Violenza sportiva e scriminante atipica del rischio consentito

Violenza sportiva e scriminante atipica del rischio consentito

Molte attività sportive posseggono un’idoneità intrinseca alla produzione di un danno fisico ai competitori che la svolgono, in ragione dell’utilizzo della forza fisica necessaria per l’esecuzione della condotta sportiva.

Generalmente tali condotte possono provocare degli eventi lesivi nella forma delle lesioni personali.

Da ciò, si profilano dei rilievi in ordine alla tipologia di responsabilità eventualmente riscontrabile in capo all’agente e sulla presenza o meno di una causa di giustificazione che possa eliminare il requisito dell’antigiuridicità della condotta in capo al soggetto che nello svolgimento della competizione sportiva cagiona un danno a terzi.

Preliminarmente, è necessario distinguere tra attività sportiva a violenza necessaria e a violenza solo eventuale.

Quanto al primo tipo, si tratta di attività caratterizzate dalla sussistenza di una possibilità di cagionare un danno pur in assenza di violazione delle regole del gioco, con la conseguente considerazione che la violenza è in re ipsa (si pensi al rugby, pugilato, lotta libera, ecc.).

In ordine al secondo, l’attività in questione prevede un contatto fisico non necessario o comunque previsto in limiti ristretti, per cui l’osservanza delle regole del gioco dovrebbe impedire la causazione di eventi lesivi.

In questi casi, laddove dovesse verificarsi una lesione, si ritiene che la stessa sarebbe frutto di caso fortuito o comunque commessa in assenza di colpa, nei casi in cui non fosse superato il rischio consentito o fosse rispettato il dovere di lealtà.

Pertanto, emerge una generale propensione dell’ordinamento a ritenere lecite o quantomeno non antigiuridiche tali condotte, in virtù della meritevolezza sociale che tali manifestazioni sportive assumono nel nostro ordinamento giuridico.

Per quanto qui di maggior interesse, appare opportuno analizzare la ratio di tale assenza di punibilità, ossia se la stessa trovi diritto di cittadinanza nell’attuale impianto codicistico sotto forma di una scriminante tipizzata ovvero se è stata effettuata un’operazione interpretativa in chiave estensiva da parte della giurisprudenza di legittimità.

In un primo momento, sia dottrina che giurisprudenza hanno sostenuto la sussunzione di tali fattispecie all’interno della scriminante del consenso dell’avente diritto di cui all’art. 50 c.p.

La disposizione testè citata così recita “non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne”.

Tale teoria, tuttavia, veniva criticata da altra parte di dottrina e giurisprudenza in quanto la stessa presuppone il concetto di disponibilità dei diritti che vengono in rilievo, requisito che non può riscontrarsi né con riferimento alla vita, né all’integrità fisica.

Inoltre, il consenso dell’avente diritto ha efficacia scriminante in relazione ad un danno effettivo e non ad un pericolo di danno, come nel caso della competizione sportiva.

Alla luce di tali critiche, il precedente orientamento è stato superato ed è stata introdotta una scriminante atipica, non codificata, desunta analogicamente dalle altre cause di giustificazione tipiche, ossia la scriminante del cosiddetto rischio consentito.

La ratio di tale introduzione deriva dalla meritevolezza sociale che assumono le manifestazioni sportive nella società odierna.

Ed infatti, sul punto la giurisprudenza del 2000 ha avuto modo di precisare che il suo fondamento deriva dal “soddisfacimento dell’interesse generale della collettività a che venga svolta attività sportiva per il potenziamento fisico della popolazione, come tale tutelato dallo Stato” (Cass. Sez. IV n. 2765/2000).

Più di recente, gli Ermellini hanno statuito che tale scriminante si applica nell’ambito delle competizioni sportive “che si svolgono secondo regole stabilite dagli organismi di categoria (…) e ricevono protezione statuale in considerazione dei benefici che la pratica sportiva è suscettibile di arrecare a coloro che la praticano” (Cass. n. 15170/2016).

La giurisprudenza, pertanto, limita l’ambito di applicazione della suddetta scriminante, lasciando fuori quelle manifestazioni più o meno folkloristiche imperniate su condotte caratterizzate da minima o rilevante violenza che mettono a rischio l’incolumità dei partecipanti e dei terzi spettatori (Cass. n. 15170/2016).

