Uno sguardo al fenomeno del mobbing
Sommario: 1. Introduzione – 2. Tipologie di mobbing – 3. Gli elementi del mobbing – 4. Riferimenti normativi e la responsabilità del datore di lavoro – 5. I danni risarcibili – 6. L’onere della prova e lo “straining” – 7. La tutela penale del fenomeno – 8. Conclusioni
1. Introduzione
Il termine “mobbing” deriva dal verbo inglese to mob che significa “aggredire, assalire qualcuno” ed indica comunemente un fenomeno diffuso nel mondo del lavoro, comprendente tutte quelle condotte vessatorie, reiterate e durature, poste in essere nei confronti di un lavoratore ad opera del suo superiore, dei suoi colleghi o dei suoi sottoposti. Sebbene questa sia l’accezione con la quale oggi tale termine viene utilizzato, è bene precisare che la parola “mobbing” è stata in realtà coniata ed utilizzata per la prima volta agli inizi degli anni settanta nell’ambito dell’etologia, quando Konrad Lorenz la utilizzò per descrivere un particolare comportamento aggressivo ed ostile, messo in atto dal branco per estromettere un suo membro. La definizione di mobbing come fenomeno sociale, applicata al mondo lavorativo, si sviluppa poi grazie al contributo dello psicologo svedese Heinz Leymann, il quale fu il primo ad utilizzarla per intendere una condizione di persecuzione nell’ambiente lavorativo “che consiste in una comunicazione ostile, contraria ai principi etici, diretta in maniera sistematica da parte di uno o più individui, generalmente contro un singolo individuo.” Anche in Italia la tematica è stata introdotta da uno psicologo, il tedesco Harald Ege, il quale parlò del mobbing come “una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti da parte dei colleghi o superiori, attuati in modo ripetitivo e protratti nel tempo per un periodo di almeno 6 mesi”.
Mentre inizialmente lo studio di tale fenomeno apparteneva esclusivamente, o quantomeno prevalentemente, al campo di indagine della psicologia, medicina e della sociologia del lavoro, nel corso degli anni si è resa necessaria anche una disciplina operante dal punto di vista giuridico e questo perché i tribunali locali ed in particolare i Giudici del Lavoro, si trovavano sempre più di fronte a lavoratori che invocavano una tutela in tal senso.
Nel nostro ordinamento, infatti, non è presente né una definizione normativa né una specifica disciplina per il mobbing e pertanto la giurisprudenza si è adoperata per fare chiarezza e sopperire alle carenze legislative, dettando una vera e propria regolamentazione del fenomeno. Una delle definizioni giurisprudenziali più accreditate è contenuta nella sentenza n. 22993/2012, che definisce il mobbing come “una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità”.
2. Tipologie di mobbing
In realtà ciò che risulta essere realmente imprescindibile affinché si possa configurare tale fenomeno, sono le sistematiche e ripetute angherie e pratiche di vessazione, esclusione ed emarginazione di un lavoratore sul luogo di lavoro, non essendo invece rilevante che queste siano riconducibili direttamente al datore di lavoro, ai colleghi di lavoro di pari livello o ai suoi subalterni. E infatti, il mobbing proveniente dall’alto ad opera di superiori gerarchici (cd. mobbing verticale) non è l’unica tipologia accertata, in quanto i comportamenti vessatori potrebbero essere posti in essere anche dai colleghi (cd. mobbing orizzontale) ovvero dai sottoposti nei confronti del proprio superiore (c.d. mobbing ascendente). Esiste poi il bossing, termine che indica quel particolare tipo di mobbing che assume le caratteristiche di una vera e propria strategia aziendale e che si ha quando i dirigenti dell’azienda compiono atti vessatori, con lo scopo preciso di indurre il dipendente divenuto scomodo a dare le dimissioni volontarie e anticipate.
3. Gli elementi del mobbing
Le azioni che possono configurare mobbing sono rappresentate, in linea di massima, da ogni forma di sopruso perpetrata in modo sistematico, continuo e per un tempo prolungato nei confronti del lavoratore attraverso ostracismo, umiliazioni pubbliche e diffusione di notizie non veritiere. Può integrare tale fenomeno, ad esempio, l’esclusione di un dipendente dai corsi di aggiornamento, l’attribuzione di un carico di lavoro eccessivo, il demansionamento ingiustificato, le irrogazioni di sanzioni immeritate, ma anche tutti quegli atti volti ad umiliare ed offendere pubblicamente la vittima come richiami in pubblico per banalità, esercizio di forme ossessive di controllo e/o l’esclusione ripetuta del lavoratore dalle attività quotidiane.
