“Vita mea, mors mea”: la Corte costituzionale sancisce il “diritto al suicidio assistito” (Corte Cost., Sent., 22 novembre 2019, n. 242)
“Lasciar morire una persona in un modo che altri approvano, ma che essa considera in orribile contraddizione con la sua vita, è una forma di tirannia odiosa e distruttiva”[1]
Sommario: Premesse. Le pratiche di “fine vita”: eutanasia e suicidio assistito. – 1. Introduzione. Il suicidio assistito di Fabiano Antoniani. – 2. I precedenti: il “caso Welby” e il “caso Englaro”. – 3. La legislazione italiana sul “fine vita”: il diritto a morire e le disposizioni anticipate di trattamento (DAT o testamento biologico). – 4. Il processo a Marco Cappato – 4.1. Le argomentazioni esposte dalla Corte d’Assise di Milano nell’ordinanza di remissione della questione di legittimità alla Corte costituzionale – 4.1.1. L’interpretazione dell’art. 580 c.p. secondo il diritto vivente. – 4.1.2. Il bene giuridico tutelato dall’art. 580 c.p. – 4.1.3. La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. – 4.1.4. Le condotte sanzionate dall’art. 580 c.p. – 4.1.5. La pena prevista dall’art.580 c.p. – 5. Il giudizio di illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.: Corte cost., Sent. n. 242 del 2019. – 6. Conclusioni.
Premesse. Le pratiche di “fine vita”: eutanasia e suicidio assistito.
Prima di procedere alla trattazione del caso in esame, pare opportuno precisare preliminarmente cosa si intende con “suicidio assistito” e cosa, invece, si intende con “eutanasia” poiché, pur essendo nel linguaggio comune spesso confuse e univocamente considerate, costituiscono due diverse pratiche di “fine vita”.
Tratto comune nell’eutanasia e nel suicidio assistito è la volontarietà dell’accesso a tali pratiche; infatti, solo l’aspirante suicida, che ha coscientemente maturato la volontà di porre fine alla propria vita a causa delle sue menomate condizioni fisiche, può chiedere di potervi accedere ed è proprio in ciò che tali pratiche si differenziano dall’omicidio – dove la vittima, invece, non chiede di essere ucciso né tantomeno vuole morire – e dall’istigazione o aiuto al suicidio – dove altri, invece, determinano la vittima al suicidio o rafforzano un proposito suicidario già esistente, ovvero, agevolano la vittima nell’esecuzione di tale proposito. La principale e netta differenza tra le pratiche di cui si tratta, invece, generalmente si rinviene nel fatto che mentre nell’eutanasia è il medico il “soggetto attivo” che materialmente compie l’atto (o gli atti) idoneo a causare la morte del paziente, nel suicidio assistito, invece, “soggetto attivo” che compie tale atto è proprio il paziente con l’aiuto del medico che, però, non interviene nella somministrazione delle sostanze (ciò è avvenuto nel caso di Fabiano Antoniani che, sebbene il farmaco gli fosse stato amministrato dai medici, ha azionato egli stesso lo stantuffo per l’iniezione letale, mordendolo con i denti).
A seconda dei modi in cui viene realizzata, l’eutanasia, che letteralmente significa “buona morte” (dal greco εὐθανασία, composta da εὔ, “bene” e θάνατος, “morte”), è detta attiva (diretta o indiretta) o passiva.
In particolare, l’eutanasia è “attiva diretta” quando il decesso è provocato mediante la somministrazione di farmaci che inducono la morte, mentre è “attiva indiretta” quando l’impiego di mezzi per alleviare la sofferenza (per esempio: l’uso di morfina) causa, come effetto secondario, la diminuzione dei tempi di vita; quando invece il decesso è provocato dall’interruzione o dall’omissione di un trattamento medico necessario alla sopravvivenza dell’individuo (come nutrizione artificiale e idratazione artificiale) l’eutanasia è detta “passiva”.
A seconda di chi esprime la volontà di accedere all’eutanasia, invece, si distingue tra eutanasia volontaria, non volontaria o involontaria: l’eutanasia è detta “volontaria” quando il soggetto, capace di intendere e di volere, esprime la sua volontà facendone apposita richiesta o mediante il testamento biologico, mentre è “non volontaria” quando, al contrario, non è il soggetto interessato ad esprimere tale volontà ma un soggetto terzo designato (come nei casi di eutanasia infantile o nei casi di disabilità mentale); quando invece è praticata senza il consenso del paziente l’eutanasia è detta “involontaria”.
