonomo soggetto di diritto. Soggettività giuridica non si riconosce al trust neppure a prescindere dalla personalità in senso stretto.
Tale conclusione consente di spostare il campo di indagine alla soggettività giuridica e alla personalità giuridica. Per il perseguimento di finalità che trascendono le possibilità dei singoli o che in forma collettiva garantiscano una realizzazione con maggiore efficacia, ovvero in funzione delle quali si intende destinare un determinato patrimonio, gli individui possono costituire degli enti e esercitare situazioni giuridiche soggettive per mezzo delle persone fisiche, alle quali è attribuito il potere-dovere di realizzare attività in nome e per conto e nell’interesse dell’organizzazione. Sic est l’ente giuridico[33]. Quest’ultimo ha sia la capacità giuridica e sia la capacità d’agire. La loro soggettività non può essere equiparata a quella delle persone fisiche, si tratta per lo più di soggettività in senso traslato. La natura delle persone giuridiche può essere controversa e su tal via si rinvia alle due opinioni che si contendono il campo: ovvero sia la teoria della c.d. finzione e della c.d. realtà. L’autonomia patrimoniale e cioè la separazione del patrimonio dell’ente, da quello di coloro che fanno parte dello stesso o che lo hanno promosso, si ripercuote in varia misura sul disposto dell’articolo 2740 c.c. Tale autonomia patrimoniale è perfetta per gli enti che hanno la personalità giuridica, mentre gli enti che non hanno la personalità giuridica sono, invece, caratterizzata da una autonomia patrimoniale imperfetta, la quale seppur determinando una separazione dei patrimoni in senso relativo, si atteggia in vario modo: il riferimento è agli articoli 38 ss. c.c. La personalità giuridica, però, si acquista con diverse modalità. Le società di capitali la conseguono in maniera automatica con l’iscrizione nel registro delle imprese: c.d. sistema normativo. Le associazioni, le fondazioni e le altre istituzioni di carattere privato, acquistano la personalità mediante il riconoscimento determinato dall’iscrizione nel registro delle persone giuridiche: sistema c.d. concessorio[34]. La personalità giuridica non è attributiva della soggettività. Questa si consegue con la semplice creazione della organizzazione, secondo gli schemi tipici previsti dalla legge, quale entità portatrice di interessi specifici propri, distinta, anche sotto il profilo patrimoniale, da coloro che l’hanno costituita o che vi partecipano. Una ricostruzione costituzionalmente orientata della soggettività impone la lettura della stessa alla luce del principio di uguaglianza. Generale pertanto può definirsi il principio di imputazione delle situazioni soggettive a tali organismi, indipendentemente dal riconoscimento della personalità giuridica
Sebbene la personalità giuridica riguardi l’aspetto formale e sostanziale dell’autonomia patrimoniale di enti riconosciuti ex lege ed avviene secondo l’apposita normativa del libro I, titolo II, del capo I, e del libro V del codice civile, ciò non può farsi in riferimento al trust per i seguenti motivi: per l’ontologica diversità delle fattispecie codicistiche rispetto al trust che mantiene ferma la titolarità dei beni e dei rapporti in capo al trustee, fondando in capo al beneficiario diritti assimilabili a diritti relativi nei confronti del trustee, dando luogo ad una massa segregato del patrimonio del trustee. Ulteriore divergenza con le fattispecie codicistiche è il sicuro addentellato normativo di queste ultime nei confronti del trust. Ciò consente di ancorare la manifestazione negoziale delle parti, con l’effetto di una «soggettivizzazione» ad una facoltà espressamente ed univocamente concessa dalla legge. Il trust, nonostante la legge di ratifica ed esecuzione n. 364/1989 che ha ratificato la convenzione dell’Aja sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento del 1° luglio 1985, non abbia valore di disciplina sostanziale, bensì quale legge volta a prevenire conflitti c.d. diritto internazionale privato. Concludendo sul punto, il trust non ha soggettività giuridica né tanto meno personalità giuridica. Pertanto, ritornando alla sentenza in oggetto non erra la decisione del giudice dell’esecuzione, nell’escludere la riferibilità degli atti del processo esecutivo al trustee, iure proprio e non in virtù del rapporto di rappresentanza tipico degli enti ut supra. Depone inequivocabilmente in tal senso il fatto che l’atto di pignoramento sia stato notificato al trust, in persona del trustee, e che la trascrizione del gravame sia stata eseguita contro Trust, in persona del trustee. Pertanto, non è controvertibile che il soggetto contro il quale l’esecuzione è stata promossa, è il trust, non già il trustee, così facendo errando nell’individuazione sia del soggetto titolare, nonché, entificando il trust arbitrariamente[35].
A nulla rileva, invero, che la normativa fiscale di cui all’articolo 73 Testo Unico Imposte sui redditi, novellato dalla L. 296/2006, attribuisca al trust una soggettività passiva ai fini dell’Ires, atteso che detta normativa fiscale non ha incidenza sugli aspetti civilistici dell’istituto, che restano regolati dalle disposizioni codicistiche o da leggi speciali.
Dal punto di vista del diritto civile, quindi, il trust costituisce un patrimonio separato: in altre parole esso è privo di soggettività giuridica. Il Trust non è un ente, non è un soggetto di diritto. Il fondo in trust fa capo alla titolarità del Trustee, senza che al trust si ricolleghi l’attribuzione di una autonoma personalità e soggettività.
L’ultimo punto preso di mira dalla ricorrente era fondato sull’omessa pronunzia sulla validità delle formalità di pubblicità del trust e del suo pignoramento.
Sul punto la Corte di Cassazione applica l’articolo 384, comma 6, c.p.c. nella parte in cui prevede che le sentenze erroneamente motivate in diritto quando il dispositivo sia conforme al diritto limitandosi a correggere la motivazione. Il problema che la cassazione non affronta è quello relativo alla trascrivibilità del trust. Invero il ricorrente si era limitato a riproporre la tesi della preclusione in sede esecutiva di ogni controllo sulla validità o meno, delle dette formalità del loro riferimento al trust ciò per supportare la propria tesi difensiva in quanto, la notificazione del precetto e la nota di trascrizione del pignoramento avevano fatto seguito ad una interpretazione, a nostro avviso errata, del principio di continuità delle trascrizioni di cui all’articolo 2650 c.c. La cassazione si era limitata soltanto ad affermare che non spetta ai giudici del processo esecutivo o della successiva opposizione ex art. 617 c.p.c. la cognizione della controversia in via principale. In via dirimente osserva la cassazione, poteva ben prescindersi sul rilievo della carenza di una condizione esecutiva dell’azione.
