Upcycling: il futuro della moda?
Sommario: 1. Definizione di upcycling – 2. I vantaggi dell’upcycling nel settore della moda – 3. Rischio di abusi? – 4. Principio dell’esaurimento del marchio – 5. Conclusioni
Sebbene non tutti sanno cos’è l’upcycling e come può essere utilizzato, questa tecnica produttiva esiste da ormai diversi anni.
Il primo esperimento dell’upcycling è da far risalire al 1963, quando Alfred Heineken, fondatore dell’omonima azienda olandese Heineken, insieme all’architetto John Habraken, per non sprecare il vetro delle numerose bottiglie di birra consumate e abbandonate, hanno lanciato la campagna Wobo finalizzata alla conversione delle medesime in mattoni per l’edilizia[1]. La geniale intuizione, tuttavia, ha anticipato molto i tempi non riscuotendo successo.
Solamente dieci anni dopo, gli architetti Charles Jencks and Nathan Silver hanno adottato un nuovo metodo di progettazione rispetto a quello tradizionale, attribuendo agli oggetti e ai materiali che ci circondano ruoli e significati originali: nasce così, a tutti gli effetti, l’idea di upcycling[2].
L’upcycling è oggi uno dei temi più dibattuti della proprietà intellettuale, in quanto possono conseguire complicazioni legali dalla vendita di prodotti di marca, modificati o rimessi a nuovo, senza l’autorizzazione del titolare del marchio o senza informare adeguatamente i consumatori delle modifiche apportate.
Ci si domanda, pertanto, se sia possibile promuovere l’upcycling e contemporaneamente proteggere il proprio marchio.
1. Definizione di upcycling
“Quello che ci serve è l’up-cycling, grazie al quale ai vecchi prodotti viene dato un valore maggiore, e non minore”.
Così nel 1994 Reiner Pilz, ingegnere meccanico tedesco, ha coniato per la prima volta il termine upcycling. Neologismo che, tuttavia, è rimasto inutilizzato fino al 2002, quando l’architetto statunitense William McDonough e il chimico tedesco Michael Braungart hanno approfondito il tema del riciclo creativo[3].
Oggi, a distanza di 30 anni, con la parola upcycling si fa riferimento alla pratica consistente nel riutilizzo di abiti e tessuti usati per donare ad essi una nuova vita.
Tuttavia, con i materiali a disposizione si può dar vita a pochi articoli e, dunque, quelli che vengono realizzati, non potendo essere prodotti in serie, acquistano maggior pregio e unicità.
Sulla base di questi aspetti, pertanto, il modo corretto per definire l’upcycling – che attraverso un approccio sostenibile e creativo, offre un’alternativa per combattere i rischi ambientali – è “riuso creativo”.
Ebbene, proprio nella creatività risiede la differenza con il recycling, in quanto l’upcycling non riduce completamente un prodotto esistente a materia prima iniziale, ma lascia il prodotto esistente parzialmente intatto e cerca di dargli nuova vita[4].
2. I vantaggi dell’upcycling nel settore della moda
Dalla definizione di upcycling, è possibile notare come questa tecnica produttiva in realtà esiste da sempre, ma senza che alla stessa sia mai stata data la giusta valorizzazione e l’attenzione che oggi ha riscontrato nel mondo della moda.
Basti pensare, infatti, a quando si utilizzano pezzi di tessuti presenti in casa per creare magliette, borse, abiti o qualunque altro prodotto: in tali casi si può, comunque, parlare di upcycling.
Ma perché questa tipologia di produzione, solamente nei tempi più recenti, è stata ben accolta anche dall’alta moda?
La risposta la si può individuare analizzando i tre principali vantaggi dell’upcycling:
Riduzione dei rifiuti tessili e conservazione delle risorse: attraverso l’utilizzo di materiali preesistenti, si crea un modello di economia circolare che consente di dar vita a vestiti diversi ma senza crearne di nuovi, garantendo la sostenibilità ambientale;
Creatività e unicità: ogni capo “upcycled” è unico, esattamente l’opposto della produzione di massa (c.d. fast-fashion e ultra fast-fashion);
Educazione dei consumatori: sensibilizzazione dei consumatori sull’impatto ambientale delle loro scelte di moda.
