Violenza assistita: iter normativo e modifiche all’art. 572 c.p.

Violenza assistita: iter normativo e modifiche all’art. 572 c.p.

Riferimenti normativi, origine ed evoluzione: l’estensione della tutela

Introdotta nell’art. 61 c. 11-quinquies c.p. d.l 14 agosto 2013 n. 93, convertito in L. 15 ottobre 2013 n. 119 (“Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere”) e successivamente modificata ex art. 9 c.1 L. 19 luglio 2019 n.69, l’aggravante della c.d. “violenza assistita” si declina quale costrutto giuridico in risposta alla crescente esigenza di tutela dei soggetti considerati, secondo un’espressione ormai consolidata, “vulnerabili” e pertanto bisognosi di particolare attenzione da parte delle istituzioni. Il comma citato infatti recita che l’aggravante in oggetto si applica nelle ipotesi in cui l’autore abbia “nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale e contro la libertà personale, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza”. Orbene, il decreto richiamato si pone chiaramente come “risposta” nazionale alla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa, ratificata con l. 27 giugno 2013 n.77, nel cui testo si rinviene all’art. 46 lett. d) un espresso riferimento alla disciplina della “violenza assistita” (“il reato è stato commesso su un bambino o in presenza di un bambino”).

La rilevanza penale del comportamento commesso “in presenza” del minore, tuttavia, risultava deducibile ben prima dell’emanazione della legge anche nel panorama nazionale. La Corte di Cassazione, difatti, con sentenza Cass. Pen., Sez. V n. 41142 del 22 ottobre 2010, considera il fatto meritevole di tutela, sussumendo il comportamento nell’art. 572 c.p., valorizzando “l’esposizione del minore alla percezione di atti di violenza condotti nei confronti di altri componenti del nucleo familiare”, tenendo in conto pertanto il clima di sofferenza generalizzato che si crea all’interno del contesto di sopraffazione e vessazione. Tra le conseguenze processuali della “violenza assistita” si registra, inoltre, la legittimazione del soggetto minore persona offesa a costituirsi parte civile nel processo, come da sentenza Cass. Pen., Sez. III n. 45403 del 17 maggio 2016 (dep. 27 ottobre 2016). Nel caso di specie, relativo ad una ipotesi di violenza sessuale commessa ai danni di una donna incinta in presenza di un minore di anni 18, i giudici di legittimità hanno riconosciuto al minore stesso la legittimazione ad agire in giudizio costituendosi parte civile (tramite il tutore) al fine di vedersi riconoscere il risarcimento dei danni derivanti dal patimento psicologico ed emotivo conseguente alla visione dell’atto di violenza.

La violenza assistita nell’art. 572 c.p.

Anche a seguito del susseguirsi nella cronaca giudiziaria di eventi di violenza c.d. “domestica”, il legislatore nazionale ha avvertito l’esigenza di introdurre ulteriori modifiche alla disciplina con la L. n. 69/2019 (art. 9, c. 2, lett c). Parallelamente all’abrogazione del secondo comma, è stato introdotto il quinto comma dell’art. 572 c.p. che, nella sua brevità espositiva, racchiude elementi e principi ben più vasti. Il testo, infatti, recita che “Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa del reato”. La disposizione, concisa e priva di ulteriori specificazioni, risponde all’esigenze sociali di ricomprendere nella posizione di “persona offesa dal reato” una vasta platea di soggetti che, per la loro condizione di minorenni (e per gli effetti che ne possano derivare sulla loro crescita morale ed emotiva), si trovino nella situazione di assistere a violenze perpetrate nel contesto di riferimento.

Nella legge richiamata, nota come “Codice rosso”, che ha apportato significative modifiche in tema di violenza di domestica e di genere, si fa chiaro riferimento all’esigenza di tutelare il minore (senza distinzioni tra “fasce di età”) coinvolto suo malgrado in comportamenti violenti perpetrati più di frequente da un genitore nei confronti dell’altro genitore. Nelle intenzioni del legislatore, pertanto, l’aggravante mira ad estendere la tutela penale nei confronti di soggetti “deboli” costretti in un contesto domestico di violenza reiterata tale da condizionare profondamente e incidere negativamente sulla loro personalità.

L’aggravante, che richiama i comportamenti di cui al comma 1, si inserisce nel più ampio disegno di riforma delle fattispecie del titolo XI del libro II del nostro codice penale, che disciplina appunto i delitti contro la famiglia ossia tutte quelle fattispecie di reato che offendo e/o mettono in pericolo il bene giuridico “famiglia” intesa nell’accezione più ampia al fine di ricomprendere ogni forma di contesto affettivo entro il quale si instaurino relazioni stabiliti e durature. Nello specifico, l’art. 572 c.p., rubricato “Maltrattamenti contro familiari e conviventi” a seguito di modifiche introdotte dall’art. 4 l. 1 ottobre 2012 n. 172 (in precedenza tale disposizione si riferiva ai “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”), si preoccupa invero di disciplinare anche le ipotesi di maltrattamento nei confronti di soggetti affidati all’autore per “ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia o per l’esercizio di una professione o di un’arte”. Orbene, dalla lettura del primo comma dell’articolo in oggetto appare ben chiara l’intenzione del legislatore di ampliare la portata applicativa della norma fino a ricomprendere ipotesi in cui, pur difettando l’elemento della stabilità ed emotività che funge da collante dei legami familiari e interpersonali in genere, il soggetto si trovi comunque in una posizione di sudditanza morale, lavorativa, psicologica. Il richiamo ai motivi più vari presuppone sempre l’esistenza di una “gerarchia”, sia pure intesa sotto forma di sudditanza psicologica, tra l’autore e la persona offesa dal reato.

Il comportamento maltrattante, già autonomamente elemento costitutivo del reato, si considera pertanto aggravato dalla presenza durante il fatto violento di soggetto minore finalmente ritenuto non più inerme testimone, ma ulteriore persona offesa bisognosa di interventi atti a “curare” e ricomporre gli effetti dannosi della partecipazione “subita” all’atto di violenza.


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