Tutela giurisdizionale dell’espropriazione e profili privatistici di tutela
Il termine espropriazione nel suo significato etimologico sta ad indicare la sottrazione del diritto di proprietà; nel linguaggio corrente l’ablazione della proprietà da parte di una pubblica autorità (F.G. Scoca).
In uno Stato di diritto, qual’è il nostro ordinamento, tale previsione è giustificabile solo se improntata ai principi di legalità e di riserva di legge. Il diritto del privato di disporre, godere, di usare e di lasciare in eredità i propri beni è garantito dall’art. 42, comma 3, Cost. ed è suscettibile di limitazione solo in presenza di necessarie finalità di interesse pubblico disciplinate quanto a modalità e formalità dalla legge.
Tali principi integrano anche lo statuto di garanzie riservato al diritto di proprietà dall’ordinamento europeo (art. 17 par. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue e art. 1 del primo protocollo addizionale della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), con la sostanziale differenza che, mentre la Costituzione disciplina il diritto di proprietà nel Titolo III concernente i rapporti economici, l’ordinamento europeo eleva tale diritto tra i diritti fondamentali della persona, con ripercussioni diverse nella tutela giurisdizionale in sede di risarcimento del danno.
Nel nostro ordinamento sono riconoscibili diverse tipologie di espropriazione disposte dal legislatore (espropriazioni ope legis) quali la confisca in materia penale, l’espropriazione satisfattoria del creditore (art. 2740 c.c. e disciplinata dall’art. 483 c.p.c. e ss.), ovvero l’espropriazione disposta con provvedimento amministrativo per fini di pubblica utilità. Secondo l’opinione giurisprudenziale e dottrinale dominante, è a quest’ultima tipologia di espropriazione, già nella legge n. 2359 del 1865, la tutela costituzionale dettata dall’art. 42, comma 3, Cost. si riferisce. Infatti l’effetto traslativo del diritto di proprietà o di altro diritto reale relativo a beni immobili può operare solo in forza di un provvedimento ablatorio disposto da una autorità i cui poteri gli vengono conferiti dalle leggi amministrative ed esclusivamente per fini di pubblica utilità.
L’espropriazione con provvedimento amministrativo è disciplinata dal D.P.R. n. 327 del 2001 (t.u. delle espropriazioni), il cui art. 8 prevede i provvedimenti prodromi al decreto di esproprio. In particolare, il procedimento espropriativo è articolato in tre fasi di cui una eventuale; in primo luogo, quella del provvedimento di apposizione del vincolo che preordina il bene all’espropriazione; in secondo luogo quella del provvedimento di pubblica utilità; in terzo luogo quella della determinazione dell’indennità provvisoria di espropriazione. Occorre precisare, peraltro, che quest’ultima fase è solo eventuale in quanto la P.A., nei casi previsti dall’art. 22, può decretare l’espropriazione contestualmente e immediatamente alla determinazione dell’indennità provvisoria.
Tali provvedimenti sono legati, come afferma la dottrina, da un rapporto di dipendenza diacronica, sicché l’inutile decorrenza dei termini di efficacia del provvedimento della fase precedente inficia l’intero procedimento espropriativo comportando l’inefficacia ovvero l’illegittimità del provvedimento conclusivo. La tutela giurisdizionale accordata al privato nei casi di inefficacia e di illegittimità di tali provvedimenti è pacificamente, con interpretazione letterale dell’art. 133 c.p.a., quella esclusiva affidata al g.a.
Tuttavia, la dottrina opera un distinguo tra i diversi tipi di provvedimenti che connotano il procedimento espropriativo, prendendo in considerazione, per quanto concerne il provvedimento appositivo del vincolo, l’art. 12, comma 3, definito eccezionale, laddove prevede che la decorrenza dei termini di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità può essere sospesa per un tempo indeterminato in attesa dell’apposizione del vincolo che, quindi, non deve essere necessariamente predisposto ex ante, ma che risulta sempre necessario.
A proposito del provvedimento espropriativo (decreto di esproprio) viene affermato che quest’ultimo risulta doppiamente condizionato, ai sensi dell’art. 23, comma 1, lett. f), alla notificazione al privato ed alla esecuzione dello stesso, che avviene ex art. 24 con il verbale di immissione nel possesso redatto dalla P.A. nel termine perentorio di due anni.
