Un classico contemporaneo: la norma penale in bianco e la droga

Un classico contemporaneo: la norma penale in bianco e la droga

Sommario: 1. Premessa – 2. L’integrazione ministeriale delle tabelle indicanti sostanze stupefacenti o psicotrope: il caso della cannabis – 3. Questioni di diritto intertemporale nella logica del favor rei – 4. Considerazioni conclusive

1. Premessa

Il diritto penale, secondo opinione consolidata dell’intera civiltà giuridica, si manifesta come l’arma più tagliente dell’intero ordinamento giuridico, capace di incidere in maniera limitante, su quei valori intangibili di ogni individuo, universalmente riconosciuti e garantiti, che si traducono in diritti inviolabili dell’uomo, di cui la libertà personale, come eminentemente disciplinato dai Padri Costituenti ex art. 13 Cost., rappresenta il vertice e la base da cui non si può prescindere.

Questa breve premessa, oltre la retorica, risulta, in realtà, necessaria alla luce della delicata tematica che ci si accinge ad affrontare, tenendo conto dei riflessi condizionanti, in maniera decisamente ampia già affrontati da dottrina e giurisprudenza, incidenti su uno tra i capisaldi del diritto penale: il principio di legalità.

Perché la sanzione penale, potenzialmente restrittiva della libertà personale dei consociati, venga riconosciuta legittima, dovrà essere adottata in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso ( cfr. art. 25 co. 2, Cost.). Lo Stesso Codice Rocco, in maniera ancor più chiara e puntuale all’art. 1, sin dal 1930, rende edotto il lettore su come nessuno possa essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite. La indubbia rilevanza di tale principio emerge, altresì, se si riflette sulla funzione di prevenzione generale della pena, la quale potrà distogliere gli individui a porre in essere condotte penalmente rilevanti, operando per ciò come deterrente psicologico, a condizione che questi possano essere a conoscenza, prima, di ciò a cui l’ordinamento fa conseguire l’irrogazione di una sanzione penale (nullam poena, nullum crimen sine lege).

Proseguendo l’esposizione in tale traiettoria, non va omesso di sottolineare come irrinunciabile corollario al principio di legalità è il c.d. principio della riserva di legge, secondo il quale una fattispecie delittuosa non potrà che essere configurata in tutti i suoi elementi, se non in forza di una legge e non, quindi, da atti normativi secondari. A questo punto si entra nel vivo del problema quando ci si interroga sulla consistenza di tale principio, in particolare se la riserva di legge debba (o possa) essere assoluta o relativa, se si possa cioè consentire ad atti normativi secondari (regolamenti ad esempio, ma anche decreti ministeriali), di integrare, concorrendo con la legge, alla creazione della fattispecie penale.

Per i sostenitori della riserva di legge assoluta ammettere che, ad esempio un regolamento, contribuisca, in qualsiasi misura, alla formazione di una norma penale, comporterebbe una inammissibile ingerenza, a scapito delle esigenze di garanzia della comunità sociale.

In realtà, appare più ragionevole sposare la tesi – accolta dalla stessa Consulta, con Sent. n. 26/1966– della vigenza di una riserva di legge relativa, da intendersi, però, con le dovute cautele e precisazioni, adoperate dalla stessa Corte Costituzionale, per sciogliere gli innumerevoli dubbi che, tutt’ora, accompagnano la delicatissima questione. Infatti è possibile salvaguardare il principio di legalità, purché sia la stessa legge dello Stato a dar forma alla normativa penale, con sufficiente specificazione dei caratteri, del contenuto e dei limiti dei provvedimenti dell’autorità non legislativa. Si ammette per ciò, un apporto integrativo regolamentare limitato ad accertamenti tecnici, che puntualizzi le scelte politiche, senza recare nessun mutamento in substantiam, alla normativa nel suo complesso, la quale deve rimaner demandata al patrio legislatore, come lo stesso precetto (il comportamento vietato), deve essere formulato dalla legge. Ed è in questo senso, coerentemente, che la Corte Costituzionale con sent. 168/1971, ha ritenuto legittime le c.d. norme penali in bianco, norme nelle quali la sanzione è prevista dalla legge, mentre il precetto è formulato in modo generico, sì da dover essere integrato da fonti normative di grado inferiore.