Al concetto di legittimazione processuale si sovrappone quello di capacità processuale ossia di capacità di stare in giudizio. L’art. 75, comma 1, c.p.c., prevede che sono capaci di stare in giudizio le persone che hanno il libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere. La capacità di stare in giudizio e la legittimazione al diritto fatto valere ben possono appartenere a soggetti diversi, da ciò il concetto giuridico della rappresentanza. L’incapace, ad esempio, è pur sempre il titolare del diritto fatto valere, ma non può farlo valere autonomamente ed in prima persona, bensì solo a mezzo di un suo rappresentante (art. 75, comma 2, c.p.c.). Parimenti accade per le persone giuridiche che, pur titolari del diritto, possono farlo valere solo per mezzo di chi le rappresenta a norma della legge o dello statuto (art. 75, comma 3, c.p.c.).
Su tal via può tentarsi una ricostruzione dell’istituto del trust, senza pretese di inconfutabilità logica. Secondo i giudici dell’esecuzione, l’articolo 2 della convenzione dell’Aja detta una definizione di trust come «amorfo», secondo quanto afferma Lupoi, identificandolo in un rapporto giuridico e che i beni in trust costituiscono una massa distinta e non sono parte del patrimonio del trustee. Il giudice dell’esecuzione erra nell’affermare «negli ordinamenti di common law il trustee è proprietario dei beni che compongono il trust fund” in quanto il common law e il civil law divergono in merito alla prospettiva della proprietà. Il trust “GJMA” era disciplinato dalla legge Jersey la quale all’articolo 2 recita: «un trust esiste quando un soggetto detenga o sia intestatario oppure sia ritenuto di avere la detenzione o ritenuto di essere intestatario dei beni che costituiscono il trust fund». Ciò non implica che il trust costituisca un centro autonomo di diritti e obblighi. Con riferimento al trust autorevole studioso afferma che nel nostro ordinamento la difficoltà di concepire un patrimonio senza un soggetto non si verifica nel diritto dei trusts, perché il titolare del fondo in trust esiste: è il trustee[36]. Lo stesso autore osserva[37]: «il concetto in sé di patrimonio destinato a … , porta ad essere propensi, erroneamente, parlare di trust con la t maiuscola, come se questo fosse una qual sorta di entità giuridicamente rilevante, ma il fulcro dell’istituto è il trustee il quale è l’unico soggetto che legittimamente dispone del diritto oggetto della contrattazione. Il trust di per sé non è e non può essere in alcun modo un autonomo centro di imputazione di diritti e interessi legittimi. Il trust si manifesta in diritto come un rapporto di appartenenza segregato rispetto agli altri che fanno capo al medesimo soggetto. Sulla stessa linea si pone un’altra pronuncia della Suprema Corte di Cassazione del 22 dicembre 2011, n. 28366, in cui respinge con fermezza la tesi secondo cui la separazione patrimoniale, derivante dal conferimento nel trust, determinerebbe la creazione di due soggetti distinti. Ora è evidente che gli elementi essenziali del pignoramento di cui agli articoli 492 e 555 c.p.c. non possono essere rivolti a detto trust.
Il giudice dell’esecuzione affronta, obiter dictum, la validità dell’atto istitutivo del trust con le relative trascrizioni. Ciò impone una breve riflessione sull’istituto della trascrizione. La trascrizione è quell’istituto giuridico volto ad attribuire, nella maggior parte dei casi, la pubblicità a fatti, atti, negozi giuridici o provvedimenti dell’autorità giudiziaria, permettendo un’adeguata informazione ai terzi[38]. La pubblicità in oggetto è particolarmente rilevante ai fini della sicurezza dei traffici e del commercio. In particolare, tutela la regolare attuazione dei contratti, dell’affidamento dei soggetti, della buona fede dell’acquirente, fungendo come risolutrice dei conflitti. La pubblicità dei fatti giuridici può svolgere funzioni diverse: una pubblicità notizia con funzione meramente informativa; pubblicità dichiarativa con funzione di rendere opponibile ai terzi il fatto in oggetto; pubblicità costitutiva quando l’iscrizione di un fatto è requisito necessario per la produzione dell’effetto.
Il sistema italiano della trascrizione immobiliare deriva da quello francese e, come quello, ha natura dichiarativa e base personale: gli atti devono essere trascritti sotto il cognome e nome delle persone interessate, non secondo una elencazione dei beni.
Tale sistema è fondato sul principio della continuità: «nei casi in cui un atto di acquisto è soggetto a trascrizione, le successive trascrizioni o iscrizioni a carico dell’acquirente non producono effetto se non è stato trascritto l’atto anteriore di acquisto». In altri termini, gli acquisti devono risultare come maglie di una stessa catena, il cui inizio è un acquisto da un dante causa a titolo originario per usucapione.
Gli atti che si devono rendere pubblici con il mezzo della trascrizione sono quelli previsti dagli artt. 2643 ss., in linea generale, corrispondono agli atti che richiedono la forma scritta ad sustantiam. Invero, la tassatività va riferita più, non agli atti, quanto piuttosto agli effetti che l’atto da trascrivere produce.
Per i fini che qui interessano si colloca la trascrizione degli atti ex art. 2645 ter, che consente l’opponibilità della separazione patrimoniale prodotta dalla destinazione, vale a dire la riserva del bene all’esclusivo soddisfacimento delle ragioni creditorie che hanno fonte nell’attività realizzativa della destinazione. In difetto di tale trascrizione, i creditori c.d. di scopo non possono escludere dal concorso gli altri creditori del destinante[39].
