Usura e interessi moratori

Usura e interessi moratori

Nelle obbligazioni pecuniarie, il pagamento degli interessi forma oggetto di una prestazione accessoria, che si aggiunge al pagamento della somma principale. Il denaro è infatti un bene fruttifero, che genera ricchezza per chi ne ha la disponibilità; pertanto, fintanto che il debitore non effettua il pagamento della somma dovuta, questi trae vantaggio dal semplice fatto di disporre del denaro. Ne consegue che le obbligazioni pecuniarie producono interessi di diritto dal momento della loro esigibilità (art. 1284 c.c.). Il pagamento degli interessi risponde a una funzione compensativa: il debitore, arricchitosi per il fatto di aver tenuto la disponibilità di un bene fruttifero, è tenuto a corrispondere sotto forma di interessi i frutti generati dalla somma di denaro a sua disposizione (interessi c.d. compensativi). Nelle obbligazioni pecuniarie, l’interesse è dovuto nella misura stabilita periodicamente dalla legge, sempreché le parti non pattuiscano per iscritto un interesse superiore.

In alcuni contratti, il pagamento degli interessi è oggetto di una controprestazione specifica, dovuta dal debitore, come contropartita per aver ricevuto un’apertura di credito. Nei contratti di finanziamento, in specie, il debitore riceve una somma di denaro, della quale diviene proprietario, con l’obbligo di restituire entro un termine stabilito tantundem eiusdem generis. I contratti di finanziamento sono, in genere, a titolo oneroso: la messa a disposizione del denaro non è gratuita e il debitore, oltre alla restituzione della somma ricevuta, è tenuto a pagare al mutuante anche gli interessi. L’interesse costituisce, in tali ipotesi, il corrispettivo pagato dal soggetto finanziato per l’apertura del credito (il c.d. “costo del denaro” – tale principio è sancito dall’art. 1815 c.c., dal quale si ricava che il contratto di mutuo si presume oneroso).

Un diverso tipo di interessi è previsto dall’art. 1224 c.c., che si occupa del danno nelle obbligazioni pecuniarie. Come suggerisce la rubrica, si tratta di interessi dovuti dal debitore in caso di ritardo nel pagamento e di interessi moratori. La mora è una forma qualificata di ritardo nell’adempimento – ossia di ritardo nell’esecuzione della prestazione a cui il debitore è tenuto – alla quale la legge ricollega alcuni effetti automatici o attivabili da parte dell’interessato. La legge disciplina espressamente la corresponsione degli interessi moratori per le obbligazioni pecuniarie, in caso di debiti scaduti e non pagati. Tali interessi hanno una funzione riparativa-risarcitoria, giacché si presume che compensino il danno patito dal creditore che subisce l’inadempimento; secondo il Codice, essi coprono la perdita e i mancati guadagni che il creditore è costretto a sopportare in conseguenza del mancato e tempestivo riacquisto del denaro.  Al contempo, tali interessi svolgono una funzione sanzionatoria e deterrente verso l’inadempimento (motivo per cui, le parti possono prevedere una misura maggiore dell’interesse), analogamente a quanto avviene in caso clausola penale ex art. 1382 c.c.. Va detto, oltretutto, che per disincentivare i ritardi nei pagamenti, il legislatore ha previsto, a decorrere dalla data di presentazione della domanda giudiziale, l’applicazione di interessi di mora particolarmente penalizzanti per il debitore.

La pattuizione di interessi da parte dei contraenti (siano essi compensativi, corrispettivi o moratori) incontra limiti ordinamentali. Un primo limite è relativo agli interessi compensativi convenzionali superiori al tasso legale, ossia agli interessi pattuiti dalle parti e che sono dovuti per il periodo in cui il creditore non dispone del denaro, perché dato al debitore. Come si è visto, l’art. 1284 c.c. impone che, se l’interesse concordato è superiore a quello fissato dalla legge, l’apposita pattuizione deve essere conclusa in forma scritta, a pena di nullità, con conseguente debenza dell’interesse in misura pari a quello legale.

