Via da te: storia di un lavoro tormentato

Via da te: storia di un lavoro tormentato

Il recente contributo della giurisprudenza della Corte di Cassazione è sintomatico della crescente supervisione giurisprudenziale nel mondo del lavoro, a fronte di situazioni che possono renderlo scomodo. Si parla di stalking “lavorativo”, reato che rende giusta la causa di licenziamento dal 28 gennaio 2020, così come statuito dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 1890/2020.

Il caso è il licenziamento di un lavoratore, a seguito di condotte insistenti ai danni di una sua collega di lavoro, per mancata accettazione della fine della loro relazione extra-lavorativa. La condotta incriminante consiste nell’invio assiduo di sms e mms dal contenuto erotico, di esibizione degli stessi anche al marito della vittima, nonché di pedinamenti e diffusione del recapito telefonico della vittima presso luoghi pubblici, seguito da invito a contattarla per prestazioni sessuali.[1] Sebbene il ricorrente contesti il licenziamento su tre ordini di ragioni: l’omesso esame del comportamento non pregiudizievole nei confronti della collega dal 2013, l’omesso esame della richiesta di trasferimento ad altro settore lavorativo, la violazione dell’articolo 2119 c.c., la Corte di Cassazione reputa il ricorso infondato. Infatti, la Suprema Corte osserva che la giusta causa è nozione legale, per cui non rileva il problema della corretta interpretazione della norma, la quale è in grado di indicare solo in via generale i parametri normativi e di rilasciare al giudice il compito di integrarla di volta in volta in base alle evoluzioni sociali, perché la rubrica dell’articolo 2119 c.c. si limita a definire giusta, la causa che non consente la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro.[2]

Ecco che l’evoluzione sociale si presenta e si conferma, dunque, la duttilità della giusta per comprendere come non c’è stata violazione della stessa, ma al contrario, dignitosa applicazione. Non è un caso che la dottrina e la conforme giurisprudenza a riguardo, ammettano che rientrano nella nozione di “giusta causa” non solo i comportamenti che costituiscono un grave inadempimento contrattuale, ma anche quei fatti avulsi dal rapporto di lavoro, tali da rendere fragile il vincolo di fiducia che nasce tra il datore ed il lavoratore.[3] La lettura della norma, dunque, offre un’interpretazione più oggettiva, tenuto conto dell’articolo 9 R.D.L. 13 novembre 1924 n. 1825, il quale prevede il licenziamento del lavoratore solo per causa così grave, da non consentire la prosecuzione del rapporto lavorativo e dell’articolo 3 L. 604/1966, basato sul “notevole inadempimento” degli obblighi contrattuali del rapporto di lavoro.[4] Al contrario, l’interpretazione soggettiva valuta come giusta causa di licenziamento solo un grave inadempimento della obbligazione lavorativa. Ma la disputa interpretativa sembra orientarsi più verso una qualificazione oggettiva di giusta causa, alla stregua, altresì, di quegli obblighi accessori, normativamente inseriti negli artt. 2104 e 2105 c.c. che disciplinano la diligenza del prestatore di lavoro e l’obbligo di fedeltà, in senso lato da estendere anche a quei comportamenti ravvisabili oltre il contesto lavorativo che possano pregiudicare il vicolo fiduciario. Non a caso, la stessa Corte di Cassazione, in una precedente sentenza conforme, stabilisce che per «giustificare un licenziamento disciplinare, i fatti devono ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario; la relativa valutazione deve essere operata con riferimento agli aspetti del singolo rapporto, al nocumento arrecato e all’intensità dell’elemento intenzionale».[5]