Ciò che rileva, non è tanto la liceità o illiceità di tali comportamenti, ma il fatto che questi siano reiterati nel tempo con il solo intento di perseguitare e di vessare il dipendente. Invero, il mobber potrebbe porre in essere anche comportamenti che presi singolarmente siano da ritenersi perfettamente leciti e all’apparenza giustificati dal potere/dovere di controllo del datore di lavoro, come la negazione di ferie e permessi, la privazione dei collaboratori ovvero degli ossessivi controlli medico-fiscali: a prescindere dalla loro legittimità, questi potranno essere considerati comunque espressione di mobbing (e pertanto punibili) se posti in essere con il solo scopo di perseguitare, denigrare ed isolare professionalmente ed umanamente la vittima.
Altro elemento fondamentale è senza dubbio quello temporale: è indispensabile, infatti, che le azioni sopracitate non siano isolate, ma che si ripetano per un lungo periodo di tempo, con un’elevata frequenza ed in modo sistematico. E’ proprio questo l’elemento che più è utile per differenziare il mobbing vero e proprio dagli altri contrasti sul luogo di lavoro, giacché questi ultimi sono da ritenersi eventi sporadici ed occasionali, dovuti più a divergenze di vedute o fattori situazionali che alla volontà di vessare o danneggiare il dipendente.
Oltre alla molteplicità dei comportamenti ostili ed alla ripetitività delle vessazioni per un congruo periodo di tempo, la giurisprudenza ha aggiunto agli elementi necessari ai fini della configurazione del mobbing anche la lesione della salute, della personalità e/o della dignità del lavoratore come conseguenza diretta delle suddette condotte. E’ necessario, infatti, che le azioni mobbizzanti siano state in grado di condizionare la vita della vittima, compromettendone non solo i rapporti lavorativi ed umani in generale, ma anche la salute mentale e fisica, tanto da causarne un danno.
4. Riferimenti normativi e la responsabilità del datore di lavoro
Le conseguenze del mobbing sono spesso da non trascurare e per tali ragioni, in assenza di una specifica previsione legislativa, sono diverse le norme che, tutelando la salute e la sicurezza dei lavoratori, consentono di attribuire rilievo anche alle condotte vessatorie che si sono in precedenza descritte.
A livello costituzionale è possibile richiamare l’art. 2 Cost. che afferma il valore centrale e primario della persona umana sia come individuo che come membro della società, ma anche l’art. 32 Cost. che individua la salute come diritto fondamentale e come interesse della collettività, mentre il concetto di molestie e discriminazione è approdato grazie alla disciplina comunitaria (D. Lgs. 215/2003 e 216/2003). Vengono poi in rilievo la L. 300/15, il cui art. 15 sancisce la nullità di patti o atti diretti a realizzare forme di discriminazione sul luogo di lavoro, il D.lgs. 81/2008, il cui art. 28 impone di considerare tra i rischi per la salute dei lavoratori anche quelli derivanti da condizioni di stress lavoro-correlato, nonché il D.lgs. 198/2006 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna) i cui artt. 25 e ss. sono specificamente dedicati al contrasto delle discriminazioni nei luoghi di lavoro.
All’interno del codice civile poi, la tutela del lavoratore al fronte di tali comportamenti può essere rinvenuta nell’art. 2043 c.c. che sancisce il generale principio del neminem laedere, in base al quale qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno, nell’art. 2049 c.c. che chiama il datore di lavoro a rispondere dei danni cagionati dal fatto illecito commesso dal proprio dipendente durante lo svolgimento dell’attività lavorativa ed in particolar modo nell’art. 2087 c.c. secondo il quale “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore”.