Dato conto di questa impostazione teorica, di cui si accolgono le analitiche riflessioni poste alla base del responso (riserva relativa di legge), appare doveroso completare il quadro espositivo, vista la evidente contingenza del tema, menzionando la posizione dell’orientamento prevalente a riguardo della operatività, in ambito penale, di leggi in senso materiale, cioè il decreto legislativo (art. 76 Cost.) e il decreto legge (art. 77, Cost.). Infatti, la tutela delle minoranze parlamentari, viene assicurata dalla legge di delega, per il decreto legislativo, mentre per il decreto legge sarà la legge di conversione a dar voce, a quelle fazioni politiche in campo, che pur rappresentando minoranze, sono comunque espressione di valori democratici e liberali.

2. L’integrazione ministeriale delle tabelle indicanti sostanze stupefacenti o psicotrope: il caso della cannabis

Un paradigmatico esempio della necessità di adoperare concretamente siffatte teoriche, è l’art. 73 del T. U. 9/10/1990, n. 309, che individua come reato e punisce gravemente, il traffico e la detenzione di stupefacenti. Nel suddetto articolo, non sono indicate le sostanze il cui traffico è vietato, ma si rinvia genericamente a tabelle stilate dal Ministero della Salute, integrate di anno in anno. In tal caso, come è evidente, il precetto penale trova una integrazione necessaria attraverso un atto amministrativo governativo. In particolare, se si osservano le più attuali riforme in tema di traffico e detenzione di sostanze stupefacenti, si palesa in modo chiaro, come in tale settore, risulti irrinunciabile, l’ausilio dello strumento giuridico regolamentare, o meglio, decretale. Si osservi come siano proprio due decreti ministeriali (cfr. D.M. 4/08/06; D.M. 11/04/06), – integrati sino alla nota Sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 12 febbraio 2014[1], nonché successivamente all’entrata in vigore del Decreto legge 20 marzo 2014, n. 36, apportante modifiche al Testo unico sugli stupefacenti, ad aver modificato sensibilmente, operando direttamente sui limiti quantitativi massimi di principio attivo contenuti in una sostanza stupefacente, la soglia di punibilità di quei soggetti che siano in possesso della sostanza psicotropa cannabis.

Nello specifico, con il decreto del Ministro della Salute 4 agosto 2006, si è provveduto a rideterminare “in alto” la quantità massima detenibile della cannabis. Tecnicamente, si era intervenuti sul «moltiplicatore variabile» della «dose media singola» (che era passato da 20 a 40), sicché il quantitativo massimo della sostanza detenibile, oltrepassato il quale poteva ritenersi sussistente la presunzione che si trattasse di sostanza «destinata ad un uso non esclusivamente personale», era stato determinato in mg 1.000,00 mentre nel testo originario del decreto ministeriale dell’11 aprile 2006 era fissato in mg 500.

Tuttavia, in seguito all’annullamento da parte del T.A.R. Lazio, sez. III quater, sentenza 21/03/2007 n° 2487[2], di siffatto decreto di modifica, ha ripreso valore il Decreto ministeriale dell’11 Aprile 2006, per la determinazione dei limiti quantitativi massimi riferibili ad un uso esclusivamente personale delle varie sostanze stupefacenti, ivi compresi l’hashish e la marijuana.

3. Questioni di diritto intertemporale nella logica del favor rei

Premesso che il momento da prendere in considerazione, per la commissione di un reato, ai fini della successione delle leggi penali nel tempo (tempus commissi delicti), sia quello della condotta, (piuttosto che del verificarsi dell’evento), tenuto conto che è in tal momento che il soggetto, nella vigenza di una determinata legge, si pone contra ius, va precisato, in maniera esaustiva, quale sia l’intero ambito di operatività dell’art. 2 c.p., vista la connessione argomentativa, riscontrabile con i temi precedentemente trattati.

Appare opportuno, in tal guisa, partire dalle ovvie considerazioni desumibili dal primo comma dell’art. 2 c.p., che tratta la c.d. «nuova incriminazione», nel senso che quest’ultima cade per via della vigenza del principio di irretroattività della legge penale, come sancito dal secondo comma dell’art. 25 Cost.. Tuttavia, è nel comma secondo dell’art. 2 c.p., che è più importante soffermarsi, alla luce delle problematiche a cui si tenta di dare soluzione con questo elaborato. Infatti, il legislatore del 1930, nel sancire che: «nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali», intende dar forma alla c.d. abolitio criminis, cui si applica il principio della retroattività della legge favorevole. La logica di tale istituto è quella della inutilità di perseverare a punire l’autore per un fatto che l’ordinamento giuridico non ritiene più antisociale. Per la stessa ragione, oltre alla condanna e alla esecuzione della pena, in caso di abolitio criminis, vengono meno tutte le situazioni capaci di limitare o precludere facoltà o benefici del condannato.