Su questi presupposti siede la scelta della Suprema Corte di Cassazione di inserire, tra i motivi che legittimano il licenziamento per giusta causa, anche la condotta che corrisponde ai parametri dell’articolo 612 bis c.p. È un reato introdotto con L. n. 38/2009, per contrastare il fenomeno dello stalking, di ormai portata mondiale che tocca vittime, per la maggior parte, di sesso femminile, per causa dei loro ex partner, vicini di casa, colleghi di lavoro.[6] Il fenomeno consiste nel reiterare condotte minacciose o moleste, al fine di perpetrare, nei confronti di chi le subisce, un perdurante e grave stato di ansia o di paura per l’incolumità propria, di un prossimo congiunto, di persona legata e di costringerlo ad alterare le proprie abitudini di vita.[7] Proprio quanto accade alla vittima di condotte di tal natura da parte del suo collega di lavoro, il quale riveste l’atteggiamento tipico di chi si accinge, anche inconsapevolmente, all’essere stalker. Come in genere accade, il fattore scatenante la molestia si ravvisa nella difficoltà, da parte dell’autore del reato, di accettare la fine di una relazione di tipo sentimentale, si pensi che il comportamento persecutorio dopo l’evento separazione continua per mesi nel 58,8% delle vittime e nel 20,4% dei casi dura per più di un anno[8]. Ma, nel caso di specie, si ravvisa addirittura un mutamento dalla condotta molesta a quella più ostinata di vendetta, accolta dietro il termine di Revenge porn, oggi punita dall’articolo 612 ter. Infatti, il ricorrente esibisce contenuti sessualmente espliciti anche al marito della vittima, ove chiaramente il consenso a questo tipo di trattamento dei dati più intimi non viene prestato, in piena conformità al dettato normativo che punisce colui il quale «dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate». Orbene, entrambe le condotte lesive lasciano dedurre un notevole stato di ansia, fonte di stress in danno alla prestatrice di lavoro, conscia di dover condividere la sua giornata lavorativa con il soggetto che infligge tale malessere; la risposta immediata del datore di lavoro a questa circostanza è il licenziamento, in forza della tutela delle condizioni di lavoro che l’imprenditore deve garantire ai suoi prestatori ex art. 2087 c.c. La norma fa riferimento alle misure necessarie «a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro», esse sono senz’altro materiali, ma, in realtà, possono estendersi altresì ad un’accezione più dinamica includendo quelle situazioni in cui la integrità psico-fisica del prestatore possa essere lesa dall’attività o dall’ambiente di lavoro in cui si trova ad operare. Sia la dottrina che la giurisprudenza odierna arricchiscono il contenuto dell’articolo 2087 c.c. inserendo la personalità morale del lavoratore, oggetto di protezione della norma e ravvisando che, comportamenti lesivi, come molestie sessuali e simili, possano generare la sua violazione, la quale deve cessare a seguito del controllo e dell’intervento da parte del datore di lavoro, al fine di rimuovere il nocumento psico-fisico che uno dei suoi prestatori subisce.[9] D’altronde, non è il solo codice civile che dispone poteri di intervento in capo al datore di lavoro; l’impianto tecnico di matrice giuslavorista del D.lgs. 81/2008 affronta l’aspetto immateriale del tipico stress da lavoro, che, considerato nella generica accezione di «rischio», non è delegabile dal datore di lavoro ad altri.[10] La specificazione di tale indicazione si fa spazio nell’articolo 28 del D.lgs. 81/2008, perché nell’oggetto di valutazione dei rischi rientra altresì lo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004.[11] Il bisogno di considerare lo stress come possibile rischio a cui il datore di lavoro deve dar conto risponde ad un’esigenza qualitativa della prestazione che rende il lavoratore, infatti, più le condizioni circostanti sono a lui favorevoli, migliore sarà il risultato finale reso, ma non solo, l’esigenza è anche umana: il prestatore di lavoro deve sfruttare a pieno le sue potenzialità senza lasciarsi sopraffare dal disagio “stress“, che può derivare dal c.d. mobbing, dalle molestie sessuali, da quelle discriminatorie, dal troppo carico di lavoro, dal rapporto con gli altri colleghi, dagli orari sproporzionati e molte altre cause scatenanti. Dunque, l’interesse a tutelare anche l’intangibilità di tale rischio è sentore di un nuovo approccio alla gestione della sicurezza sul luogo di lavoro, basato non più solo sul contenimento della causazione di un danno fisico ma anche sulla prevenzione circa i rischi che attentano alla salute psico-fisica del prestatore di lavoro.[12]

Senz’altro, la reiterazione di atteggiamenti persecutori per un tempo prolungato, genera stress nell’accezione più ampia, anzi, spesso è fattore aggravante l’elemento lavoro perché offre allo stalker maggiore controllo e possessione della vittima, dato che, almeno la metà della giornata di un prestatore di lavoro è impegnata sul luogo di lavoro. Dunque, la ricerca di rimedi esperibili dai datori di lavoro dovrebbe orientarsi sulla richiesta e di specialisti in materia e non solo nelle più grandi imprese, anche in quelle medie e piccole, in cui proprio la minor presenza di personale può generare eventi ritorsivi verso vittimi di questa tipologia di reato. L’intervento di esperti in psicologia potrebbe anticipare la soglia di rimozione del pregiudizio che subisce il lavoratore e non solo, addirittura evitare che questo sorga, tramite l’ascolto quotidiano di colui il quale sente di dover sollevare un problema, al fine di rimuoverlo.