La trascrizione dell’atto istitutivo del trust viene qui in rilievo per la circostanza che le difese della ricorrente affermavano la continuità tra quanto contenuto nell’atto trascritto e la notifica del precetto e della trascrizione dell’atto di pignoramento.
La mancanza di una valida trascrizione del pignoramento ha determinato l’estinzione (atipica) del processo esecutivo: infatti, «la trascrizione è l’elemento necessario per consentire al pignoramento immobiliare di esplicare tutti i suoi effetti, per cui non si può dare seguito ad una istanza di vendita proposta rispetto ad un bene immobile per il quale sia venuto meno il requisito della trascrizione del pignoramento»[40].
La difesa della creditrice procedente ha prodotto la nota di trascrizione dell’atto istitutivo di trust dalla quale risulta che l’acquisto è avvenuto in favore del “Trust GIMA” e contro Gualtieri Antonio” asserendo che, essendo stata così eseguita la pubblicità dell’atto di provenienza, inevitabilmente la trascrizione del pignoramento doveva essere compiuta nello stesso modo. Tutto ciò si fonda su una diversa lettura del 2650 c.c, del c.d. principio di continuità della trascrizione.
Se è vero che le disposizioni codicistiche non comminano la sanzione di nullità per ogni irregolarità o errore od omissione di contenuto nelle note, ciò impone comunque un bilanciamento tra le ipotesi di irregolarità e la ratio della trascrizione. Infatti, ai sensi dell’art. 2665 c.c., “L’omissione o l’inesattezza di alcuna delle indicazioni richieste nelle note menzionate negli articoli 2659 e 2660 non nuoce alla validità della trascrizione, eccetto che induca incertezza sulle persone, sul bene o sul rapporto giuridico a cui si riferisce l’atto o, rispettivamente, la sentenza o la domanda.” (analoga disposizione si rinviene, con riguardo alla nota di iscrizione, nell’art. 2841 c.c.). La norma in oggetto è particolare perché contiene una formulazione «in negativo»: in altri termini, parafrasando, non ogni inesattezza rende invalida la nota di trascrizione, ma soltanto quelle che determinano gravi incertezze, tali da inficiarne gli elementi essenziali. Ad avviso del Giudice dell’esecuzione, entrambe le note al suo vaglio inducevano incertezza sul soggetto “a favore” del quale è stato effettuato il negozio di dotazione del trust e sul soggetto “contro” il quale è stato preso il pignoramento: essendo inesistente tale soggetto, è palese che le note producono dubbi e indeterminatezze sul titolare dei beni, comportando quindi nullità. In virtù di tale drastica conclusione, il principio di continuità delle trascrizioni espresso dall’art. 2650 c.c. non appare invocabile nel caso di specie: lo stesso presuppone che le note presentate ai RR. II. siano valide. Nel caso in oggetto, le note di trascrizione del pignoramento e dell’atto istitutivo del trust appaiono, ad avviso del giudice dell’esecuzione, invalide e, come tali, inopponibili.
Il giudice dell’esecuzione affronta, inoltre, su suggerimento della ricorrente l’unica pronuncia sulla trascrizione del trust contro del trust. Il Tribunale di Torino, con decreto del 10/2/2011, ha accolto il reclamo avverso il Conservatore dei RR.II. ammettendo la trascrizione dell’atto istitutivo di trust (rectius, del negozio di dotazione) in favore del trust stesso. Per il giudice dell’esecuzione la decisione desta varie perplessità e non è condivisibile, nei termini a seguito.
Nella motivazione, il Tribunale di Torino da atto che l’esecuzione della formalità pubblicità (“contro il disponente e a favore del trust”) “non presuppone la soggettività del trust” e, a sostegno della propria tesi, adduce esempi di altre trascrizioni compiute in favore di “non soggetti” (segnatamente in favore di condomini o di fondi immobiliari chiusi ex art. 36 T.U.F.). Partendo dal dato normativo, occorre constatare che l’art. 2659 c.c. prescrive che la nota di trascrizione deve indicare le generalità delle persone fisiche, delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni (anche se prive di personalità giuridica) alle quali si riferisce l’atto; la soluzione ermeneutica fornita, invece, dalla Suprema Corte tende ad un’interpretazione estensiva della norma, ma richiede comunque «la soggettività giuridica, vale a dire la configurabilità di un autonomo soggetto nell’ordinamento giuridico e sul piano sostanziale e su quello processuale»[41] e, nel caso del trust, tale soggettività difetta totalmente (per quanto già ampiamente esposto).
Non appare calzante il riferimento al condominio. Se è vero che il condominio non è una sovrastruttura tra i proprietari delle singole unità condominiali, tuttavia allo stesso deve riconoscersi soggettività giuridica, quantomeno come “ente” (seppure “di – sola – gestione”): un condominio è un «ente di gestione privo di personalità giuridica, ma fornito di soggettività distinta da quella dei singoli condomini[42]». Neanche il richiamo della pronuncia ai fondi ex art. 36 T.U.F., come esempio di “non soggetti” che sono però legittimati ad ottenere trascrizioni, sembra corretto: difatti, “I fondi comuni d’investimento (nella specie, fondi immobiliare chiusi), disciplinati nel d. lgs. n. 58 del 1998, e succ. mod., sono privi di un’autonoma soggettività giuridica ma costituiscono patrimoni separati della società di gestione del risparmio; pertanto, in caso di acquisto nell’interesse del fondo, l’immobile acquistato deve essere intestato alla società promotrice o di gestione la quale ne ha la titolarità formale ed è legittimata ad agire in giudizio per far accertare i diritti di pertinenza del patrimonio separato in cui il fondo si sostanzia”70.
La soluzione offerta dalla citata pronuncia del Tribunale torinese è tesa, a ben vedere, alla risoluzione di problemi pratici: presenta il vantaggio di non richiedere una nuova trascrizione nel caso di sostituzione del trustee di un trust nel cui fondo sono compresi beni immobili; in tal caso, infatti, è sufficiente l’annotazione dell’originaria trascrizione.