Il limite di maggiore rilevanza e applicazione pratica è, tuttavia, costituito dal divieto di usura. L’usura rappresenta una pratica economica in forza della quale il creditore, a fronte di una apertura di credito, si fa promettere e/o pagare dal debitore interessi eccessivamente onerosi. Una definizione giuridica dell’usura si può ricavare dall’art. 644 c.p. e dalla l. n. 108/1996, modificativa della citata norma. Il requisito dell’usurarietà è rimesso ad un limite legale oltre al quale gli interessi sono definibili sempre usurari; tale tasso di interesse è fissato dall’art. 2, l. n. 108/1996, il quale affida al Ministero del Tesoro il compito di rilevare trimestralmente il tasso effettivo globale medio degli interessi praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari autorizzati (c.d. T.E.G.M.)

Secondo le diverse ricostruzioni, il divieto in esame colpirebbe ora la sproporzione oggettiva e ingiustificata fra la prestazione del creditore e la controprestazione a carico del debitore (il pagamento degli interessi). Secondo altra tesi, la ragione del divieto va cercata nell’esigenza di solidarietà e di protezione del debitore, soggetto debole che, in caso di bisogno, è indotto ad accettare condizioni particolarmente sfavorevoli o vessatorie. La Riforma del 1996 sanziona tanto l’usura oggettiva quanto quella soggettiva: l’art. 644 c.p., infatti, da una parte punisce la pattuizione di interessi superiori alla soglia fissata dall’ordinamento, dall’altra sanziona anche la stipulazione di interessi che, ancorché inferiori a tale soglia, debbano ritenersi usurari in considerazione della condizione soggettiva del debitore.

All’interno del Codice civile, il divieto di usura si traduce nella nullità degli interessi usurari, prevista dall’art. 1815, comma 2 c.c.; il contratto di mutuo per il quale siano pattuiti interessi usurari si trasforma in gratuito e nessun interesse è dovuto al creditore. Data la collocazione della norma, si tratterebbe di sanzione che colpisce esplicitamente la pattuizione di interessi corrispettivi. La ratio che sta alla base della remunerazione del creditore è comunque analoga a quella su cui si fonda il pagamento degli interessi c.d. compensativi: in entrambi i casi, infatti, il legislatore riconosce che il trasferimento del denaro priva temporaneamente il creditore della disponibilità di un bene fruttifero e risponde pertanto a equità il fatto che il debitore riconsegni, oltre al capitale, anche i frutti di cui si è avvantaggiato, seppure in misura forfetaria e secondo un tasso prestabilito.

Diverso è il discorso quando si tratta di interessi moratori. Come si è detto, gli interessi in questione sono dovuti ex lege in caso di ritardo nel pagamento delle obbligazioni pecuniarie e hanno una funzione non già compensativo-perequativa, bensì risarcitoria. Gli interessi di mora non puntano a riequilibrare i rapporti fra il soggetto che si è impoverito privandosi della disponibilità del denaro e quello che si è arricchito, disponendo dello stesso. In dottrina, non è condivisa, pertanto, l’applicazione dell’art. 1815 c.c. a tale tipo di interessi, con la conseguenza che, laddove le parti pattuiscano un interesse di mora superiore alla soglia usuraria, occorre chiedersi se tale pattuizione sia nulla e, quindi, non dovuta, oppure sia valida ed efficace.

Secondo una prima tesi, la menzione dell’art. 1815, comma 1, c.c. ai soli interessi corrispettivi porterebbe a escludere l’estensione del divieto di usura anche agli interessi moratori. Inoltre, stante la funzione deterrente e sanzionatoria di questi ultimi, la loro pattuizione in misura superiore al tasso soglia sarebbe giustificato e implicito nella loro stessa natura, che è quella, analoga alla penale, di minacciare un esborso di denaro particolarmente gravoso al fine di scongiurare il ritardo nel pagamento o l’inadempimento. L’interesse di mora, infatti, è spesso pattuito in misura elevata, per ragioni di coercizione all’adempimento, ma attiene a una fase patologica del rapporto, sicché solo eccezionalmente si traduce in una pretesa usuraria. Altri hanno fatto notare, al riguardo, che gli stessi interessi legali stabiliti dalla legge in caso di domanda giudiziale sono ben superiori al tasso soglia generalmente rilevato; il che porterebbe a riconoscere, laddove si ritenesse usurario l’interesse moratorio, che la stessa legge prevede una tassi usurari. Si è detto, infine, che la riforma dell’usura non ha inteso porre un limite generale al costo del denaro, ma ha voluto sanzionare gli abusi degli operatori economici che, falsando il corretto funzionamento del mercato e la concorrenza, si fanno promettere prestazioni sproporzionate, anche approfittando della propria posizione di supremazia giuridica o economica.