Abbattere la convinzione che sia sufficiente il solo medico del lavoro per sanare un indefinito danno dei lavoratori, è un primo approccio per cucire le maglie di una più innovativa gestione del rischio da lavoro dipendente, perché il benessere fisico cede facilmente, se viene a mancare quello mentale, lasciando spazio a sottovalutate frustrazioni. La Suprema Corte ne delinea il principio di diritto, slanciando una plausibile innovazione in materia, spetta, ora, definire nella prassi mutevole l’adattamento conforme alle esigenze di tutti

 

 

 

 


[1] Sentenza Corte di Cassazione Sez. Lavoro, No. 1890/2020, http://www.italgiure.giustizia.it/sncass/. Consultato il 22/10/2020.
[2] E. GHERA, A. GARILLI, e D. GAROFALO, Diritto del lavoro. Terza edizione, 2017. Torino, G. Giappichelli Editore, 262-263.
[3] 2119 c.c. RECESSO PER GIUSTA CAUSA. In CODICE CIVILE COMMENTATO. WOLTERS KLUWER ITALIA. Consultato 25 novembre 2020. https://pluris- cedam.utetgiuridica.it/cgi-bin/DocPrint.
[4] L. BARON. Condotte extra-lavorative penalmente rilevanti e licenziamento ex art. 2119 c.c. Il Lavoro nella giurisprudenza n. 10/2019. 921-932. Consultato il 25/11/2020.
[5] Cfr. Ordinanza Corte di Cassazione Sez. VI Civile, No. 28492/2018. http://www.italgiure.giustizia.it/sncass/. Consultato il 22 novembre 2020.
[6] L. DE FAZIO, Gli “Atti persecutori”: una nuova tipologia di reato per un antico comportamento. Rassegna Italiana Di Criminologia, n. 63/2014, 144–145. Consultato il 20/11/2020.
[7] G. FIANDACA-E. MUSCO. Diritto penale-parte speciale, volume II, tomo primo, i delitti contro la persona. Quarta edizione, 2017. Bologna. Zanichelli editore, 224-234.
[8] ISTAT, Comunicato Stampa: Stalking sulle donne, 24 novembre 2016. https://www.istat.it/it/archivio/5348. Consultato il 20/11/2020.
[9] 2087 c.c. TUTELA DELLE CONDIZIONI DI LAVORO. In CODICE CIVILE COMMENTATO. WOLTERS KLUWER ITALIA. Consultato 25 novembre 2020. https://pluris-cedam.utetgiuridica.it/cgi-bin/DocPrint.
[10] Art. 17 comma 1 lett. a) D.lgs. 81/2008 «Il datore di lavoro non può delegare le seguenti attività: a) la valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del documento previsto dall’articolo 28; b) la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi».
[11] Accordo europeo 8 ottobre 2004. Accordo siglato da CES- Sindacato Europeo; UNICE-confindustria europea; UEAPME- associazione europea artigianato e PMI; CEEP- associazione europea delle imprese partecipate dal pubblico e di interesse economico generale. http://www.actas.it/site/actas/resources/structure/documents/accordo_europeo_stress_lavoro.pdf. Consultato il 25 novembre 2020.
[12] V. PASQUARELLA. La valutazione del rischio da stress lavoro correlato tra fonti europee ed eterogenee fonti nazionali. Il lavoro nella Giurisprudenza, n.1/2012. 29-40. Consultato il 27/11/2020.

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Roberta Chilelli

Sono Roberta Chilelli, laureata in giurisprudenza presso l'Università degli studi di Urbino "Carlo Bo" con una tesi in Diritto Penale "L'eco silente dell'immanenza dei diritti fondamentali nel diritto penale". Amante della lettura e della scrittura, insieme con la ricerca che consente di dare una voce sperimentale alle mere intuizioni.

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