Varianti al permesso di costruire
La normativa edilizia vigente riconosce all’amministrazione comunale la possibilità di rilasciare titoli abilitativi che autorizzino la realizzazione di varianti al progetto approvato.
Dottrina e giurisprudenza distinguono tra:
varianti in senso proprio;
varianti essenziali;
varianti c.d. minime.
1) Per quanto riguarda le c.d. “varianti in senso proprio”, deve rilevarsi che non tutte le modifiche alla progettazione originaria possono definirsi varianti e che queste si configurano solo allorquando il progetto già approvato non risulti sostanzialmente e radicalmente mutato dal nuovo elaborato (come accade nelle ipotesi di: sensibile spostamento della localizzazione del manufatto, aumento del numero dei piani, creazione di un piano seminterrato, modifica del prospetto esterno).
La nozione di “variante”, infatti, deve ricollegarsi a modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto all’originario progetto e gli elementi da prendere in considerazione, al fine di discriminare un nuovo permesso di costruire dalla variante ad altro preesistente, riguardano la superficie coperta, il perimetro, la volumetria, le distanze dalle proprietà viciniori, nonché le caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed esterne, del fabbricato (vedi C. Stato, Sez. IV, 11 aprile 2007, n. 1572).
Il nuovo provvedimento (da rilasciarsi con il medesimo procedimento previsto per il rilascio del permesso di costruire) rimane in posizione di sostanziale collegamento con quello originario ed in questo rapporto di complementarietà e di accessorietà deve ravvisarsi la caratteristica distintiva del permesso in variante, che giustifica – tra l’altro – le peculiarità del regime giuridico cui esso viene sottoposto sul piano sostanziale e procedimentale.
Rimangono sussistenti, infatti, tutti i diritti quesiti e ciò rileva specialmente nel caso di sopravvenienza di una nuova contrastante normativa che, se non fosse ravvisabile l’anzidetta situazione di continuità, renderebbe irrealizzabile l’opera.
In ogni caso deve riconoscersi il carattere di nuovo permesso di costruire ad un provvedimento che, nonostante la qualificazione formale di variante, autorizzi invece la realizzazione di un manufatto completamente diverso da quello originario.
2) Costituisce, poi, “variante essenziale” ogni variante incompatibile con il disegno globale ispiratore del progetto edificatorio originario, sia sotto l’aspetto qualitativo che sotto l’aspetto quantitativo.
Nel T.U. n. 380/2001 non si rinviene alcun riferimento espresso all’istituto della variante essenziale ma, per la configurazione dell’ambito di tale istituto, può essere utile tenere conto della definizione (comunque non coincidente e che non ne esaurisce il concetto) di “variazione essenziale” posta dall’art. 32 del T.U. n. 380/2001. Ed ai sensi dell’art. 32 (ferma restando la possibilità di una più articolata specificazione demandata alle Regioni) potrà aversi variazione essenziale “esclusivamente quando si verifica una o più delle seguenti condizioni”:
mutamento della destinazione d’uso che implichi variazione degli standards previsti dal D.M. 2-4-1968, n. 1444;
aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, da valutare in relazione al progetto approvato;
modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza;
mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentito;
violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.
Non costituiscono in alcun caso variazioni essenziali quelle che incidono sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative.
Le istanze per la realizzazione di varianti essenziali sono da considerarsi sostanzialmente quali richieste di un nuovo ed autonomo permesso di costruire e sono soggette, quindi, alle disposizioni vigenti nel momento in cui viene chiesto al Comune di modificare il progetto originario, perché in effetti non si tratta solo di modificarlo, ma di realizzare un’opera diversa, nelle sue caratteristiche essenziali, rispetto a quella originariamente assentita.
3) Caratteri peculiari presentano le c.d. “varianti leggere o minori in corso d’opera” (già disciplinate dall’art. 15, 12° comma, della legge n. 10/1977 e poi dall’art. 15 della legge n. 47/1985, modificato nuovamente dalla legge n. 662/1996).