Quest’ultima norma risulta essere di particolare importanza poiché essa costituisce una disposizione inderogabile di legge, integrativa del contratto di lavoro stipulato tra le parti ai sensi dell’art. 1374 c.c. e pertanto la sua inosservanza integra un’ipotesi di responsabilità di tipo contrattuale. Sulla base di essa, il datore di lavoro risulterà responsabile ed inadempiente non solo ove esso in prima persona ponga in essere ripetuti e ostili atti vessatori nei confronti di un proprio dipendente, ma anche quando egli ometta di vigilare adeguatamente, prevenire e reprimere condotte mobbizzanti realizzate da suoi sottoposti nei riguardi di un altro lavoratore. Invero, nel caso di comportamenti vessatori da parte dei colleghi, posti in essere in modo mirato, sistematico e prolungato nel tempo, il datore di lavoro ha l’obbligo di attivarsi per tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore e, ancorché non protagonista di tali condotte, la giurisprudenza unanime ha sancito che egli non possa andare esente da responsabilità rispetto ai propri obblighi di tutela previsti dall’art. 2087 c.c. poiché questi non si esauriscono nel rispetto delle condizioni e dei limiti imposti dalla legge e dai regolamenti per la prevenzione degli infortuni e per l’igiene del lavoro, ma attengono soprattutto alla predisposizione di misure atte a preservare i lavoratori dalla lesione di quella integrità nell’ambiente di lavoro. Per andare esente da responsabilità, quest’ultimo dovrà dimostrare invece, secondo lo schema previsto dall’art. 1218 c.c., di aver adottato tutte le misure necessarie a tutelare la salute psicofisica del lavoratore o di non averlo potuto fare per cause a lui non imputabili. In caso contrario, nell’ipotesi in cui il datore di lavoro venga ritenuto responsabile ex art. 2087 c.c. di comportamenti riconducibili al mobbing, egli sarà tenuto a risarcire tutti i danni provocati da tale illegittimo comportamento.
Vi è da aggiungere che l’ INAIL ha riconosciuto il mobbing come malattia professionale, inserendolo nella categoria delle malattie professionali non tabellari e dunque il lavoratore potrà chiedere il risarcimento del danno anche al suddetto Istituto assistenziale.
5. I danni risarcibili
Il danno che può subire il dipendente vittima di mobbing è costituito innanzitutto dal danno patrimoniale, ovvero dal danno alla capacità produttiva di reddito sia nella forma del danno emergente (dovuto, ad esempio, alle spese affrontate dalla vittima in conseguenza delle condotte vessatorie come le spese mediche o farmaceutiche) che in relazione ai mancati guadagni che il lavoratore avrebbe ottenuto se non fosse stato illegittimamente assegnato a mansioni inferiori o se non gli fossero stati ingiustificatamente preclusi opportunità professionali e avanzamenti di carriera.
Dato che, come già visto, il fenomeno del mobbing non produce danni omogenei circoscritti all’ambiente di lavoro o alla sola sfera economica, ma inficia ogni aspetto della vita del lavoratore, ivi comprese le relazioni con i propri familiari, con gli altri colleghi e con altre persone in generale, colui che ne è vittima potrà chiedere il ristoro anche di tutti i pregiudizi non patrimoniali subiti, categoria in cui rientrano tutte le conseguenze negative che tale fenomeno ha avuto sulla sfera emotiva, sociale e di relazione della vittima.
In primo luogo è bene considerare che le condotte sistematicamente poste in essere verso il dipendente mobbizzato possono procurare allo stesso un danno all’integrità sia fisica che psichica della persona, provocando una riduzione permanente della capacità lavorativa dell’individuo ovvero causando la nascita di vere e proprie patologie quali, ad esempio, depressione, attacchi di panico, disturbi alimentari, dipendenza da alcool o da altre sostanze. Appare dunque chiaro che egli possa chiedere il risarcimento del danno biologico subito, ove chiaramente questo sia suscettibile di diagnosi medico-legale e dunque clinicamente accertabile.
Potrà essere altresì risarcito il danno morale, costituito dalla sofferenza contingente e dal turbamento dell’animo transeunte, determinati dal fatto illecito integrante reato, causato dall’atteggiamento dei colleghi o dei superiori sulla sfera privata ed emotiva.
Nell’ambito del risarcimento dei danni derivanti da mobbing, particolare rilevanza ha assunto la categoria del c.d. danno esistenziale, sulla cui autonoma configurabilità, natura e fondamento la giurisprudenza e la dottrina si sono pronunciate in termini non sempre univoci. Recentemente la Corte di Cassazione ha affrontato specificamente la questione, pronunciandosi in termini favorevoli in merito alla sua configurabilità e risarcibilità, quale autonoma componente del danno non patrimoniale. Questo trova la sua giustificazione nello sconvolgimento delle abitudini di vita, delle relazioni e delle altre attività umane nell’ambito delle quali la persona trova la propria più completa realizzazione e pertanto è fondamentalmente diverso sia dal danno biologico, in quanto “non presuppone alcuna lesione fisica o psichica, né una compromissione della salute della persona”, sia dal danno morale soggettivo, che “si esaurisce nel dolore provocato dal fatto dannoso”, concretandosi in “un danno transeunte di natura esclusivamente psicologica”.
Un’ulteriore forma di tutela è rappresentata dal fatto che, in caso di mobbing sul lavoro, il lavoratore potrà dimettersi per giusta causa (e dunque potrà dimettersi in tronco senza aspettare il periodo di preavviso previsto dal contratto collettivo di lavoro) e eventualmente fare richiesta della Naspi, ossia l’indennità erogata dall’Inps che spetta quando un dipendente perde involontariamente il lavoro.