Nella legislazione italiana, poi, l’eutanasia si distingue da altre pratiche di “fine vita”: in particolare, si distingue dalla “terapia del dolore” la quale si attua attraverso la somministrazione di farmaci analgesici che possono condurre il malato ad una morte prematura; tale terapia, però, non è considerata una forma di eutanasia in quanto l’intenzione del medico è quella di alleviare le sofferenze del paziente e non quella di procurarne la morte.
Non configurano come una forma di eutanasia nemmeno il rifiuto dell’accanimento terapeutico – ovvero, nei casi in cui la morte è imminente e inevitabile, la possibilità per il medico di interrompere o non praticare trattamenti gravosi per il paziente e sproporzionati rispetto ai risultati che si otterrebbero con tali terapie –, il rifiuto del paziente, capace di intendere e di volere, di sottoporsi ad un trattamento indispensabile alla sopravvivenza (in osservanza dell’art. 32, secondo comma, della Costituzione), la cessazione delle cure successiva alla diagnosi di morte celebrale e la sedazione profonda – pratica con cui il paziente, attraverso la somministrazione di farmaci da parte del medico, viene portato ad uno stato di incoscienza prima che le cure vengano eventualmente sospese.[2]
1. Introduzione. Il suicidio assistito di Fabiano Antoniani.
“P.Q.M. La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.[6]
Così ha deciso la Corte costituzionale, con la sentenza n. 242 del 2019, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., sollevata dalla Corte d’Assise di Milano[7], riguardante la punibilità dell’aiuto al suicidio di chi sia già determinato a togliersi la vita.
La succitata pronuncia trae origine da una vicenda a tutti tristemente nota, ovvero il “caso Cappato” la quale vede come protagonista principale Fabiano Antoniani (detto Fabo), quarantenne milanese che, divenuto cieco e tetraplegico[8] a seguito di un incidente stradale avvenuto il 13 giugno 2014, ha scientemente maturato – dopo anni di cure e infruttuosi tentativi riabilitativi[9] e perdute le speranze in qualsiasi recupero – la precisa consapevolezza di porre fine alle sue sofferenze incoercibili e di porre fine alla propria vita che, ormai, concepiva come una prigione.[10]
Tuttavia, non potendo accedere, poiché vietate in Italia, alle pratiche di “fine vita”, il 25 febbraio 2017, Fabiano Antoniani raggiungeva, trasportato in auto da Marco Cappato[11], la sede dell’associazione Dignitas, a Pfaffikon, in Svizzera dove, dopo una visita medica e psicologica – necessaria a confermare le sue condizioni di salute, il suo consenso e la capacità di assumere, in via autonoma, il farmaco letale –, gli è stato amministrato il Pentobarbital Sodium che, il 27 febbraio 2017, ne ha provocato la morte.
2. I precedenti: il “caso Welby” e il “caso Englaro”.
Il caso di Fabiano Antoniani ha, senza dubbio alcuno, scosso le coscienze delle persone, in particolar modo, della comunità medica e, soprattutto, quella dei giudici e del legislatore per il tramite dei politici; tuttavia, è stato solo il più recente.
Infatti, prima ancora di questo, altri sono stati i casi analoghi[12] che, di volta in volta, hanno alimentato, con una sempre maggiore pressione (anche mediatica), le discussioni relative al “fine vita” e, più in generale, sui rapporti tra legge e libertà individuali.
Primo fra tutti è il caso di Piergiorgio Welby[13] che, affetto da distrofia muscolare scapolo omerale in forma progressiva[14] diagnosticatagli all’età di 18 anni, morì a seguito del (da lui voluto) distaccamento del respiratore artificiale e previa somministrazione di sedativi, dopo aver chiesto ripetutamente – a mezzo stampa e con specifico ricorso d’urgenza al Tribunale di Roma[15] – che fossero interrotte le terapie che lo tenevano in vita.[16]
Il distacco del ventilatore automatico era stato operato dal medico anestesista Dott. Mario Riccio[17] che, avendo così cagionato la morte del Welby, veniva imputato per il reato di cui all’art. 579, primo comma, c.p. (omicidio del consenziente).
In particolare, presso la Procura della Repubblica di Roma perveniva la comunicazione relativa al decesso di Piergiorgio Welby redatta dalla stazione CC di Roma-Cinecittà e, pertanto, il Pubblico Ministero, senza aprire un procedimento penale a carico di alcuno, svolgeva l’istruzione probatoria[18], al termine della quale formulava richiesta di archiviazione ritenendo penalmente irrilevante la condotta del Dott. Riccio, in quanto aveva agito solo in ossequio della richiesta di interruzione della terapia formulata dal paziente.