Attualmente l’art. 22, 2° comma, del T.U. n. 380/2001 — come modificato dal D.Lgs. n. 301/2002 — prevede che sono sottoposte a segnalazione certificata di inizio dell’attività (SCIA) le varianti a permessi di costruire che:
non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie (deve ritenersi che, tra i “parametri urbanistici” vanno ricomprese anche le distanze tra gli edifici);
non modificano la destinazione d’uso e la categoria edilizia;
non alterano la sagoma dell’edificio;
non violano le prescrizioni eventualmente contenute nel permesso di costruire.
In tal caso la SCIA (ai fini dell’attività di vigilanza urbanistica ed edilizia, nonché ai fini del rilascio del certificato di agibilità) costituisce parte integrante del procedimento relativo al permesso di costruire e può essere presentata fino alla dichiarazione di ultimazione dei lavori e comunque non successivamente alla stessa.
Il comma 2bis dell’art. 22 del T.U. n. 380/2001, introdotto dal D.L. n. 133/2014, ha prescritto che sono realizzabili mediante SCIA e comunicate a fine lavori con attestazione del professionista le varianti a permessi di costruire che non configurano una variazione essenziale, a condizione che siano conformi alle prescrizioni urbanistico-edilizie e siano attuate dopo l’acquisizione degli eventuali atti di assenso prescritti dalla normativa sui vincoli paesaggistici, idrogeologici, ambientali, di tutela del patrimonio storico, artistico ed archeologico e dalle altre normative di settore.
È stata così ampliata la casistica delle variabili non essenziali attuabili in corso d’opera, allo scopo di evitare che i lavori restino sospesi in attesa di provvedimento amministrativo.
Le variazioni realizzate rimangono comunque sotto la responsabilità del progettista e del direttore dei lavori e sono soggette alle sanzioni per eventuali difformità riscontrate, in sede di controllo delle opere, dalle amministrazioni competenti, a seguito della comunicazione di fine lavori.
Le varianti sono autonomamente impugnabili (da chi abbia interesse a ricorrere) soltanto in relazione alla parte in cui introducono elementi non previsti dal progetto originario; mentre la mancata impugnazione della variante non comporta l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse di un ricorso giurisdizionale già proposto avverso l’originario provvedimento (così C. Stato, sez. V, 10 luglio 1981, n. 363, in Foro amm., 1981, I, 1636).
In giurisprudenza:
«Al fine di identificare la concessione in variante e per distinguerla dalla nuova concessione, occorre che le modifiche quantitative e qualitative siano compatibili con il disegno globale che ha ispirato il progetto originario, sicché la costruzione possa considerarsi tuttora regolata dalla prima concessione» (C. Stato, sez. V, 19 novembre 1994, n. 1333, in Cons. Stato, 1994, I, 1569).
«Indipendentemente dal nomen iuris, ha natura di variante di precedente concessione edilizia il provvedimento che introduca modifiche quantitative o qualitative che, in riferimento alla valutazione complessiva dell’erigendo edificio, risultino di modesta entità in modo da potersi ritenere che la costruzione sia regolata dall’originaria concessione che conserva la sua efficacia ex tunc; ove, invece, sulla base di un progetto modificativo di alcuno degli elementi essenziali di quello originario venga autorizzata la costruzione di nuove opere, il nuovo provvedimento ha carattere di nuova concessione» (C. Stato, sez. V, 25 novembre 1988, n. 745, in Riv. giur. edilizia, 1989, I, 19).
«La variante di concessione edilizia è ipotizzabile solo quando il nuovo progetto di costruzione introduce modifiche qualitative o quantitative di limitata consistenza e di scarsissimo valore rispetto al complesso dell’edificio, in modo che la costruzione possa considerarsi ancora regolata dalla prima concessione, che conserva intatta la sua efficacia ex tunc per quella parte del progetto che non è stata modificata. La realizzazione di un progetto edilizio volto a modificare la struttura, la sagoma, le caratteristiche esterne e gli aspetti architettonici di edifici in precedenza autorizzati necessita di una nuova concessione edilizia e non di variante» (C. Stato, sez. V, 11 maggio 1989, n. 272, in Riv. amm., 1989, 1402).