Quanto alla nota di trascrizione dell’atto dell’11/6/2010, istitutivo del Trust GJMA, la stessa merita brevi cenni, proprio perché la parte creditrice ha ritenuto di adeguarsi ad essa anche per la redazione dell’atto di pignoramento e della propria nota di trascrizione del pignoramento; deve però ribadirsi che non è questa la sede per verificare la sua validità. È evidente che al vincolo di trust debba essere dato rilievo: conformemente al disposto dell’art. 12 della Convenzione de L’Aja, la giurisprudenza italiana ha ripetutamente ritenuto che la qualità di trustee può (anzi, deve) essere resa nota nei RR.II.
Sono state impiegate diverse modalità per adattare la pubblicità immobiliare del nostro ordinamento ad un istituto “importato” (peraltro, le soluzioni dipendono dalla concreta tipologia del trust e dalla natura dell’atto da trascrivere). Tuttavia, nel caso del trust c.d. autodichiarato (come quello istituito da Gualtieri Antonio), proprio i profili di analogia con il fondo patrimoniale hanno condotto a un’applicazione (anche giurisprudenziale) delle modalità prescritte dall’art. 2647 c.c. e, cioè, mediante una trascrizione e “contro il” e “a favore del” disponente-trustee, risultando così inequivocabilmente la costituzione del vincolo.
Nel caso del trust “autodichiarato”[43] convergono nella medesima persona la qualità di settlor e la qualità di trustee non si produce evidentemente alcun effetto traslativo del diritto, ossia non c’è alcuna “nuova” intestazione da pubblicizzare. Solo la
“segregazione” del bene dovrà essere resa opponibile ai terzi. Qui sì che il parallelo con la costituzione del fondo patrimoniale calza in pieno; si dovrà trascrivere la costituzione del vincolo. La dottrina notarile precisa che in questo caso c’è solo l’imposizione del vincolo senza effetti traslativi e dovrà, quindi, eseguirsi la sola trascrizione ex art. 2647 c.c. a carico del disponente che si fa trustee. Nello spazio riservato alla descrizione della nota, si scriverà “Istituzione di vincolo di trust”, nel quadro riservato ai soggetti dovrà essere indicato solo come soggetto “contro” il trustee con le sue generalità, in conformità al disposto dell’art. 2659 cod. civ., senza ulteriori qualificazioni. Nel quadro “D” potranno essere inseriti, come già detto, tutti gli elementi che si ritengono necessari od opportuni per una compiuta pubblicità immobiliare.”
Non può non sottacersi come nel 2013, il giudice dell’esecuzione constatava come “constano a questo Giudice solo tre provvedimenti giurisprudenziali editi (uno dei quali è quello qui impugnato, preceduto in senso difforme da Trib. Torino 10/2/2011 e seguito in senso conforme da Trib. Udine 4/11/2013) in tema di trascrizione del trust”; sottolineando, all’uopo, la novità del thema decidendum.
La conseguenza, da quanto si è esaminato, è la pronuncia di infondatezza del ricorso della cassazione, rigettando tutti e nove i motivi di doglianza.
Un approfondimento sulla legittimazione processuale si impone. Di certo maggiori implicazioni pratiche possono derivare dalla natura personale della legittimazione processuale: la formazione di un titolo giudiziale in capo al Trust X, in persona del proprio legale rappresentante pro tempore, comporterebbe inevitabilmente un titolo non solo nullo, ma addirittura giuridicamente inesistente in quanto reso nei confronti di un soggetto, “Il Trust X” inesistente, con inevitabili ed imprevedibili conseguenze stante l’assoluta rilevabilità di tale vizio da parte di chiunque vi abbia interesse e l’ampia possibilità che tale categoria sia numerosa (qualsiasi trustee anche a seguito di successione nell’ufficio, qualsiasi beneficiari cui diritti siano in qualche modo lesi etc…); ancor prima, anche solo la notifica al “Trust X, in persona del proprio legale rappresentante protempore” potrebbe risolversi in un grave vizio, qualora non altrimenti sanato, capace di invalidare i successivi atti e provvedimenti a questa correlati;
Sul far del crepuscolo, si impone la conclusione del presente lavoro che consente di affermare, seppur da quanto esiguamente analizzato, come il trust debba essere scritto e trascritto “con la T minuscola”, essendo privo di soggettività giuridica e personalità giuridica, restando soltanto, una “massa di rapporti patrimoniali attribuibili al trustee. Trustee, invece, con lettera, obbligatoriamente, maiuscola.
6. Trust vs Istituti italiani di diritto civile
Quanto supra esposto, consente una seppur breve analisi comparativa con gli istituti nostrani del diritto civile.
6.1. Trust e negozio fiduciario[44]
Un primo istituto con cui il trust presenta forti analogie è il negozio fiduciario. Con il negozio fiduciario il fiduciante trasferisce al fiduciario la proprietà di un bene, imponendogli, con apposito pactum fiduciae, l’obbligo di trasferirgli in un futuro il diritto o di trasferirlo ad un terzo o di farne uso secondo le direttive impartite. L’effetto reale, rilevante per i terzi, è limitato nei rapporti interni da un patto obbligatorio che compensa e corregge il trasferimento della proprietà rispetto a un fine non traslativo perseguito è un’ipotesi di dissociazione tra proprietà formale dei beni e proprietà sostanziale. Una peculiare combinazione di effetti reali e obbligatori41. Se il fiduciario viola il patto, trasferendo a terzi, il fiduciante non può recuperare il bene, in quanto l’atto di disposizione ha solo valore obbligatorio ed è inopponibile ai terzi: può soltanto ottenere il risarcimento del danno. A questo modello di fiducia c.d. romanistica si contrappone lo schema della c.d. fiducia germanica che comporta l’attribuzione al fiduciante di una sorta di legittimazione a far valere la propria posizione nei confronti dei terzi[45]: tipico, invece, nel trust. È proprio questa ultima caratteristica a decretare l’inammissibilità di omogeneità tra gli istituti. La regola decisiva in base a cui nel trust il bene affidato ad un terzo e affidatogli con destinazione di scopo, a differenza di quanto accade nel negozio fiduciario, non entra a far parte del suo patrimonio con la conseguenza che solo nell’istituto di matrice anglosassone la posizione del beneficiario è pienamente tutelata. Inoltre, questi ultimi possono opporre i loro diritti a qualunque terzo[46]: c.d. tracing right. Invece, tale diritto non compete al fiduciante che rischia di non recuperare i beni per la difficoltà di esplicare effetti opponibili ai terzi di un patto obbligatorio[47].
