Violenza assistita: nuova espressione dell’abuso minorile
Sommario: 1. Introduzione – 2. La c.d. violenza assistita: delimitazione della fattispecie – 3. Il delitto ex art. 572 c.p. – 4. Violenza assistita: tra autonoma rilevanza penale e mera aggravante del delitto ex art. 572 c.p. – 4.1 Pronunce giurisprudenziali – 5. Conclusioni: le vittime del c.d. “danno invisibile”
1. Introduzione
Prima di procedere alla disamina del tema della “violenza assistita”, e della sua riconducibilità nel più ampio fenomeno della violenza domestica, giova senz’altro operare talune premesse di carattere generale in ordine ai doveri dei genitori nei riguardi della prole.
Specificamente l’art. 147 c.c. sancisce che i genitori sono tenuti all’adempimento dei doveri tendenti all’assistenza morale, oltreché economica, e all’educazione della prole. La potestà genitoriale abbraccia l’insieme dei poteri e dei doveri che devono esercitarsi nell’esclusivo interesse del minore e ricomprende tutte le misure dirette allo sviluppo armonico della sua personalità. Ciò viene reso possibile nel momento in cui l’animus su cui si fonda l’agire di ciascun genitore risulti improntato all’affettività, alla condivisione, al dialogo e alla reciproca cura; e il mantenimento di tale status si riflette inevitabilmente sul processo di crescita morale e sociale dei figli.
Cionondimeno, accade sovente che l’equilibrio del rapporto di coniugio – che del resto rappresenta il fondamento della famiglia stessa – venga compromesso da azioni violente e prevaricanti che, benché non rivolte direttamente alla prole, sono perpetrate da una genitore nei confronti dell’altro. I figli divengono così, loro malgrado, spettatori vulnerabili e impotenti, mentre prendono consapevolezza di accadimenti destinati a riverberare irreversibilmente ogni effetto sul loro sviluppo psicologico e relazionale.
2. La c.d. “violenza assistita”: delimitazione della fattispecie
Il legislatore ha riservato crescente attenzione al fenomeno della c.d. violenza assistita o indiretta, concernente tutte quelle condotte che, pur non manifestandosi mediante violenza fisica diretta sul minore, cagionino allo stesso sofferenze psicologiche. I casi principali vedono il soggetto fragile costretto ad assistere a episodi di violenza rivolti a una persona, spesso la madre, cui sia legato da vincoli affettivi.
La prima definizione del fenomeno viene data dal CISMAI (1), seconda la quale è violenza assistita: “il fare esperienza da parte del minore di qualsivoglia forma di maltrattamento, realizzato con atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulti o minori”.
A ciò si aggiunga che la l’assoggettamento del minore alla condotta violenta non si manifesta unicamente mediante visione diretta della sua consumazione, ben potendo realizzarsi assistendo agli effetti susseguenti di questa – i segni che una violenza fisica, in particolare, può lasciare sul corpo della vittima, il clima di generale tensione che infonde e tutte le emozioni avverse a essa connesse, destinate a insinuarsi nella vita quotidiana – e, dunque, in virtù di una percezione posteriore.
L’intensità degli effetti che da tale esperienza traumatica scaturiscono sono destinati ad assumere una connotazione sempre più grave in relazione all’età della vittima, alla frequenza degli episodi e alla loro modalità di svolgimento.
3. Il delitto ex art. 572 c.p.: disciplina normativa
Occorre preventivamente soffermarsi sulla disciplina normativa del reato ex art. 572 c.p. (“Maltrattamenti contro familiari o conviventi“) (2), la cui ratio legis è quella di salvaguardare l’integrità psico-fisica delle persone facenti parte del nucleo familiare o para-familiare.
Innanzitutto, l’art. 572 c.p. fa riferimento a due diverse tipologie di condotte in quanto punisce:
‐ chi “maltratta una persona della famiglia”, ossia una persona facente parte del “nucleo familiare”;
‐ chi pone in essere i maltrattamenti nei confronti di un soggetto in condizioni di inferiorità fisica ovvero psicologica, minore degli anni quattordici, persona sottoposta all’autorità dell’agente o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia o per l’esercizio di una professione o di un’arte.