«Allorché venga aumentata la superficie utile calpestabile in misura superiore al dieci per cento e/o la costruzione assentita venga ad essere sostanzialmente alterata nella struttura e nella sagoma, la variazione va qualificata essenziale, con conseguente necessità, ai sensi dell’art. 15 L. 28 gennaio 1997, n. 10, di una nuova concessione edilizia e non di una semplice autorizzazione in variante» (Cons. giust. amm. sic., sez. giurisdiz., 21 giugno 1996, n. 197, in Giust. amm. sic., 1996, 77).
«In tema di reati edilizi, rientrano nella nozione di «varianti» e, in quanto tali, possono costituire oggetto del c.d. «permesso in variante», soltanto le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, che siano tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione (in motivazione la Corte ha precisato che deve riconoscersi il carattere di nuovo permesso di costruire e non di permesso in variante al provvedimento che autorizza la realizzazione di un manufatto completamente diverso da quello originario)» (Cass. pen., sez. III, 20 gennaio 2009, n. 9922, Geloai, in Riv. giur. edilizia, 2009, I, 955).
«Posto che la variante ad una preesistente concessione deve essere compatibile con il disegno originario ispiratore del progetto edilizio, avuto riguardo alle modificazioni quantitative e qualitative della superficie coperta, del perimetro, della volumetria, ed alle caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed esterne del fabbricato, non è oggetto di nuova concessione, ma costituisce variante «ubicativa» soggetta alla normativa vigente al momento del rilascio della concessione originaria, la parziale rilocalizzazione di un capannone industriale, ottenuta con traslazione e rotazione, tale da contenere la modifica della nuova sagoma a terra dell’edificio entro il cinquanta per cento dell’originaria localizzazione» (C. Stato, sez. V, 4 gennaio 1993, n. 26, in Riv. giur. edilizia, 1993, I, 327).
«Deve ritenersi variante edilizia il mutamento rispetto all’originario progetto edilizio consistente nella lieve traslazione verso l’interno di uno dei corpi di fabbrica, ove non sia ravvisabile un’alterazione del disegno globale ispiratore del progetto» (C. Stato, sez. V, 7 maggio 1991, n. 772, in Foro amm., 1991, 1428).
«Costituisce concessione in variante, di portata sostanzialmente confermativa, il provvedimento con il quale si prende atto di un modesto spostamento planimetrico, risultando irrilevante a tal fine la necessità di un nuovo nulla osta paesistico» (T.a.r. Venezia, sez. II, 7 novembre 1995, n. 1343, in Foro amm., 1996, 1632).
«Deve considerarsi variante essenziale — comportante rilascio di nuova concessione edilizia e non variante della concessione precedente — la trasformazione di un edificio adibito ad albergo in appartamenti ad uso residenziale» (C. Stato, sez. V, 10 maggio 1988, n. 303, in Riv. giur. edilizia, 1988, I, 609).
«Costituisce nuova concessione di costruzione, e non variante a licenza edilizia, l’atto con cui viene autorizzata la realizzazione di un unico edificio in luogo dei due precedentemente assentiti, con mutamento di ubicazione, forma e volumetria, ancorché questa sia stata diminuita» (C. Stato, sez. V, 11 maggio 1989, n. 272, in Riv. giur. edilizia, 1989, I, 675).
«Ai sensi dell’art. 17, 6° comma L. 6 agosto 1967, n. 765, è legittimo il diniego della variante alla licenza edilizia per la trasformazione in volumi utili dei volumi tecnici (che sono quelli che non adempiono ad una funzione essenziale in relazione all’uso della costruzione principale, o quelli che non sono funzionalmente asserviti alla costruzione, ovvero quelli che non assumono il carattere di vani chiusi utilizzabili come tali), a nulla rilevando il rispetto della sagoma originale del fabbricato, che non può non essere ritenuta intimamente connessa alla destinazione d’uso» (C. Stato, sez. V, 16 aprile 1982, n. 281, in Riv. giur. edilizia, 1982, I, 516).