La dottrina è contrastante in punto di tali due presupposti tra chi ritiene che siano elementi essenziali di efficacia del decreto di esproprio e chi li considera, invece, semplici condicio iuris, mentre è unanime nel ritenere che la scelta del privato di accettare o meno l’indennità provvisoria di esproprio sia irrilevante ai fini di una sua opposizione, richiamando la figura affine nel diritto privato dell’art. 2932 c.c., con la sostituzione al giudice ordinario, che accerti la non conclusione del contratto, una forma di autotutela della pubblica amministrazione. Peraltro, l’istituto della retrocessione (totale o parziale con diversa disciplina) prevede la possibilità del privato di chiedere al g.a. la decadenza di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità trascorsi dieci anni, ovvero anche precedentemente in caso di impossibilità di realizzazione dell’opera, senza che il decreto di esproprio sia stato reso esecutivo.
Problemi interpretativi sono stati, inoltre, messi in luce dalla dottrina riguardo al disposto di cui al comma 7 dell’art. 24 che prevede la possibilità per la P.A., nel caso di decadenza dell’efficacia del decreto espropriativo di poter emanare un nuovo provvedimento che dichiari la pubblica utilità, là dove si è autorevolmente affermato che l’inutile decorrenza dei termini di efficacia del decreto di esproprio possa inficiare solo quest’ultimo e non già la dichiarazione di pubblica utilità.
Il procedimento così delineato, inoltre, può seguire un altro corso nel caso in cui il privato manifesti la propria volontà di esercitare il suo diritto, riconosciutogli dall’art. 45, alla cessione volontaria del bene. Trattasi di fattispecie in cui l’effetto traslativo del diritto di proprietà (o altro diritto oggetto di espropriazione) si produce non già in forza di un provvedimento amministrativo, bensì per un atto bilaterale, per cui, stante il riconoscimento di un diritto soggettivo in capo all’espropriando, al trasferimento del bene corrisponde l’obbligo della P.A. o del privato beneficiario dell’espropriazione di addivenire alla stipula dell’atto di cessione (rectius del negozio di cessione come qualificato dalla giurisprudenza).
Quanto alla natura di tale atto, alcuni Autori ritengono che esso configurerebbe un contratto (traslativo) a prestazioni corrispettive che si connoterebbe, nella quantificazione dell’ammontare della controprestazione di pagamento di una somma di denaro, nel requisito dell’eterogeneità ex art. 1339 c.c. Secondo altri si sarebbe in presenza di un accordo sostitutivo di provvedimento ex art. 11 della L. n. 90/241.
D’altro verso, da un punto di vista strettamente processuale, si è osservato che mentre l’art. 113, comma 1, lett. g), c.p.a. attribuisce al g.a. le controversie relative ad atti, comportamenti e accordi disciplinati dal D.P.R. n. 327 del 2001, l’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, prevede l’attribuzione in via esclusiva al g.a. degli accordi ex art. 11 della L. n. 90/241, sicché la qualificazione dell’atto di cessione volontaria quale accordo sostitutivo di provvedimento renderebbe l’art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, privo di senso.
Bisogna rilevare, inoltre, che qualsiasi soluzione sia data alla natura dell’atto di cessione volontaria, quale contratto a prestazioni corrispettive, ovvero accordo ex art. 11 della L. n. 90/241, in entrambe le ipotesi il disposto dell’art. 45, comma 3, in applicazione combinata con la norma dell’art. 1453 c.c. (considerata norma materiale di applicazione generale), mal si concilierebbe con tali qualificazioni giuridiche. Sicché, come affermato da Autorevole dottrina, deve dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 45, comma 3, del D.P.R. n. 327 del 2001, là dove non prevede la possibilità del privato di richiedere la risoluzione per grave inadempimento della P.A. che non ha pagato nel termine concordato dalle parti.
In ambito di tutela giurisdizionale, fuori dal caso di espropriazione disposta con provvedimento amministrativo, la giurisprudenza e la dottrina hanno riconosciuto l’ammissibilità della c.d. “espropriazione indiretta” (CSU 83/1464). È tale l’espropriazione che avviene non con un provvedimento amministrativo, ma per un fatto materiale che comporta la trasformazione irreversibile del bene nella realtà giuridica a scopo di uso pubblico (C. 11/313).