3. Rischio di abusi?
A fronte di una tendenza sempre più diffusa, accade sovente che vengano modificati prodotti di marca. Si pone, così, il problema di stabilire la liceità o meno di articoli che presentano parti recanti un marchio di terzi.
Ciò in quanto, la modifica di prodotti di marca, senza l’autorizzazione del titolare del marchio e senza un’adeguata informazione ai consumatori, può dar luogo alla svalutazione del marchio originale nonché a complicazioni legali.
Basti pensare al caso “Sandra Ling Designs” vs “Luis Vuitton”, in cui quest’ultima ha contestato alla società Sandra l’utilizzo di prodotti usati da Louis Vuitton per creare nuovi capi che, tuttavia, non soddisfacevano i canoni estetici e qualitativi della casa di moda[5].
Si pensi ancora al caso “Chanel” vs “Shiver and Duke LLC”, in cui Chanel ha citato in giudizio negli Stati Uniti una società che realizzava gioielli e accessori riutilizzando bottoni e altri elementi presi da capi di abbigliamento della celebre maison[6].
Nonché al contenzioso recentemente intentato da una grande casa di moda come la “Levi’s” nei confronti della società “Coperni UK Limited” per l’asserita violazione del marchio (oltre al compimento di atti di concorrenza sleale). In particolare, l’azione di Levi’s è stata diretta a contestare l’uso da parte di Coperni di linguette in tessuto simili alle proprie, senza alcuna autorizzazione da parte del titolare del marchio, andando così a creare confusione nei consumatori circa la reale origine dei prodotti in questione[7].
Ebbene, questo tipo di attività può dar luogo a complicazioni relative alla tutela del marchio.
4. Principio dell’esaurimento del marchio
La Direttiva Europea 2008/95/CE ha introdotto il principio di esaurimento del marchio recepito dall’art. 5 del Codice di Proprietà Industriale italiano, il quale si pone il duplice obiettivo di promuovere la libera circolazione delle merci e di evitare che il titolare del marchio possa abusare della propria posizione dominante e limitare la commercializzazione di prodotti recanti il marchio stesso all’interno del territorio dell’Unione Europea.
In altre parole, con tale principio il diritto esclusivo del titolare del marchio si esaurisce dopo che i prodotti sono stati venduti per la prima volta con il suo consenso o da un soggetto autorizzato sul territorio[8].
L’esclusiva si limita, dunque, al primo atto di messa in commercio e non si estende agli atti successivi alla prima immissione[9].
Il principio dell’esaurimento dei diritti di proprietà intellettuale, tuttavia, non si applica quando il titolare del marchio, in presenza di motivi legittimi, si opponga all’ulteriore commercializzazione dei prodotti, quando lo stato di questi è modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio o quando i prodotti sono materialmente diversi ovvero non soddisfano gli standard di qualità del titolare del marchio[10].
Il consenso del titolare all’immissione in commercio costituisce, dunque, il discrimine per capire quando la tutela dei diritti di proprietà intellettuale debba cedere di fronte al principio di libera circolazione delle merci.
Siffatto consenso può essere desunto dal comportamento del titolare che ha rinunciato al suo diritto di opporsi alla circolazione dei beni nella Comunità[11].
Alla luce di questi aspetti, quindi, si potrebbe ritenere che mantenere il marchio originale su un prodotto “upcycled” – nella maggior parte dei casi – potrebbe costituire contraffazione di marchio comportando la necessità della sua rimozione.
Ad oggi, tuttavia, la normativa in materia di marchi e il principio dell’esaurimento non sembrano ancora fornire una soluzione chiara in tema di upcycling.
5. Conclusioni
Dal quadro generale, appena delineato, emerge come questa nuova tipologia produttiva seppur da un lato possa costituire una soluzione più “sostenibile” e rispettosa dell’ambiente, dall’altro rappresenta un fattore problematico, dal momento che, in certi casi, potrebbe svalutare il ruolo funzionale del segno distintivo ivi riportato e, in altri casi, potrebbe anche sortire l’effetto opposto di amplificare la centralità del marchio altrui.
