L’applicabilità della disciplina civilistica della concorrenza sleale alle professioni intellettuali
La questione giuridica vede coinvolti due fratelli Tizio e Caio, entrambi liberi professionisti nel medesimo settore, i quali, a seguito di una iniziale collaborazione, decidono di esercitare la medesima professione in modo separato ed indipendente. Tizio, quindi, apre il proprio studio professionale ex novo nella medesima provincia del fratello Caio ma in diversa città.
A distanza di diversi mesi dall’interruzione della collaborazione, Tizio si accorge che inserendo il proprio nome e cognome in un noto motore di ricerca quest’ultimo fornisce ai primi posti il sito internet, i recapiti telefonici e l’indirizzo dell’attività professionale del fratello Caio il quale, nel proprio sito internet – il cui dominio è costituito dal solo cognome comune ad entrambi – menziona il nome di Tizio come precedente collaboratore.
Tizio ha quindi il fondato sospetto che ciò possa indurre in errore la sua clientela e financo determinarne lo sviamento verso lo studio professionale del fratello Caio.
Alla luce di quanto brevemente esposto, è in astratto possibile che la condotta di Caio richiami l’applicazione delle norme poste a tutela della concorrenza sleale ex art. 2598 del codice civile; l’articolo[1], rubricato “atti di concorrenza sleale”, individua come condotta sleale quella posta in essere da chi – con nomi o segni distintivi o altri mezzi – crea confusione sulla titolarità dell’attività.
La disciplina civilistica, tuttavia, si applica solamente agli esercenti attività imprenditoriale, mentre – nella fattispecie in esame – l’attività esercitata dai soggetti concorrenti è di natura intellettuale in regime di libera professione.
La giurisprudenza – ai fini dell’applicazione dell’art. 2598 c.c. – è ferma nel considerare la qualifica di imprenditore commerciale come presupposto soggettivo inderogabile[2]. Anche innanzi a studi professionali con un’organizzazione tale da potersi assimilare ad un’azienda, permane quindi l’inapplicabilità della disciplina del codice civile, in quanto la volontà del legislatore è quella di mantenere una netta separazione tra attività di impresa ed attività dei liberi professionisti.
È vero anche che delle recenti sentenze del T.A.R riconducono tra le attività imprenditoriali anche quelle delle professionali intellettuali[3], ma la giurisprudenza evidenzia ancora l’impossibilità a procedersi ad un’applicazione analogica dell’art. 2598 c.c. alle professioni intellettuali, come anche ribadito dalla dottrina[4], in quanto la disposizione del codice civile presenta natura eccezionale in quanto derogatoria rispetto al principio della libertà di concorrenza sancito dall’art. 41 Cost.
La sede naturale per la risoluzione di conflitti – in essere tra i professionisti intellettuali – parrebbe quindi circoscritta alla tutela deontologica, la quale è preposta non solo alla tutela dei danni morali derivanti dalla concorrenza sleale ma anche alla tutela rispetto a possibili pregiudizi meramente patrimoniali.
Esaminando il codice deontologico applicabile al caso di specie risulta che l’attività esercitata dai fratelli Tizio e Caio debba svolgersi in modo rispettoso, uniformarsi ai principi di solidarietà e collaborazione ed al reciproco rispetto delle competenze tecniche, funzionali ed economiche. In generale, quindi, i rapporti devono essere improntati alla solidarietà tra colleghi in ossequio al cd. spirito di colleganza nascente dell’appartenenza ad una medesima categoria, pena l’erogazione di sanzioni disciplinari.
Ulteriore aspetto che emerge dall’analisi del Codice deontologico è che la pubblicità del professionista non può considerarsi totalmente libera, ma debba essere funzionale all’oggetto dell’informazione, mai equivoca ed ingannevole e, in generale, orientata a fornire informazioni che consentano una scelta libera e consapevole dei servizi professionali. In particolare, inoltre, la pubblicità può riguardare solo ed esclusivamente determinate informazioni come i titoli professionali, l’attività professionale, l’onorario e le caratteristiche del servizio offerto.
Alla luce di quanto previsto dal Codice deontologico applicabile, quindi, la pubblicità informativa di Caio risulta in violazione dei canoni ivi indicati. La scelta libera e consapevole del cliente, infatti, può esplicarsi (se è distinguibile) in termini chiari e precisi solo se la pagina web dell’uno rispetto all’altro possano dirsi assolutamente e chiaramente distinguibili, circostanza che al momento non sembrerebbe aver luogo innanzitutto per colpa dell’uso del solo cognome come segno distintivo dell’attività professionale. La menzione di un professionista non più collaboratore, inoltre, non è un’informazione che rientra nell’elenco delle informazioni consentite previsto dal Codice.