La giurisprudenza è solita riconoscere due specie di espropriazione indiretta; quella usurpativa, che si ha in difetto di atto ablativo e quella occupativa, che si configura in caso di caducazione giudiziale o vizio procedimentale. In caso di espropriazione indiretta la pubblica autorità acquista il possesso del bene dietro ristoro a titolo di indennità al privato, che viene liquidato in via forfetaria.
Alla luce della giurisprudenza CEDU (Akkalus c. Turchia del 1999 e Lallement c. Francia del 2002) il ristoro per il privato andrebbe liquidato in via equitativa. Peraltro, secondo i giudici comunitari, la previsione della c.d. espropriazione indiretta violerebbe un diritto personale della persona al rispetto dei propri beni.
Una parte della dottrina ha ritenuto, invece, ammissibile tale figura di espropriazione giacché questa si giustificherebbe sulla base dell’art. 940 c.c. quale acquisto a titolo originario per specificazione della pubblica amministrazione del diritto di proprietà. Altri hanno contestato tale tesi osservando che l’art. 940 c.c. opererebbe solo su beni mobili e prescinderebbe da considerazioni di interesse generale tipici dell’attività amministrativa.
D’altronde già l’Ad. Plen. Gen. nel 2006, n. 2 e, ancor prima, l’Ad. Gen. del 2001, n. 4, si erano pronunciate nel senso che mai la c.d. espropriazione indiretta avrebbe potuto trovare riconoscimento giurisprudenziale. Tuttavia, stante la sua riconosciuta ammissibilità, deve affermarsi la sua configurabilità quale modo di acquisto della proprietà da fatto illecito, con possibile attivazione della tutela aquiliana e risarcimento del danno ex art. 2043 c.c.
Le conseguenze di tali affermazioni sono riscontrabili, particolarmente, in sede di tutela giurisdizionale e di quantificazione dell’indennità provvisoria di esproprio.
Come è noto l’art. 53, comma 2, del D.P.R. n. 327 del 2001, attribuisce la competenza al giudice ordinario “per le controversie riguardanti la determinazione e la corresponsione delle indennità in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa“.
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 5 del 1980, aveva stabilito che in tali casi deve essere riconosciuta al privato una indennità che costituisca un serio e concreto ristoro al pregiudizio patito. L’art. 5-bis del D.L. n. 333 del 1992 stabiliva per le aree edificabili un criterio quantificabile nel 30% del valore venale del bene, mentre per le aree non edificabile ed agricole il criterio del valore medio agricolo.
Tali criteri erano stati ritenuti inizialmente legittimi dalla Corte Cost. (con sentenze del 1993, n. 283 e del 1997, n. 261), in quanto il primo criterio per le aree edificabili era comunque legato al valore venale del bene, mentre il criterio del valore agricolo medio poteva essere ragionevolmente applicato, senza alcuna differenziazione, sia alle aree edificabili che a quelle agricole.
Tuttavia a seguito delle pronunce della CEDU (Pascucci c. Italia del 2005 e Giacobbe c. Italia del 2005) nel quale è stato stabilito che l’indennità ovvero il ristoro per il privato deve essere commisurato sul valore effettivo del bene e sulla sua concreta utilizzazione da parte del proprietario, anche a seguito della pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis (sentenza n. 348 del 2007), il legislatore ha novellato tale disciplina introducendo due commi nuovi nell’art. 37 del t.u. delle espropriazioni. Peraltro, a seguito della dichiarata incostituzionalità dell’art. 40, resta al legislatore colmare la lacuna per quanto riguarda le aree non edificabili e quelle agricole.
Da ultimo, va rilevato nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale odierno il recente tema relativo al riparto di giurisdizione in caso di rinunzia al diritto dominicale del privato. In tale caso, ammesso in ambito civilistico, i beni ex art. 827 c.c. passerebbero in proprietà allo Stato; mentre per quanto concerne la competenza della tutela giurisdizionale è pacifica quella in via esclusiva del g.a.
Fonti:
F.G. SCOCA, Diritto Amministrativo, 2017.
F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, 2017.
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Enrico Sericola
Laureato in Giurisprudenza cum laude presso l'Alma Mater Studiorum di Bologna. Tirocinante ex art. 73 D.L. 69/2013 presso il Tribunale di Milano. Specializzando presso la Sspl "E. Redenti" di Bologna.
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