La fattispecie tipizzata dalla norma in esame ha natura di reato proprio, attesa la sua realizzabilità solo da persone unite da un vincolo specifico con la vittima. Il vincolo familiare previsto non richiama solo il concetto di famiglia tradizionale fondata sul matrimonio, ma anche quello della famiglia more uxorio, nonché tutti quei contesti in cui sorgano legami di affettività tra i componenti. Al riguardo, si ricorda che già in una pronuncia degli anni sessanta veniva affermato che “agli effetti dell’art. 572 c.p., deve considerarsi “famiglia” ogni consorzio di persone tra le quali, per intime relazioni e consuetudini di vita, siano sorti legami di reciproca assistenza e protezione: anche il legame di puro fatto stabilito tra un uomo e una donna vale pertanto a costituire una famiglia in questo senso, quando risulti da una comunanza di vita e di affetti analoga a quella che si ha nel matrimonio”(3). Sulla stessa scia si pongono diverse pronunce successive. In particolare, deve darsi atto del mutato contesto sociale e morale di cui oggi fanno parte a pieno titolo le unioni di fatto.
Altro elemento che contraddistingue il reato de quo è l’abitualità, nel senso che le singole condotte che lo compongono, se considerate isolatamente, non costituiscono di per sé reato, ma sono suscettibili di diventarlo qualora vengano reiterate nel tempo. Non di eventi sporadici a carattere episodico deve, dunque, trattarsi, ma di atti connotati da una certa regolarità; siano essi di natura commissiva od omissiva, e accompagnati dall’intenzione cosciente e volontaria di produrre sofferenze (dolo generico) (4).
Giacché la condotta antigiuridica può consistere tanto in atti di violenza fisica quanto in atti di violenza psicologica, emotiva e verbale, il reato in esame assorbe i reati di percosse, minacce, atti persecutori, lesioni colpose lievi e lievissime.
Quanto alle conseguenze sulle vittime, l’evento tipico è costituito dalla continuità di sofferenza fisica e morale per il soggetto passivo, la quale è direttamente connessa all’effettiva consumazione del reato.
4. Violenza assistita: tra autonoma rilevanza penale e mera aggravante del delitto ex art. 572 c.p.
Le situazioni descritte in precedenza, che vedono il minore quale vittima di atti compiuti verso altri membri del nucleo familiare, non trovano corrispondenza in alcuna specifica fattispecie delittuosa. Ci si chiede, pertanto, se le stesse possano acquisire rilevanza penale seppure non normate nella specie, tali da poterle ricondurre entro fattispecie già esistenti e, in particolare, nell’ambito dell’art. 572 c.p.
4.1 Pronunce giurisprudenziali
Orbene, giova a tal proposito richiamare la sentenza n. 4332 del 20 gennaio 2015 con la quale la Suprema Corte ha statuito che a integrare il delitto ex art. 572 c.p. non sono esclusivamente gli atti commissivi diretti a ledere la persona offesa, ma anche le condotte omissive fondate sulla volontaria “indifferenza e trascuratezza” verso i basilari “bisogni affettivi e assistenziali” della prole da tutelare. Fra queste rientrano indubbiamente i casi in cui i figli vengono ridotti sistematicamente ad assistere a manifestazioni violente d’ogni natura.
A ulteriore sostegno di tale indirizzo, si evidenzia la sentenza della VI sezione penale n. 18833 (23-02-2018/02-05-2018). Il fatto oggetto della decisione riguardava due coniugi imputati per il delitto di maltrattamenti in famiglia a danno dei figli “per averli costretti a presenziare a reiterate manifestazioni di reciproca conflittualità realizzate nell’ambito del rapporto di convivenza… mediante ripetuti episodi di aggressività fisica e psicologica, con condotte vessatorie e continui litigi, minacce e danneggiamenti…”. La Corte di Appello (5) riconosceva la responsabilità penale dei coniugi. Successivamente, a seguito del ricorso presentato dalla difesa, la S.C. si pronunciava sull’inquadramento giuristico della c.d. “violenza assistita”. In particolare, dopo un excursus normativo sul delitto ex art. 572 c.p., la stessa ha precisato che la configurabilità di questo sussista anche in presenza di comportamenti violenti e vessatori che pure indirettamente coinvolgano minori definiti quali “involontari spettatori delle feroci liti e dei brutali scontri fra i genitori” che si esplicano dentro le mura domestiche, ovvero allorquando essi siano vittime di “violenza assistita”. Per vero, il bene giuridico tutelato dall’articolo in commento non è soltanto quello dell’interesse dello Stato a salvaguardare la famiglia da comportamenti violenti, ma anche quello della difesa dell’incolumità fisica o psichica dei suoi membri e la custodia dello sviluppo della loro personalità.