In conclusione, quindi, Tizio ben potrà intimare al signor Caio di conformare la propria pubblicità alle prescrizioni contenute nel Codice Deontologico con l’invito, in concreto, ad indicare per esteso “Nome” e “Cognome” del professionista titolare dello studio nel proprio sito web ed a non menzionare nominativi di professionisti non più collaboratori, notiziando al contempo l’Ordine professionale di appartenenza per la valutazione sotto il profilo deontologico della pubblicità.
[1] Art. 2598: “Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque: usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività di un concorrente; diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente; si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”.
[2] Trib. Torino, sez. IX, 13/01/2006 “infatti, presupposto giuridico per la legittima configurabilità di un atto di concorrenza sleale è la sussistenza di una situazione di concorrenzialità tra due o più imprenditori (e la conseguente idoneità della condotta di uno dei due concorrenti ad arrecare pregiudizio all’altro, pur in assenza di danno attuale), così che la normativa dettata, in materia, dall’art. 2598 c.c. non può ritenersi applicabile ai rapporti tra professionisti (…). La nozione di azienda di cui al n. 3 dell’art. 2598 sopra citato, difatti, coincide con quello di cui al precedente articolo 2555 stesso codice, sicché (pur essendo innegabile che, sotto il profilo meramente ontologico, studi di liberi professionisti siano, di fatto, per personale, mezzi tecnici impiegati e quant’altro, assimilabili ad un azienda) l’intento del legislatore, inteso a differenziare nettamente la libera professione dall’attività di impresa va interpretato ed attuato nel senso della inapplicabilità tout court del regime di responsabilità da concorrenza sleale ai rapporti tra liberi professionisti, e ciò in via di interpretazione tanto diretta, quanto analogica, senza che possa, in contrario, invocarsi il disposto di cui all’art. 2105 c.c., funzionale alla disciplina della responsabilità contrattuale del prestatore nei confronti del proprio datore di lavoro ed alla repressione di una fattispecie di concorrenza illecita, laddove l’art. 2598 attiene alla responsabilità extracontrattuale tra imprenditori onde reprimerne comportamenti di concorrenza sleale”.
[3] T.A.R. Lazio Roma Sez. I, 26/09/2019, n. 11330: “La nozione di impresa ai fini ‘antitrust’ è ormai definita, nel senso che tale nozione alla quale occorre fare riferimento per l’applicazione della L. n. 287 del 1990, è quella risultante dal diritto comunitario e si riferisce a tutti i soggetti che svolgono un’attività economica e, quindi, siano attivi in uno specifico mercato; per questo sono ormai considerate imprese, ai fini specifici della tutela della libera concorrenza, anche gli esercenti le professioni intellettuali che offrono sul mercato, dietro corrispettivo, prestazioni suscettibili di valutazione economica”. Cosi anche T.A.R. Lazio Roma Sez. I, 01/04/2015, n. 4943 e Sent., 16/02/2015, n. 2688.
[4] Calcaterra Daniele, La Responsabilità Civile n. 1/2006.
[5] https://www.omceovr.it/public/wp-content/uploads/2019/07/codice-deontologico.pdf. Art. 1: “Il Codice di deontologia medica – di seguito indicato con il termine “Codice” – identifica le regole, ispirate ai principi di etica medica, che disciplinano l’esercizio professionale del medico chirurgo e dell’odontoiatra – di seguito indicati con il termine “medico” – iscritti ai rispettivi Albi professionali”.
[6] Art. 56 del Codice di Deontologia Medica: “La pubblicità informativa sanitaria del medico e delle strutture sanitarie pubbliche o private, nel perseguire il fine di una scelta libera e consapevole dei servizi professionali, ha per oggetto esclusivamente i titoli professionali e le specializzazioni, l’attività professionale, le caratteristiche del servizio offerto e l’onorario relativo alle prestazioni. La pubblicità informativa sanitaria, con qualunque mezzo diffusa, rispetta nelle forme e nei contenuti i principi propri della professione medica, dovendo sempre essere veritiera, corretta e funzionale all’oggetto dell’informazione, mai equivoca, ingannevole e denigratoria. È consentita la pubblicità sanitaria comparativa delle prestazioni mediche e odontoiatriche solo in presenza di indicatori clinici misurabili, certi e condivisi dalla comunità scientifica che ne consentano confronto non ingannevole. Il medico non diffonde notizie su avanzamenti nella ricerca biomedica e su innovazioni in campo sanitario non ancora validate e accreditate dal punto di vista scientifico, in particolare se tali da alimentare attese infondate e speranze illusorie. Spetta all’Ordine professionale competente per territorio la potestà di verificare la rispondenza della pubblicità informativa sanitaria alle regole deontologiche del presente Codice e prendere i necessari provvedimenti”.
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Bochra El Hachimi
Dottore in Giurisprudenza, titolo conseguito presso l'Università degli Studi di Trento, che si caratterizzata per una spiccata proiezione transanzionale, internazionale e comparata.Attualmente è Praticante Avvocato e frequenta il Master di II livello in Crisi - Insolvenza - Sovraindebitamento presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
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