«Al fine di identificare la concessione in variante e per distinguerla dalla nuova concessione di costruzione occorre che le modifiche quantitative siano compatibili col disegno globale che ha ispirato il progetto originario, sicché la costruzione possa considerarsi tuttora regolata dalla prima concessione; pertanto, poiché la variante non implica una radicale modifica delle previsioni originarie e la concessione conserva inalterata la sua efficacia ex tunc per la parte non modificata, deve applicarsi il diritto vigente al momento del rilascio del primo provvedimento concessorio» (T.a.r. Valle d’Aosta, 20 marzo 1998, n. 40, in Trib. amm. reg., 1998, I, 1780).
«Attesa la mancanza di autonomia tra il provvedimento di variante e l’atto di concessione originaria, devono ritenersi inapplicabili, in sede di rilascio di una concessione edilizia in variante, le sopravvenienze normative intervenute medio tempore (nella specie, è stata ritenuta inapplicabile ad un progetto in variante la L. n. 122 del 1989 siccome non operante alla data del rilascio della concessione edilizia originaria)» (T.a.r. Lombardia, sez. II, 27 marzo 1992, n. 213, in Riv. giur. edilizia, 1992, I, 946).
«Il progetto di variante di concessione edilizia non è situazione autonoma rispetto al progetto già assentito, nel senso che la variante segue le sorti della concessione originaria, per cui, qualora il comune non provveda al previo, o contestuale, annullamento díufficio della originaria concessione, non può legittimamente addurre a ragioni di diniego della variante edilizia vizi che non attengono alla variante stessa, bensì all’insediamento originariamente assentito e giudicato compatibile» (T.a.r. Puglia, sez. II, 8 settembre 1994, n. 1229, in Trib. amm. reg., 1994, I, 4176).
Le varianti riduttive dell’altezza e della volumetria
Interessante questione investe il tema della riduzione delle dimensioni di un edificio (in altezza e/o volumetria) rispetto a quelle assentite con il permesso di costruire, fermi restando o solo marginalmente modificandosi gli altri elementi essenziali del progetto (destinazione d’uso, area di sedime, tipologia edilizia etc.). Si tratta di stabilire, infatti, se tale riduzione debba essere qualificata variante essenziale, con la conseguente necessità di richiedere un nuovo permesso di costruire conforme alla disciplina urbanistica vigente al momento del suo rilascio o sia qualificabile, invece, come variante non essenziale, soggetta a SCIA in una situazione in cui resta pienamente efficace il permesso di costruire già rilasciato, senza che abbia rilievo una eventuale disciplina urbanistica preclusiva sopravvenuta.
La dottrina rileva che:
nel diritto riconosciuto, attraverso il rilascio del permesso di costruire, di realizzare un edificio di una determinata altezza e volumetria è da ritenere ricompresa – per il principio di logica elementare che “nel più è compreso il meno” – la facoltà del proprietario di realizzarne uno più piccolo, a condizione che ciò non comporti lo snaturamento delle altre caratteristiche essenziali e che il proprietario lo comunichi preventivamente all’amministrazione (AMOROSINO);
l’ipotesi di variazione essenziale si configura esclusivamente quando i parametri indicati dall’art. 32, comma 1 – lett. b) e c), del T.U. n. 380/2001 sono modificati in aumento e non in diminuzione (VIVA).
Anche la giurisprudenza amministrativa è orientata nel senso che è facoltà del privato, compresa nel diritto di costruire riconosciutogli dal permesso edilizio, comunicare all’amministrazione mediante la SCIA l’intenzione di ridurre l’altezza o la volumetria dell’edificio già assentito, in quanto tale riduzione non è qualificabile come variazione essenziale (si vedano, al riguardo, le sentenze nn. 5496/2001 e 927/2012 della V sezione del Consiglio di Stato, nonché la sentenza n. 1614/2012 del T.a.r. Toscana, sez. III).
In senso contrario il Consiglio di Stato si è espresso, invece, in un’ipotesi in cui alla diminuzione dell’altezza si era accompagnata una diminuzione della volumetria distribuita però su una maggiore superficie congiuntamente ad una variazione delle caratteristiche esterne del fabbricato (C. Stato, sez. V, 8 febbraio 1988, n. 52).
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