Allo stesso modo, secondo l’opinione dominante di dottrina e giurisprudenza, il medesimo meccanismo più su descritto, vige anche nell’ipotesi in cui la norma che viene abolita non sia una norma penale, ma sia una norma non penale integratrice di una norma penale in bianco.

Il comma terzo dell’art. 2 c.p., oltre ad essere la disposizione che più interessa analizzare, avuto riguardo del tema trattato, è quello che sedimenta nell’ordinamento giuridico penale la logica del favor rei, statuendo che «se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia pronunciata sentenza irrevocabile».

Il principio perseguito è molto semplice in questa norma: chi ha commesso il fatto integrante una determinata fattispecie delittuosa, deve essere salvaguardato da possibili ingerenze della Pubblica Autorità, che peggiori le misure sanzionatorie nei riguardi di determinate categorie di soggetti, o anche di singoli individui. Prima di applicare qualsiasi meccanismo dotato di più o meno raffinato tecnicismo giuridico, in relazione alla successione delle leggi nel tempo, il legislatore in maniera assolutamente ragionevole e, quindi, logica, impone agli organi giudicanti ed ai tecnici del diritto, di collocare nella “scaletta dei valori”, al primo posto la persona, l’individuo, che assoggettato ad una condanna rischia di perdere il bene più prezioso che l’ordinamento garantisce a tutti ed ognuno: la Libertà Personale, nonché la Dignità, attraverso l’umiliazione della condanna penale.

Il presupposto su cui si fonda il fenomeno della successione delle leggi modificative, ove la successione, invece di creare o abolire, modifica incriminazioni precedenti, è quindi quello dell’applicazione della legge più favorevole al reo, purché, confrontando le norme succedutesi nel tempo, si individui quella che in concreto, considerando tutte le conseguenze che derivino dal caso specifico, sia rapportabile alla disposizione vigente in materia. In pratica, la nuova disposizione, laddove sia sfavorevole, dovrà soccombere ad una precedente più favorevole al reo e per ciò non si applicherà retroattivamente al fatto commesso precedentemente (principio di irretroattività); va da se di conseguenza, che, se dal raffronto con la precedente norma risulti essere più favorevole l’ultimo intervento legislativo, troverà cittadinanza, invece, la retroattività di quest’ultima, appunto perché, l’intero sistema giuridico penale, come più volte è stato manifestato, è teso alla logica del favor rei.

Tuttavia, perché quanto più su descritto possa mostrarsi concretamente, deve potersi rintracciare, evidentemente, un rapporto di continenza, fra le norme che si presuppongono riconducibili al caso di specie. Cioè, fra due fattispecie si avrà modificazione quando la nuova legge penale contempli una fattispecie di portata più specifica rispetto a quella precedente, sicché, in mancanza della norma successiva, quel fatto sarebbe rientrante nella norma precedente. Per una definizione conclusiva di tale complessa materia, appare opportuno dar conto del criterio interpretativo, che le Sezioni Unite della Cassazione (sent. 16/06/2003, n.25887), hanno fornito: «perché sia applicabile la regola del terzo comma dell’art. 2 c.p., occorre che il fatto costituente reato secondo la legge precedente sia tuttora punibile secondo la nuova legge», e ritenendo, per ciò, non punibili «i fatti commessi in precedenza e rimasti fuori dal perimetro della fattispecie».

Ai fini di una esaustiva esposizione interpretativa della norma oggetto di analisi, vanno menzionate le altre disposizioni, contenute negli ultimi due commi dell’art. 2 c.p. In particolare, il penultimo comma, si riferisce alle leggi eccezionali e temporanee, a cui non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti. In effetti, in questi casi si applica esclusivamente la legge in vigore al tempo in cui è stato commesso il fatto (tempus regis actum), ciò al fine di evitare che leggi entrate in vigore appositamente al fine di far fronte a circostanze eccezionali o contingenti, possano essere messe alla berlina, specialmente per i fatti commessi nell’imminenza dello scadere del termine o verso l’esaurirsi della situazione eccezionale.