Secondo altra tesi, invece, il divieto di usura sanzionerebbe con la nullità qualsiasi accordi che obblighi il debitore a pagare interessi obiettivamente sproporzionati ovvero eccessivi in relazione alla condizione concreta economica e di bisogno del debitore stesso. La distinzione concettuale fra interessi moratori e corrispettivi ha soltanto valore dogmatico e “storico”, posto che la stessa nasce da una diversa impostazione del Codice civile e del Codice di commercio previgenti, oggi confluiti nell’unico Codice del 1941, e che discende dalla prassi, invalsa nel diritto intermedio, di sottrarre la mora al divieto canonistico di usura. Non rileverebbe, secondo la ratio ispiratrice della Riforma del 1996, la natura o la funzione dell’interesse, fermo restando che anche gli interessi moratori usurari pongono il soggetto debole o che versi in stato di bisogno nella situazione di promettere o dare somme ingiustificatamente esorbitanti. Secondo il novellato art. 644 c.p., infatti, “per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo” pattuiti.

Il mancato riferimento agli interessi moratori nel tasso rilevato trimestralmente (T.E.G.M.) non esclude che la loro usurarietà, ma risponde a esigenze di tutela del mercato (infatti, per calcolare il tasso medio “tollerabile”, costituente la soglia di usurarietà, non potrebbe farsi riferimento a tassi di loro natura elevati, come quelli moratori, dovendo altrimenti questi incidere a rialzo sulla misura del tasso medio accertato).

Prendendo le mosse dal dibattito sviluppatosi sul tema, le Sezioni Unite sono intervenute sul punto, muovendo dall’analisi della funzione degli interessi moratori e dalla ricostruzione della disciplina in tema di usura (S.U. sent. n. 19597/2020, dep. 18 settembre 2020). È stato avallato, così, l’orientamento che estende anche agli interessi di mora il divieto di usura. Le Sezioni Unite hanno stabilito che, al di là della distinzione fra interessi compensativi-corrispettivi e moratori, tutti gli interessi perseguono la funzione di remunerare la privazione di denaro in capo al creditore, anche quando tale privazione dipenda dal ritardo nella restituzione del denaro (come avviene in caso di mora). La ratio della riforma dell’usura è quella di sanzionare la promessa o la corresponsione di interessi eccessivi e a qualsiasi titolo pattuiti, in un’ottica di protezione del soggetto debole del rapporto. Secondo la Corte, la mancata indicazione dell’interesse di mora nell’ambito del T.E.G.M. non osta a che l’interesse moratorio sia riconosciuto usurario. Si applica, inoltre, l’art. 1815, comma 2 c.c., onde non sono dovuti gli interessi moratori pattuiti, ma vige l’art. 1224, comma 1 c.c., con la conseguente debenza degli interessi nella misura dei corrispettivi lecitamente convenuti.

Quanto all’interesse ad agire del finanziato per la declaratoria di usurarietà degli interessi pattuiti, esso sussiste dal momento della pattuizione e non solo dal momento in cui tale interesse, in occasione del ritardo, viene preteso dal creditore; una volta verificatosi l’inadempimento ed il presupposto per l’applicazione degli interessi di mora, invece, la valutazione di usurarietà attiene all’interesse in concreto applicato dopo l’inadempimento. Infine, la Corte rammenta che, nei rapporti fra professionista e consumatore, la clausola che prevede interessi usurari può essere riconosciuta come vessatoria. In ogni caso, l’onere di provare l’usurarietà graverà, in forza dell’art. 2697 c.c., sul debitore, il quale potrà dedurre il tipo di contratto stipulato e la misura dell’interesse, superiore al tasso-soglia rilevato trimestralmente a norma di legge.


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Simone Risoli

Gennaio 1991, Avvocato, laureato nel 2015 presso l'Università degli Studi di Milano, già tirocinante presso le sezioni civili e penali del Tribunale di Milano e la Prima Corte di Assise, cultore della materia presso il Dipartimento Beccaria dell'Università degli studi di Milano, già collaboratore presso la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia.

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