6.2. Trust vs contratto a favore di terzo[48]
Sul piano meramente fattuale, elementi di assonanza possono essere rintracciati nell’imputazione ad un terzo degli effetti derivanti dal trust. Infatti, con il contratto a favore di terzi, gli stipulanti, negoziando a nome proprio, si accordano affinché altra persona riceva gli effetti benevoli dei diritti derivanti dal contratto. Salvo patto contrario, il terzo acquista il diritto autonomo rispetto a quello dello stipulante. L’effetto in favore del terzo si verifica senza che occorre la sua accettazione; la dichiarazione di voler profittare è diretta ad impedire la revoca da parte dello stipulante[49]. Nonostante l’esistenza della somiglianza, la comparazione tra i due modelli non sembra garantire il raggiungimento di approdi sicuri. Nel trust manca l’elemento della necessaria accettazione del terzo ai fini della irrevocabilità, atteso che tale fattore non costituisce elemento strutturale dell’istituto. La differenza si pone sotto due profili: l’inesistenza in capo al promittente del potere gestorio[50]; l’effetto della segregazione patrimoniale, mancante nel contratto a favore del terzo è essenziale per la configurazione del trust giacché il diritto spettante al terzo nei confronti del promittente fa parte del patrimonio di quest’ ultimo. Come conseguenza ne deriva che la consonanza degli istituti risulta insoddisfacente.
6.3. Trust vs mandato
Il potere gestorio che compete al trustee porta alla comparazione con il contratto di mandato. Il contratto di mandato è il contratto con il quale una parte definita mandatario, si obbliga a compiere uno o più atti giuridici in nome o nell’interesse del mandante. Il mandato si caratterizza per la circostanza che il mandatario svolge una attività di gestione nell’interesse del mandante ed è riconducibile alla categoria dei contratti caratterizzati da un rapporto fiduciario.
Il potere gestorio, quale elemento comune dell’obbligo di fare per conto di altri si differenzia: nell’imputazione degli effetti ad un terzo; nel regime di segregazione patrimoniale dei beni in trust che coinvolge tutta la massa dei rapporti patrimoniali conferiti nel trust fund e non solo particolari categorie di beni, quali beni mobili. In tale ultimo caso può essere considerata una eccezione alla regola generale del mandato senza rappresentanza ex art. 1707 c.c. Nel trust, invece, il tratto della separazione patrimoniale è la regola e involge tutti i beni in trust.
6.4. Trust vs fondo patrimoniale
La regola cardine nel trust quale l’effetto di segregazione patrimoniale potrebbe essere assimilato al fondo patrimoniale, ex art. 167 c.c.
Tale comparazione risulta congruente con il trust atteso che esso è stato utilizzato nell’ambito delle disposizioni familiari, consentendo l’utilizzo in modo alternativo a strumenti comuni quali il testamento e la sostituzione fedecommissaria. L’intrinseca caratterizzazione del fondo patrimoniale quale istituto di pianificazione familiare e strumento di gestione patrimoniale familiare, riduce lo spettro applicativo del trust cogliendone solo una manifestazione[51].
6.5. Trust vs atti di destinazione patrimoniale
Il contrasto sull’ammissibilità o meno del trust interno, ha trovato nuovo spazio a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 2645 ter c.c., introdotto dal decreto-legge 273/2005. Quest’ultima disposizione consente per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, la destinazione di beni immobili o mobili iscritti in pubblici registri, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni o ad altri enti ovvero persone fisiche, previo controllo di cui all’art. 1322, comma 2 c.c.
La disposizione de qua sancisce: limiti massimi temporali dell’atto di destinazione; la possibilità di indicare i soggetti titolari del potere gestorio; sancisce limiti e condizioni di espropriabilità dei beni stessi e dei relativi frutti. Come autorevolmente sostenuto, si è esitato a riconoscere nella disposizione in oggetto l’omologa figura interna della regolamentazione dei trust interni. Seppure tra i due istituti è rintracciabile una consonanza relativa all’effetto segregativo e la tutela di un terzo beneficiario, rilevanti sono le differenze[52]. In particolare, non può essere sottaciuta come il nuovo istituto non faccia alcun riferimento che devono informare la gestione dei beni. Ciò segna, secondo quanto autorevolmente sostenuto[53] un solco incolmabile con la disciplina del trust. Ulteriore differenza è la divergenza tra i beni oggetto del negozio di destinazione. L’art. 2645 ter menziona beni immobili e mobili registrati ma anche i frutti che successivamente siano stati prodotti dai beni precedenti. Vi è da chiedersi se l’esplicita presa di posizione del legislatore sia colmabile in riferimento ai beni mobili non registrati. Stando alla lettera della disposizione questi ultimi restano esclusi. Ma, innegabile, secondo quanto autorevolmente sostenuto[54], che il fine degli interessi meritevoli di tutela potrebbe essere perseguito anche con riferimento ai beni mobili non registrati. Non può imporsi su tal via, però, lo stravolgimento della disposizione in oggetto andando oltre la vox codicistica. L’unica via che si imporrebbe sarebbe l’intervento del legislatore iure condendo.
Ulteriore divergenza di posizione riguarda la trascrivibilità degli atti di disposizione del 2645 ter e la trascrivibilità del trust in nome proprio. La maggior parte della dottrina tende ad escludere l’omogeneità di fattispecie e, conseguentemente, ad escludere la trascrizione. Interno o straniero che sia il trust, la legittimità della trascrizione potrebbe oggi ritenersi fondata o solo sull’art. 2645 ter che consentirebbe quindi la trascrizione, ovvero anche sull’art. 12 della Convenzione, per cui l’art. 2645ter costituirebbe null’altro che la conferma della trascrivibilità di un trust. In altri termini, l’introduzione della nuova norma, infatti, non consente più di affermare con certezza se la trascrizione del negozio di destinazione di beni contro il trust X, tale è, in definitiva, il trust, sia incompatibile o vietata dall’ordinamento italiano, come testimoniato dalla giurisprudenza[55].