Per finire, l’ultimo comma disciplina la materia, con riguardo al decreto-legge e al decreto-legislativo, sancendo che le disposizioni dell’articolo si applicano altresì ai casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto legge e nel caso di un decreto legge convertito con emendamenti.

V’è da palesare, in tal senso, che la Costituzione Repubblicana, in ottica di innovazione rispetto l’ordinamento precedente, ha sancito la caducazione retroattiva del decreto-legge non convertito, con la conseguenza di escludere in tali ipotesi la vigenza di una successione di leggi penali nel tempo. Per questo, la Corte Costituzionale, con sent. 19/02/1985, n. 51, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma in esame, «nella parte in cui rende applicabili alle ipotesi da esso previste le disposizioni contenute nel secondo e nel terzo comma dello stesso art. 2 c.p.» Dal tenore della succitata sentenza emerge, tuttavia, che l’impossibilità di applicare retroattivamente il decreto-legge non convertito (il quale contenga disposizioni in favor rei), attiene esclusivamente a fatti pregressi, cioè realizzati antecedentemente all’entrata in vigore dello stesso decreto. Mentre, per i fatti concomitanti, cioè commessi durante il periodo di vigenza del decreto che introduca una disciplina più favorevole al reo, si riconosce, secondo l’orientamento dominante, piena operatività del decreto-legge. Ratio di tale impostazione interpretativa, condivisa, è che diversamente si verificherebbe un’inammissibile violazione dell’art 25, coma 2 Cost., il quale sancisce il principio della irretroattività delle leggi penali più sfavorevoli al reo.

4. Considerazioni conclusive

Esemplificando, se in concreto si verifichi che il Decreto ministeriale dell’11 aprile 2006 (modificante il parametro dei limiti quantitativi massimi riferibili ad uso esclusivamente personale), di cui specificamente si è dato conto nella precedente esposizione, venga seguito da un successivo intervento del Ministero della Salute (come in realtà avvenuto, sino all’annullamento del T.A.R.), che ridetermini il «moltiplicatore variabile» «in ribasso», facendo per ciò conseguire una diminuzione del quantitativo di stupefacente necessario (e sufficiente) per desumere la destinazione non esclusivamente ad uso personale, quindi la penale responsabilità del detentore, dovrà ritenersi operante il decreto precedente, proprio in virtù del generale principio del favor rei, che come ampiamente si è riferito nella precedente esposizione, va oltre il principio generale della irretroattività della legge penale ex art. 25 Cost., postulando una deroga a tale pilastro della scienza penalistica, laddove ciò risulti funzionale alla salvaguardia dei diritti di ogni soggetto sottoposto ad un procedimento penale.

In conclusione, nell’affrontare la delicatissima tematica riguardante la soglia di punibilità di coloro i quali risultino essere detentori, consumatori ed eventualmente (nonché ipoteticamente), “spacciatori” di sostanze psicotrope, la normativa di settore disciplinante i limiti quantitativi massimi di sostanze riferibili ad uso esclusivamente personale, nonché la composizione chimica delle stesse ecc.,dovrà sempre essere letta alla luce di approfondite riflessioni riguardo alle regole che disciplinano la materia delle successioni delle leggi nel tempo ex art. 2 c.p., ma anche  ed in primis 25 Cost..

Senza pretesa di esaustività, in questa sede, si è cercato di fornire al lettore un quadro sintetico e completo, un punto di partenza per affrontare – a seconda della angolazione visuale che interessa – con maggior approfondimento, una materia tanto attuale, che tuttavia implica una consapevole rilettura dei classici fondamenti dell’intero sistema penale.


[1] La Corte ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49” e per l’effetto ripristinato il sistema sanzionatorio collegato agli illeciti relativi alle sostanze stupefacenti e psicotrope suddivise in quattro tabelle (I e III sanzioni maggiori; II e IV sanzioni minori).

[2] Ove, tra l’altro, merita evidenziarsi, veniva ribadito quanto sin qui commentato, ovvero affrontato la tematica del principio della riserva di legge di cui all’art. 25 comma 2° della Costituzione e della dubitata conformità a tale principio del ricorso all’esercizio, in materia di legiferazione penale, della discrezionalità da parte del Governo.


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Avv. Ivano Ragnacci

Avvocato Penalista del Foro di Roma

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