Attraverso l’opera giurisprudenziale sono stati, altresì, delimitati i requisiti richiesti ai fini dell’applicazione al competitore della scriminante del rischio consentito, tra questi, infatti, vi è il necessario adempimento del dovere di lealtà sportiva che si esplica nel rispetto delle norme che regolano ciascuna attività.

Laddove si verifichi una violazione delle stesse, analisi che dovrà essere effettuata in concreto, bisognerà valutare, altresì, l’elemento soggettivo dell’agente, al fine di determinare se la condotta in questione sia sorretta da una consapevole e dolosa intenzione di ledere l’avversario, approfittando del contesto della competizione, oppure se sia connotata da colpa, intesa, in questo caso, come involontaria evoluzione dell’azione fisica legittimamente esplicata (Cass. Sez. IV n. 9559/2016).

Dunque, è proprio nel dovere di lealtà e nel rispetto delle regole della competizione che trova esplicazione il rischio consentito, diversamente, infatti, la condotta sarà penalmente punibile alla stregua degli ordinari criteri di imputazione.

Altro requisito necessario è costituito dall’obbligo per il competitore di non “esporre l’avversario ad un rischio superiore a quello consentito in quella determinata pratica ed accettato dal partecipante medio” (Cass. Sez. IV n. 2765/2000).

Tale presupposto si ritiene ancora più pregnante nell’ambito degli incontri di esibizione – allenamenti che dovrebbero possedere una minore carica agonistica rispetto alle vere competizioni, di talchè si richiede un maggior grado di prudenza e cautela da parte del competitore che si sostanzia “in un maggior controllo dell’ardore agonistico, della forza e della velocità dei colpi, sempre in relazione alle capacità di esperienza dell’avversario e ai mezzi di protezione in concreto utilizzati” (Cass. Sez. IV n. 2765/2000).

Inoltre, la giurisprudenza ha sostenuto che non possa applicarsi la suddetta scriminante laddove la competizione sia caratterizzata dall’amatorialità, in termini di gioco tra amici, fattori che rendono imprevedibile e non accettato il rischio di verificazione di eventi lesivi anche superiori per entità e gravità a quelli normalmente accettabili in quel dato contesto (Cass. Sez. V n. 44306/2008 in relazione ad una fattispecie di lesioni gravi con effetti permanenti derivate da un’azione di <<sgambetto>> cagionate durante lo svolgimento di una partita di calcio tra compagni di scuola).

Posta la sussistenza dei suddetti requisiti, è necessario valutare caso per caso, in concreto, l’eventualità che l’agente violi le regole di gioco e l’elemento soggettivo che sorregge tale violazione, ossia se la violazione sia stata volontaria o meno.

Sul punto, non recente giurisprudenza ha statuito che “l’illecito sportivo presuppone la sussistenza del consenso dell’avente diritto. Esso ricorre quando la condotta lesiva, quella del diretto controllo del tiro del pallone, del tentativo di impossessarsene o di contenderlo all’avversario ovvero di introdursi nell’azione di gioco, sia finalisticamente inserita nel contesto di un’attività sportiva. In tema di lesioni cagionate nel corso di quest’ultima, allorquando venga posta a repentaglio coscientemente l’incolumità del giocatore – che legittimamente si attende dall’avversario un comportamento agonistico anche rude, ma non esorbitante dal dovere di lealtà fino a trasmodare nel disprezzo per l’altrui integrità fisica – si verifica il superamento del cosiddetto rischio consentito, con il conseguente profilarsi della responsabilità per dolo o per colpa. Il fatto è doloso ove la gara sia solo occasione dell’azione volta a cagionare lesioni, è colposo se innestato nello svolgimento dell’attività agonistica e dipendente dalla violazione di norme regolamentari. L’accertamento del rischio consentito è questione di fatto, da risolvere caso per caso, in relazione al tipo di pratica sportiva, nonché, nell’ambito di questa, al tipo di attività agonistica (Cass. Sez. V n. 9627/1992: la corte ha escluso il dolo poiché il fatto lesivo ebbe a verificarsi nel corso di un’azione di gioco tesa ad impedire che l’avversario si proiettasse con il pallone verso la rete avversaria, ma ha ritenuto la colpa poiché il difensore commise fallo con un violento calcio, durante un incontro tra dilettanti).

La Suprema Corte, in un caso di lesioni sportive ha ritenuto che non potesse essere scriminato il comportamento del giocatore di pallacanestro che aveva sferrato un pugno al giocatore avversario attingendone la mandibola destra (Cass. Sez. V n. 1951/2000).