L’introduzione dell’art. 2645 ter fa sorgere inoltre, con riguardo al trust c.d. interno, altri problemi. Anzitutto se i requisiti formali, quale atto in forma pubblica e di durata massima di 90 anni o la vita della persona fisica beneficiaria previsti da tale norma debbano essere o meno soddisfatti da un trust avente ad oggetto i beni indicati dall’art. 2645 ter. In secondo luogo, se si tratti di requisiti richiesti ai soli fini della trascrizione ovvero ai fini della stessa validità. Le ambiguità derivano dalla traduzione del testo. Il punto di fondo, sul quale la discussione è ancora agli inizi, è se l’art. 2645 ter possa o meno considerarsi come nuova norma interna imperativa ex art. 15 della Convenzione stessa, e quindi come norma non derogabile da un trust.
Se si seguisse la tesi secondo cui è ammissibile anche il trust interno, occorrerebbe concludere nel senso che se la fattispecie è priva di collegamento con un ordinamento straniero è ora possibile dar vita, alternativamente, ad un negozio di destinazione regolato dal diritto straniero, il trust ovvero dal diritto italiano, il negozio di destinazione ex art. 2645 ter[56]. Ma tale tesi, risulta, ad oggi minoritaria.
[1] v. WATSON A., Legal Transplants: an approach to comparative law, Edinburgo, 1974, pp. 95. L’A. conia la nozione di trapianto giuridico per indicare il processo di circolazione dei modelli giuridici. Egli, infatti, sostiene che «i trapianti sono la fonte più fertile di sviluppo legislativo. La maggioranza dei cambiamenti, nella maggioranza dei contesti, è il prodotto di prestiti da diversi ordinamenti giuridici». Cfr., in Italia, PORTALE G., Lezioni di diritto privato comparato, Giappichelli, Torino, 2001, p. 14, il quale, per esemplificare il concetto di trapianto giuridico, cita proprio il trust come esempio di trapianto effettuato.
[2] v. PERLINGIERI P., Manuale di diritto Civile, Ed. scientifiche italiane, Napoli, 2014, pp. 630 ss.
[3] v. HAYTON D., Modern international developments in trust law, 1992, secondo cui la struttura di base del trust è sempre la stessa e che ciò che si modifica sono solo le regole per utilizzarla.
[4] v. DE FRANCHIS F., Dizionario giuridico, Milano, 1996, pp. 1446 ss., per una prima definizione dei concetti di title e legal interest. Secondo l’A. il primo termine è particolarmente ambiguo. Infatti, non indica se è il titolare di un diritto, per conto proprio o altrui, ma che in ogni caso non si identifica con un proprietario in senso assoluto poiché tale forma giuridica “romanistica-germanica” nel mondo britannico di common law non è così realizzata. Devono, intendersi secondo l’A., ad una situazione giuridica dal contenuto indefinito riconosciuta e tutelata: dal common law per il primo; per il secondo, dalla Corte del Cancelliere.
[5] v. MAITLAND F. W., Equity, Cambridge, 1936, pp. 106 ss.
[6] v. LUPOI M., op. cit.
[7] Cfr., per una completa ed esaustiva analisi del common law, ASCHERI M., Introduzione Storica del Diritto Medievale e moderno, Vol II, Giappichelli, Torino, 2008.
[8] v. NEWMAN R., Equity in the world’s legal Sistems, Edimburgo, 1974. L’A. afferma che la funzione rivestita dall’equity è analoga a quella riscontrabile nell’aequitas romana, considerato che quest’ultima era la correzione dello ius civile.
[9] v. “equity follows the law”, MAITLAND F. W., op. cit., pp. 106 ss., cristallizza l’interpretazione della massima riportata, secondo cui l’equity segue il common law, nel senso che imita e non segue, fondandosi sulle regole proprie di quest’ultimo, tipico della cultura giuridica fondata sul precedente giurisprudenziale.
[10] cit., LUPOI M., Trusts, Giuffrè, Milano, 2001, p. 31.
[11] Cit, ALPA G., BONEL M.J., VORAPI D., MOCCIA L., ZENO ZENCOVICH V., ZOPPINI A., diritto privato comparato, Laterza, Bari, 2013, p. 87.
[12] v. HAYTON D., op. cit., p. 23 e GAZZONI F., In Italia tutto è permesso, anche quel che è vietato (lettera aperta a Maurizio Lupoi sul trust e su altre bagattelle), in riv. not., 2001, pp. 1247 ss., i quali identificano la caratteristica essenziale del trust nell’effettivo effetto segregativo.
[13] v., ex multis: Trib. Lucca 23 settembre 1997., lo ammette, in autonomia rispetto alla sostituzione fedecommissaria, nella disciplina delle successioni; Calò, 1996, pp. 101 ss.
[14] v. Gambaro, 1999, pp. 458 ss., sostiene, in merito alle funzioni dell’istituto, la forma al plurale a seconda degli schemi diversificati in merito agli scopi concretamente perseguiti. LUPOI M., op. cit., pp. 500 ss.
[15] cit., BARBUTO M., La convenzione dell’Aja e il trust in Italia, in www.associazioneavvocati.it, p.1.
[16] cfr. BARBUTO M.; Trib. Reggio Emilia 22 giugno 2012; Trib. Belluno, 25 settembre 2002; Trib. Santa Maria Capua Vetere 17 luglio 1999.
[17] cit. LUPOI M., op. cit., per la l’epifania di tale sintagma.
[18] Per la tesi contraria ai trusts interni cfr. per tutti in dottrina CONTALDI L., Il trust nel diritto internazionale privato italiano, Milano, 2001, p. 123 ss.; GAZZONI F., op. cit.; CASTRONOVO C., «Il trust e “sostiene Lupoi”», in Eur. e dir. privato, 1998, p. 441 ss.; in giurisprudenza Trib. Belluno (decr.) 25 settembre 2002, in TAF, 2003, p. 255; Trib. S. Maria Capua Vetere (decr.) 14 luglio 1999, in TAF, 2000, p. 51; Trib. Napoli (decr.) 1° ottobre 2003, in TAF, 2004, p. 74; App. Napoli (decr.) 27 maggio 2004, in TAF, 2004, p. 570.