Attraverso una più recente pronuncia (sentenza n. 74/2021) la V sezione penale della Corte di Cassazione, ripercorrendo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, ha sancito che la condotta penalmente rilevante ex art. 572 c.p. ricomprenda non solo la violenza fisica, ma anche le offese alla dignità della vittima. Di talché, deve ritenersi integrato il reato di maltrattamenti anche nei riguardi dei figli, ancorché le condotte violente siano state tenute solo verso la madre (nel caso oggetto del quid decisum), in virtù della sofferenza cagionata dal clima che questo ha provocato all’interno del contesto familiare e non già da specifici comportamenti vessatori verso un determinato soggetto. Nel contempo la S.C. ha introdotto requisiti ulteriori che devono sussistere affinché possa configurarsi il delitto de quo. In primo luogo, è necessario che le condotte siano reiterate nel tempo; poi, occorre che la percezione da parte del minore degli effetti prodotti dalle condotte violente sia suscettibile di incidere sulla sua crescita, attraverso concrete e verificabili conseguenze.
La giurisprudenza di legittimità, in tal modo, ha inteso tracciare il discrimen tra la “violenza assistita”, intesa come espressione criminosa del delitto di maltrattamenti, e l’aggravante ex art. 61 n.11- quinquies c.p., quest’ultima riferita all’ipotesi in cui la violenza inferta non abbia in alcun modo influito negativamente sulla crescita e condizione dei figli, i quali abbiano solo assistito alla violenza o effetti di questa. Così la l. n. 119 del 2013 ha introdotto una circostanza aggravante per i delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale, e per il delitto di maltrattamenti: queste fattispecie sono aggravate quando siano commesse “in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza”.
Precisamente, se per il ricorrere della prima autonoma ipotesi sarebbe necessario che il minore percepisse le condotte violente reiterate traendone uno stato di sofferenza, per ritenere integrata l’ipotesi di aggravante, basterebbe che il fatto fosse commesso nel luogo in cui vi fosse contestualmente anche un minore, pur incapace, per età o altre ragioni, di comprendere a pieno l’offensività della condotta in danno di terzi; nè, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante, è richiesto che gli atti vessatori posti in essere alla presenza del minore siano abituali, essendo sufficiente che egli assista a uno solo di essi.
5. Conclusioni: le vittime del c.d. “danno invisibile”
Alla luce della disamina sin qui condotta, è possibile concludere che il minore che assista direttamente a condotte sistematiche di violenza, fisica o morale, a danno di terzi componenti del nucleo a cui appartiene, o solo indirettamente agli effetti di queste, subendone ogni conseguenza dannosa sulla psiche e, in generale, sul suo sviluppo, possa considerarsi persona offesa della fattispecie criminosa ex art. 572 c.p..
Il fine precipuo perseguito è quello di rafforzare la tutela penale in presenza di soggetti ritenuti particolarmente vulnerabili, fermo restando la complessità insita nel provare, in sede processuale, i danni patiti dal minore e l’arduità della dimostrazione, una volta rintracciati, del nesso di causalità intercorrente tra questi e le condotte violente di cui sia stato spettatore. Invero, gli effetti della violenza assistita vengono definiti “invisibili”(6) poiché non agevoli da rilevare sia sul piano giuridico che psicologico. Ma considerato che siffatta invisibilità non rende i danni meno intensi rispetto a quelli provocati da una violenza diretta, si rendono indispensabili interventi in aiuto alle giovani vittime di violenza assistita, che non devono esaurirsi nella sola tutela giudiziaria, ma segnatamente garantire concreti servizi di sostegno, che consentano la rilevazione degli abusi attraverso l’ascolto del minore e del genitore abusato.
Note
(1) CISMAI (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso dell’Infanzia) perviene alla definizione di “violenza assistita”, a seguito di numerosi studi scientifici, al III Congresso tenutosi a Firenze nel 2003, dal titolo “Bambini che assistono alla violenza domestica”.
(2) Dispositivo dell’art. 572 c.p. “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni. Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato“.
(3) Cassazione, sezione II, 26 maggio 1966, Palombo, in C.E.D. Cass. n. 101563.
(4) Ai fini dell’integrazione del reato in questione è necessaria la coscienza e la volontà dell’agente “di sottoporre i soggetti passivi ad una serie di sofferenze fisiche o morali in modo continuativo ed abituale” (Cassazione penale, sezione VI, 18 marzo 2008, n. 12129).
(5) Corte di Appello di Firenze, con sentenza n. 4 aprile del 2017.
(6) Si rimanda alla lettura del libro “Il «danno invisibile» nella violenza assistita da minori tra aspetti penali, civili e psicologici” di Sara Mazzagli edito da Edizioni Univ. Romane, 2010.
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Vittoria Treccosti
Dottoressa in Giurisprudenza;
Abilitata alla professione forense.