6. L’onere della prova e lo “straining“
I danni risarcibili sono dunque molteplici, ma non sempre i lavoratori trovano giustizia considerato quanto è complesso oggi ottenere l’accertamento giudiziale del mobbing.
Il lavoratore, infatti, soggetto su cui grava l’onere della prova ex art. 2697 c.c., non potrà limitarsi ad elencare gli specifici episodi discriminatori patiti, ma dovrà provare la sussistenza dei singoli elementi costituivi del fenomeno come sopra analizzati e cioè la serie di atti discriminatori subiti, la loro sistematica ripetizione nel tempo, i danni riportati a seguito di tali comportamenti ed il nesso di causalità tra le condotte lamentate ed i suddetti pregiudizi subiti.
Particolarmente gravosa è poi l’ulteriore prova dell’intento persecutorio che accomuna ed unifica i singoli episodi poiché egli dovrà dimostrare come dietro ad ogni singolo atto ci sia un vero e proprio disegno criminoso finalizzato ad umiliarlo, provocarne le dimissioni o l’allontanamento. Questo perché, come sopra precisato, il fenomeno del mobbing può verificarsi con modalità polimorfe e dunque oltre che attraverso condotte senz’altro illecite, anche attraverso comportamenti di per sé neutri (ad esempio non rivolgere la parola ad un collega, ignorando ogni sua richiesta di collaborazione o aiuto) o addirittura del tutto legittimi se considerati singolarmente. Il lavoratore vittima di mobbing dovrà quindi in particolar modo dimostrare che le condotte poste in essere nei suoi confronti non rientrano nell’esercizio dei normali poteri di organizzazione e controllo riconosciuti al datore di lavoro né si limitano a semplici e tutto sommato fisiologici episodi di conflittualità sul luogo di lavoro, ma integrano al contrario una vera e propria strategia persecutoria finalizzata a porre il soggetto che ne è bersaglio in uno stato di grave e profondo disagio. Pertanto, condotte datoriali consistenti ad esempio in mutamenti dell’orario di lavoro, ritardati/mancati pagamenti dello stipendio, mancata consegna di numerose buste paga, sorveglianza indebita sul posto di lavoro ecc. potrebbero non rilevare ai fini della configurabilità del mobbing laddove non venga fornita la prova rigorosa dell’elemento unificante, ossia dell’intento persecutorio e vessatorio da parte del datore di lavoro.
Il lavoratore dovrà poi dimostrare l’esistenza dei danni di cui richiede il risarcimento e soprattutto il nesso causale tra condotta e danno, ossia che questi danni siano una conseguenza degli atti vessatori subiti, accertando con l’aiuto della medicina legale che l’esistenza della patologia di natura psicofisica insorta sia strettamente collegata sul piano causale alla condotta datoriale illecita.
Da quanto esposto, emerge con estrema evidenza l’assoluta difficoltà di provare in giudizio la totalità degli elementi costitutivi della fattispecie, specie se si pensa che molto spesso la prova dovrebbe essere data dalla testimonianza di colleghi della vittima che continuano a lavorare per il mobber o della paura di ritorsioni che molto spesso spinge il lavoratore a ritirare preventivamente le denunce o, nella maggior parte dei casi, a non denunciare affatto. Pertanto, la giurisprudenza ha ritenuto opportuno individuare una forma più lieve ed attenuata di mobbing che comportasse comunque il risarcimento dei pregiudizi patiti, mitigando l’onere della prova. Mancando le prove del mobbing, infatti, il lavoratore potrà far valere lo “straining” (dall’inglese “to strain”, nel significato di “affaticare, sforzare”) con il quale si intendono tutte quelle condotte “stressogene” poste in essere sul luogo di lavoro che, seppur non riconducibili ad un preciso disegno discriminatorio e persecutorio, risultino comunque idonee a ledere diritti fondamentali quali la salute ed il benessere del lavoratore. Tale fenomeno si verifica quando a mancare è l’elemento della continuità perché le vessazioni sono sporadiche e non sistematiche, ma comunque sorrette dall’intento di mortificare ed emarginare il dipendente con comportamenti come, ad esempio, l’assegnazione di mansioni non compatibili con lo stato di salute del lavoratore, la riduzione in una condizione umiliante di totale inoperosità ecc. Dimostrare lo straining è chiaramente molto più semplice potendo il lavoratore limitarsi a dimostrare la sussistenza di un danno, “la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra” (cfr. Cassazione civile, sez. lavoro, sentenza 19/02/2016 n° 3291).