[19] cfr. artt. 627 e 1372 c.c.
[20] art. 1376 c.c.
[21] art. 1173 c.c.
[22] art. 2740 c.c.
[23]cfr. artt. 2643-2645 c.c.
[24] cfr. per tutti in dottrina LUPOI M., op. cit., Milano 2001, spec. p. 533 ss.; BARTOLI S., Il trust, Milano, 2001, p. 597 e ss., 603 e ss.; in giurisprudenza Trib. Milano (decr.) 27 dicembre 1996, in Società, 1997, p. 585; Trib. Genova (decr.) 24 marzo 1997, in Giur. comm., 1998, II, p. 759; Trib. Chieti (decr.) 10 marzo 2000, in TAF, 2000, p. 372; Trib. Bologna (decr.) 18 aprile 2000, in TAF, 2000, p. 372; Pret. Roma (ord.) 13 aprile 1999 e Trib. Roma (ord.) 2 luglio 1999, in TAF, 2000, p. 83; Trib. Pisa (decr.) 22 dicembre 2001, in TAF, 2002, p. 241; Trib. Milano (decr.) 29 ottobre 2002, in TAF, 2003, p. 270; Trib. Verona (decr.) 8 gennaio 2003, in TAF, 2003, p. 409; Trib. Bologna (decr.) 16 giugno 2003, in TAF, 2003, p. 580; Trib. Parma (decr.) 21 ottobre 2003, in TAF, 2004, p. 73; Trib. Firenze (decr.) 23 ottobre 2002 e Trib. Firenze (decr.) 23 ottobre 2002, in TAF, 2003, p. 406; Trib. Roma-Sez. fall-Giudice Delegato (decr.) 4 aprile 2003, TAF, 2003, p. 411; Trib. Bologna 1° ottobre 2003, TAF, 2004, p. 67; Trib. Roma-Sez. fall. (decr.) 5 marzo 2004, in TAF, 2004, p. 406; Trib. Perugia-Giudice tutelare (decr.) 16 aprile 2002, in TAF, 2002, p. 584; Trib. Perugia-Giudice tutelare (decr.) 26 giugno 2001, in TAF, 2002, p. 52; Trib. Bologna (decr.) 3 dicembre 2003, in TAF, 2004, p. 254; Trib. Firenze-Giudice tutelare (decr.) 8 aprile 2004, in TAF, 2004, p. 567; Trib. Milano (decr.) 8 marzo 2005, in TAF, 2005, p. 585; Trib. Trento-sez. dist. di Cles (decr.) 7 aprile 2005, in TAF, 2005, p. 406; Trib. Firenze 2 luglio 2005, in TAF, 2006, p. 89; Trib.Trieste (decr.) 23 settembre 2005, in Corr. mer., 2005, p. 1277 e in TAF, 2006, p. 83; Trib. Pordenone (decr.) 23 novembre 2005, in TAF, 2006.
[25] Di recente Trib. Reggio Emilia, decr. 7-22/6/2012, giudice Est. G. Fanticini, che accoglie in toto la tesi del trust interno soggetto a legge straniera, dimenticando, appunto, che si tratta di una tesi, vale a dire di un’opinione dottrinale e non, invece, di un’interpretazione autentica di norme vigenti; Cfr., tra le altre, Trib. Firenze 6 giugno 2002, in TAF, 2004, p. 256; Trib. Torino 9 febbraio 2004, in TAF, 2005, p. 414.
[26] Ci si riferisce in particolare agli strumenti del 2900 ss, c.c. quale azione revocatoria o subingresso legale nelle posizioni debitorie o sequestri.
[27] cfr., Gatt L., Il trust Italiano, in www.fondazionecasale.it, 2013, pp. 3 ss.
[28] cfr. Trib. Brindisi, 28 marzo 2011, cit., percepisce chiaramente la contraddizione logica evidenziata nel testo quando afferma che «non può sottacersi che – quand’anche si voglia ritenere che permanga, anche dopo l’istituzione del patrimonio con vincolo di destinazione, l’assenza di disciplina interna del trust – ai sensi dell’art. 6 Convenzione de L’Aja il trust è regolato dalla legge scelta dal contraente. Legge che, ove si ritenga che il trust non abbia cittadinanza del diritto italiano, non può che essere, per esclusione, quella di altro ordinamento estero. Ma, se così è, sarebbe del tutto contraddittorio un legislatore che, da un lato, non volesse riconoscere la validità del trust interno, e sotto altro profilo, ne prevedesse comunque l’applicazione all’interno dell’ordinamento, mercé riferimento alla legge scelta dal disponente (art. 6). Tali considerazioni consentono allora, a giudizio del decidente, di ritenere senz’altro astrattamente valido, all’interno dell’ordinamento, sia l’istituto generale del trust, e sia, in particolare, quello del trust interno». Già da tempo su questa linea Trib. Velletri, 29 giugno 2005, ord. 38cfr. GATT L., op. cit., p. 9, afferma. Analogamente i progetti di legge concepiti per rendere l’Italia un Paese-trust, allo stato silenti e giacenti presso le Commissioni parlamentari, non hanno mai pensato di utilizzare il termine trust bensì quello di fiducia, contratto fiduciario e simili (sebbene ciò sia, a nostro avviso, un errore foriero di conseguenze negative anche sul piano internazionale). 39 PERLINGIERI P., op. cit., pp. 588 ss.
[29] Corte EDU, Ruiz Torija vs. Spagna; Corte Edu Tata Marinho Dos Santos Ccosta Alves Dos Santos e Figuereido vs Portogallo.