Per questo motivo, è giunto il momento di riflettere in maniera organica su un adeguato bilanciamento degli interessi in campo, fra diritti esclusivi di proprietà intellettuale, tutela dell’ambiente, protezione della libertà di espressione e creatività.
Una possibile soluzione potrebbe essere quella adottata da alcuni brand di lanciare essi stessi l’upcycling dei propri prodotti, in modo da avere il pieno controllo sulla loro trasformazione ed evitare che siano poi terzi a farlo.
[1] Per approfondimenti si veda anche https://www.phitofilos.it/blog/upcycling-il-riciclo-che-da-piu-valore-ai-materiali-di-scarto#:~:text=Il%20primo%20esperimento%20di%20upcycling,di%20vetro%20utili%20nell’edilizia.
[2] Per approfondimenti, v. https://www.buonenotizie.it/sostenibilita/2023/01/18/upcycling-come-e-nato-il-riciclo-creativo-e-perche-e-importante-per-lecosistema/majocchi/.
[3] Per approfondimenti, v. https://greencluster.it/la-rivoluzione-dellupcycle/.
[4] Bridgens, Powell, Farmer, Walsh, Reed, Royapoor, Gosling, Hall, Heidrich, Creative upcycling: Reconnecting people, materials and place through making, in Journal of Cleaner Production, 2018, 189, pagg. 145-154; Ekstrom, Salomonson, Reuse and Recycling of Clothing and Textiles – A Network Approach, in Journal of Macromarketing, 2014, 34(3), pagg. 383-399.
[5] v. Louis Vuitton Mallettier S.A.S. v. Sandra Ling Design, Inc. et al, Case No. 4:21-cv-00352, Court Texas Southern.
[6] v. Chanel, Inc. v. Shiver and Duke, LLC, 1:21-cv-01277 (S.D.N.Y. 2020).
[7] Per approfondimenti, v. https://www.nssmag.com/it/fashion/34219/levis-coperni.
[8] v. Rivista di Diritto Industriale, fasc.4-5-6, 1° agosto 2022, pag. 240.
[9] Per approfondimenti, https://www.canellacamaiora.it/distribuzione-selettiva-e-tutela-dei-marchi-di-lusso-la-corte-di-cassazione-offre-alcuni-spunti-sui-criteri-di-selezione-della-rete/#indice-5.
[10] v. art. 5 c.p.i. e art. 15 della Direttiva UE 2015/2436.
[11] V. https://www.to.camcom.it/sites/default/files/chi-siamo/Ricci.pdf
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Avv. Giacomo Romano
Ideatore e Coordinatore at Salvis Juribus
Nato a Napoli nel 1989, ha conseguito la laurea in giurisprudenza nell’ottobre 2012 con pieni voti e lode, presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II, discutendo una tesi in diritto amministrativo dal titolo "Le c.d. clausole esorbitanti nell’esecuzione dell’appalto di opere pubbliche", relatore Prof. Fiorenzo Liguori. Nel luglio 2014 ha conseguito il diploma presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell'Università degli Studi di Napoli Federico II. Subito dopo, ha collaborato per un anno con l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli occupandosi, prevalentemente, del contenzioso amministrativo. Nell’anno successivo, ha collaborato con uno studio legale napoletano operante nel settore amministrativo. Successivamente, si è occupato del contenzioso bancario e amministrativo presso studi legali con sede in Napoli e Verona. La passione per l’editoria gli ha permesso di intrattenere una collaborazione professionale con una nota casa editrice italiana. È autore di innumerevoli pubblicazioni sulla rivista “Gazzetta Forense” con la quale collabora assiduamente da giugno 2013. Ad oggi, intrattiene collaborazioni professionali con svariate riviste di settore e studi professionali. È titolare di “Salvis Juribus Law Firm”, studio legale presso cui, insieme ai suoi collaboratori, svolge quotidianamente l’attività professionale avendo modo di occuparsi, in particolare, di problematiche giuridiche relative ai Concorsi Pubblici, Esami di Stato, Esami d’Abilitazione, Urbanistica ed Edilizia, Contratti Pubblici ed Appalti.