Pertanto, si può ben ritenere che qualora il fatto si verifichi durante una competizione e la condotta miri ad impedire la riuscita di un’azione di gioco di un competitore, l’eventuale danno prodottosi sarà il frutto della violazione di una regola di gioco, presumibilmente per ansia di risultato, che configurerà un’ipotesi di lesioni personali colpose ex art. 590 c.p.

Laddove, invece, si ravvisi un’intenzionalità nella condotta di violazione, quindi la sussistenza di un dolo, si potrà configurare una responsabilità dolosa ex art. 582 c.p., non scriminata, in presenza di determinate condizioni, ossia quando l’agente veda nella competizione sportiva una mera occasione o contesto per cagionare una lesione all’avversario, ovvero quando la condotta violenta non sia rivolta all’azione sportiva ma a dissuadere l’antagonista da qualsiasi contrasto, ovvero per punirlo per un fallo involontario commesso (cosiddetto fallo di reazione).

In tutti questi casi, si verificherà una violazione del regolamento sportivo, ma la condotta non è finalizzata “all’alterazione” del gioco, bensì al perseguimento di fini estranei e personali, con una conseguente responsabilità a titolo doloso.

Qualora si tratti di violazioni involontarie delle regole del gioco, in genere dovute alla foga agonistica e all’incapacità di interrompere in tempo la propria azione, l’eventuale illecito lesivo prodotto non integrerà un reato, in virtù del mancato superamento del rischio consentito.

Di recente la Cassazione è ritornata sul punto sostenendo che “in tema di lesioni personali cagionate durante una competizione sportiva, non sussistono i presupposti di applicabilità della scriminante sportiva: a) quando si constati assenza di collegamento funzionale tra l’evento lesivo e la competizione sportiva; b) quando la violenza esercitata risulti sproporzionata in relazione alle concrete caratteristiche del gioco e alla natura e rilevanza dello stesso; c) quando la finalità lesiva costituisce prevalente spinta all’azione, anche ove non consti, in tal caso, alcuna violazione delle regole dell’attività (nella specie, la Corte ha ritenuto sussistente il reato di lesioni colpose in relazione alle lesioni che, durante una partita di calcio, erano state cagionate da una “scivolata”, compiuta in violazione delle norme regolamentari, su un soggetto che usciva dalla propria area di rigore con il pallone in azione di contropiede, in un momento in cui la palla non poteva più essere raggiunta dall’agente il quale colpiva l’avversario privo ormai di essa)” (Cass. n. 21120/2018).

In un caso analogo, la giurisprudenza ha ritenuto non applicabile la scriminante della violenza sportiva “allorchè un calciatore colpisca l’avversario fratturandogli il setto nasale nel momento in cui l’arbitro assegni un calcio di punizione, in quanto, in tale fase, non essendo ammesso il gioco attivo di squadra, ancorchè singoli giocatori possano trovarsi in movimento per organizzare il <<tiro>>, il gioco deve ritenersi fermo e, pertanto, l’azione antidoverosa non può risultare funzionale all’attività agonistica in atto ma si palesa come una mera aggressione del tutto indipendente dalla dinamica del gioco” (Cass. Sez. V n. 10734/2008).

Infine, si ritiene non applicabile la previsione dell’eccesso colposo di cui all’art. 55 c.p., in quanto la causa di giustificazione, cd. non codificata, dell’esercizio dell’attività sportiva presuppone che l’azione lesiva non integri infrazione di regola sportiva o comunque, laddove la integri, sia compatibile con la natura della disciplina sportiva praticata ed il contesto del suo svolgimento; in assenza della causa di giustificazione detta, il fatto di reato sarà doloso o colposo a seconda che la condotta sia connotata da volontà diretta a ledere l’incolumità dell’avversario o a preventiva accettazione del relativo rischio ovvero sia meramente colposa (Cass. Sez. V n. 17923/2009).


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Marika Zanerolli

Nata a Piazza Armerina nel 1994. Diplomata al Liceo Classico nel 2013. Laureata in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Catania nell'ottobre 2018. Diplomata presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali "A. Galati" di Catania nel luglio 2020. Ha svolto Tirocinio ex art. 37 L. 111/11 presso la Prima Sezione Civile del Tribunale di Catania e pratica forense presso uno studio legale specializzato in diritto penale. Attualmente, abilitata all'esercizio della professione forense.

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