[30] Tribunale Reggio Emilia sent. 307/2014. Secondo cui, è ben vero che alcuni elementi di invalidità possono essere sanati in assenza di una tempestiva opposizione agli atti nel termine decadenziale di cui all’articolo 617 c.p.c., e non possono quindi costituire oggetto di rilievo ufficioso; tuttavia, è altrettanto vero che esistono vizi rilevabili d’ufficio, o perché ciò è previsto dalla legge (tra gli altri, cfr. art. 37 L. 183/2010), o perché lo impongono princìpi di tutela del debitore (cfr. ad esempio Cass. n. 6548/2011 in tema di impignorabilità parziale dei trattamenti pensionistici), o perché si tratta di irregolarità particolarmente gravi (per tutte, cfr. Cass. n. 6264/2012 e Cass. n. 4652/2008 in tema di nullità dell’atto di pignoramento immobiliare privo della sottoscrizione del difensore), o perché difetta una condizione dell’azione esecutiva (in questi termini Cass. n. 535/2012), o perché il vizio è talmente grave da rendere l’atto del tutto inidoneo allo scopo per cui è prescritto (così Cass. Sez. Un. n. 11178/1995, Cass. n. 190/2001, Cass. n. 8239/2003 e Cass. n. 2473/2009).
[31] v. Cass., n. 11638/2014; Cass., n. 6833/2015; Cass., ord., n. 9501/2016
[32] v. Cass., n. 3456/2015, Cass., n. 25478/2015.
[33] v. PERLINGIERI P., op. cit., pp. 158 ss.
[34] Idem.
[35] Così come diffusamente ricordato dal G.E., tale conclusione trova precisi riscontri letterali e sistematici sia nell’articolo 2 della convenzione de L’Aja 1/7/1985, resa esecutiva in Italia con la L. n. 364/1989, sia nella giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 28363/2011, Cass. n. 16605/2010), sia nella giurisprudenza di merito (cfr. Trib. Udine 4/11/2013 e Trib. Voghera ord. 25/2/2010.
[36] MONEGAT M., LEPORE G., VALAS I., Trust. Aspetti sostanziali ed applicazioni nel diritto di famiglia e delle persone, Giappichelli, Torino, 2007, pp. 77 ss.
[37] VALAS I., La responsabilità del trustee che contratta con i terzi, la sua successione e le controversie giudiziarie, in Trust & Att. Fiduciarie, 2006, 4, p. 549.
[38]v. PERLINGIERI P., op. cit., pp. 878 ss.
[39] Idem.
[40] v. Cass., n. 17367/2011
[41] v. Cass., n. 8239/2000.
[42] Cass., n. 20483/2004. 70 Cass., n. 16605/2010.
[43] v. BUSANI A., il trust autodichiarato, in www.notaiobusani.it
[44] Sulle affinità tra i due istituti si v. CASTRONOVO C., op. cit., pp. 1323 ss.; DI CIOMMO F., Brevi note in tema di azione revocatoria, “trust”, e negozio fiduciario, in Foro it., 1999, p. 1470. v. PERLINGIERI P., op. cit., pp. 536 ss.
[45] Idem.
[46] v. RAGAZZINI L., trust interno ed ordinamento giuridico italiano, in Riv. not., 1999, pp. 279 ss.
[47] cfr. Trib. Casale Monferrato, decr. 13 aprile 1984, ha equiparato il trustee al fiduciario di diritto civile.
[48] GAZZONI F., op. cit., pp. 1250 ss., secondo l’A. il codice offre come strumenti contrattuali in grado di realizzare i medesimi effetti del trust, per le vicende mortis causa, un contratto a favore di terzi con prestazione post mortem e rinunzia al potere di revoca e, per quelle inter vivos, traccia un solco incolmabile tra i due istituti.
[49] v. PERLINGIERI P., op. cit., pp. 612 ss.
[50] cfr. BIANCA C.M., se il terzo a favore del quale sia stato stipulato il contratto possa avvalersi della clausola compromissoria contenuta nel contratto medesimo, in Rass. Dir. civ., 1988, pp. 1923 ss. 48 v., per il raffronto tra gli istituti oggetto di comparazione, MORELLO U., fiducia e trust, due esperienze a confronto, Milano, 1990; DI CIOMMO F., Per una teoria negoziale del “trust” (ovvero perché non possiamo farne a meno), in Corr. giur., 1999, p. 774. 49 v. PERLINGIERI P., op. cit., pp. 723 ss.
[51] v. CENNI M.L., Trust e fondo patrimoniale, in Trusts ed attività fiduciaria, 2001, pp. 523 ss.
[52] Trib. Di Trieste, ha negato qualsiasi affinità tra il negozio di destinazione ed il trust. Secondo quest’ultimo l’art. 2645 ter non introduce affatto nel nostro ordinamento un nuovo negozio di destinazione, ma soltanto un particolare tipo di effetto negoziale, accessorio rispetto agli altri effetti di un negozio tipico o atipico. La norma in questione, a dire dei giudici di Trieste, non conterrebbe alcun indice da cui desumere l’avvenuta creazione di una nuova figura negoziale, non essendo chiara né la natura unilaterale ovvero bilaterale, né il carattere oneroso o gratuito, né la presenza di effetti traslativi o obbligatori.
[53] cfr. LUPOI M., Gli “atti” di destinazione nel nuovo art. 2645 ter c.c. quale frammento di trust, in Trusts ed attività fiduciarie, 2006, pp. 169 ss.
[54] v. Manes P., La norma sulla trascrizione degli atti di destinazione è, dunque, norma sugli effetti, in contr. e impr,, 2006, pp. 626 ss.
[55] Cfr. Trib. di Trieste e Trib. Udine 4/11/2013 che non ammettono la trascrivibilità; Trib. Velletri, 29 giugno 2005, e Trib. Torino 10/2/2011, invece, ammettono la trascrivibilità.
[56] v. LUPOI M., op. cit., il quale sostiene tale tesi e GATT. L., op. cit., che sulla stessa linea di Lupoi se ne differenzia ammettendo il superamento delle limitazioni al trust interno, applicando il diritto italiano secondo il disposto degli artt. 1322 ss., c.c.
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Vincenzo Mario
Laureato in giurisprudenza presso l'università della Calabria con votazione di 110 e Lode e tesi in diritto processuale civile dal titolo "il principio di autosufficienza nel ricorso per cassazione civile".
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