7. La tutela penale del fenomeno
Sotto il profilo penale, invece, la tutela appare complessa poiché manca all’interno del nostro ordinamento un reato di mobbing né è prevista alcuna ipotesi di reato a carico del datore di lavoro per le condotte di vessazione morale e di dequalificazione professionale da lui tenute nell’ambiente di lavoro in danno del lavoratore. Di conseguenza, per tutelare a pieno il lavoratore anche sotto il profilo penale, la giurisprudenza ha cercato di far rientrare la condotta costituente mobbing di volta in volta nelle fattispecie più idonee ad assicurare un’adeguata tutela del lavoratore, pur sempre nel rispetto dei principi di tassatività e di determinatezza. Considerando infatti che la condotta persecutoria deve necessariamente essere integrata da una pluralità di atti, i quali, autonomamente considerati, possono assumere anche singolarmente rilevanza penale, una prima soluzione praticabile, suggerita da una parte della dottrina, sarebbe quella di “parcellizzare” la condotta persecutoria, punendo le singole condotte con i corrispondenti reati (minaccia, lesioni, violenza privata, violenza sessuale ecc.) Tale modalità operativa, tuttavia non sembra garantire un’efficace tutela al lavoratore poiché la risposta sanzionatoria potrebbe comunque risultare inadeguata rispetto al grado di vessazioni subita dal dipendente considerato che, come già visto, il mobbing può manifestarsi anche attraverso comportamenti privi di rilevanza penale, come umiliazioni, provvedimenti disciplinari ecc.
Sul punto, con un orientamento che si è andato via via consolidando, la suprema Corte ha affermato che per sostenere la rilevanza penale del mobbing ben si potrebbe invocare il disposto dell’art. 572 c.p. circa i maltrattamenti in famiglia, a condizione, però, che il rapporto tra datore di lavoro e dipendente sia caratterizzato da “familiarità”. Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in ambito lavorativo, infatti, non basta che il soggetto attivo si trovi in una posizione di supremazia da cui derivi uno stato di soggezione, anche solo psicologica, del soggetto agente nei confronti del soggetto subordinato, ma occorre anche che il rapporto lavorativo intercorrente tra soggetto attivo e soggetto passivo appaia assimilabile, per le ragioni sopra delineate, a quello di natura familiare (cfr. Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 30 marzo 2018, n. 14754 e conformi: Cass. Pen., sez. 06, del 28/03/2013, n. 28603, Cass. Pen., sez. 06, del 05/03/2014, n. 13088, Cass. Pen., sez. 06, del 11/04/2014, n. 24057, Cass. Pen., sez. 06, del 19/03/2014, n. 24642).
Le condotte di mobbing possono integrare altresì il reato di atti persecutori quando la mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro, sia idonea a cagionare uno degli eventi delineati dall’art. 612-bis cod. pen (cfr.Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 9 novembre 2020, n. 31273).
8. Conclusioni
Da quanto sopra esposto, è facile comprendere come il mobbing sia un fenomeno preoccupante, sempre più complesso, in continua crescita e mutamento, specie se si considera che le ricerche condotte ed i casi conclamati sul piano medico-legale e giudiziario hanno dimostrato che questo può portare a gravi conseguenze, all’invalidità psico-fisica ed ad un peggioramento delle condizioni di vita e di salute del lavoratore. Rispetto ad altri Paesi, in Italia il tema del mobbing in ambito lavorativo è relativamente recente ed il lavoro principale è stato svolto dalla giurisprudenza che, sentenza dopo sentenza, è riuscita a dare una definizione puntuale del fenomeno e a regolamentarlo. Come già visto, i suoi profili problematici sono legati più al complesso onere della prova che all’assenza di una legge ad hoc e ciò grazie al continuo e certosino lavoro che la giurisprudenza e la dottrina hanno svolto negli ultimi dieci anni. Ciò detto, anche se di recente sono state presentate proposte di legge in merito, appare chiaro che regolamentare ad oggi il fenomeno del mobbing risulti più utile a tranquillizzare il lavoratore e a cristallizzare quanto già detto, che a colmare una vera e propria lacuna normativa. Un diverso discorso può farsi per la creazione di un’autonoma fattispecie di reato al fine di ampliare la tutela penale del fenomeno, circostanza auspicabile specie se si pensa che la tutela offerta dalla legge ordinaria quasi mai risulta essere calzante.
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Avv. Sabrina Testa
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- Uno sguardo al fenomeno del mobbing - 28 February 2022