Il Giudice per le Indagini Preliminari, previa richiesta al Pubblico Ministero di iscrivere il Dott. Mario Riccio al registro degli indagati, fissava udienza camerale nel corso della quale acquisiva le spontanee dichiarazioni di quest’ultimo.
Successivamente, il Giudice – ritenendo quello alla vita un diritto prevalente e costituente un limite per tutti gli altri diritti che, come quello alla libertà di cura di cui all’art. 32 della Costituzione, sono posti a tutela della dignità umana, ritenendo l’inesistenza di alcun accanimento terapeutico e, conseguentemente, la sussistenza del reato di cui all’art. 579 c.p. – rigettava la richiesta di archiviazione del Pubblico Ministero al quale veniva imposto di formulare l’imputazione coatta nei confronti del Riccio la cui difesa, ma anche la Pubblica accusa, nelle conclusioni chiedeva al Giudice di dichiararsi il non luogo a procedere nei suoi confronti perché il fatto non sussisteva o perché non costituiva reato.
Il Giudice dell’Udienza Preliminare (Dott.ssa Zaira Secchi) – avendo rilevato, sotto il profilo fattuale, che la distrofia è ad esito infausto, che le terapie somministrabili risultano essere di mero supporto fisico-riabilitativo e di transeunte contenimento dei sintomi e che, con riferimento specifico a Piergiorgio Welby, la patologia era giunta ad uno stadio gravissimo e, sotto il profilo giuridico, che l’intervento del medico in favore del paziente deve essere giustificato dall’esistenza di uno stato di necessità il quale, tuttavia, non lo obbliga ad intervenire ma ne esclude la responsabilità penale in caso di intervento[19] e che il medico anestesista si era limitato ad eseguire la volontà del paziente (Welby) al quale spetta, in via esclusiva, la titolarità e l’esercizio della discrezionalità relativa alla scelta di rifiutare o di interrompere o meno i trattamenti sanitari – dichiarava di non doversi procedere nei confronti del Dott. Riccio perché non punibile per la sussistenza dell’esimente dell’adempimento di un dovere (art. 51 c.p.).[20]
Un altro noto caso sul tema del “fine vita” è quello di Eluana Englaro che, avendo riportato, a seguito di un incidente stradale verificatosi il 18 novembre 1992, un gravissimo trauma cranico-encefalico con lesione di alcuni tessuti celebrali corticali e subcorticali – da cui derivò prima una condizione di coma profondo e poi un persistente ed irreversibile stato vegetativo con tetraparesi spastica e perdita di ogni facoltà psichica superiore, quindi di ogni funzione percettiva e cognitiva e della capacità di avere contatti con l’ambiente esterno – morì il 9 febbraio 2009 a seguito del distacco del sondino naso-gastrico che la alimentava ed idratava artificialmente.
Fra tutti, quello di Eluana Englaro è forse il caso più complesso, infatti, contrariamente a quanto avvenuto nel “caso Welby” appena sopra descritto – ma anche nei casi “Dj Fabo”, “Nuvoli” e “Piludu” –, la paziente, non essendo cosciente, non era capace di esprimere una propria specifica volontà di porre fine alla propria vita – desumibile, tuttavia, dalle convinzioni dalla stessa espresse prima dell’incidente – e, pertanto, al fine di ottenere un’autorizzazione in tal senso, la famiglia Englaro dovette affrontare non solo una battaglia giudiziaria lunga undici anni – arco temporale nel quale sono state pronunciate ben quindici sentenze della magistratura italiana e una della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – ma anche l’opposizione del governo in carica, le proteste, le manifestazioni e gli appelli di numerose associazione, in gran parte cattoliche.
In particolare, dopo circa quattro anni dall’incidente, in data 19 dicembre 1996, Eluana Englaro – essendo stata accertata la mancanza di qualsiasi modifica del suo stato – fu dichiarata interdetta per assoluta incapacità con sentenza del Tribunale di Lecco e contestualmente suo padre, Beppino Englaro, fu nominato suo tutore.
Dopo altri tre anni circa, prese avvio una lunga vicenda giudiziaria snodatasi in tre principali procedimenti consecutivi, nei quali il tutore – deducendo l’impossibilità per Eluana di riprendere coscienza, nonché l’inguaribilità/irreversibilità della sua patologia e l’inconciliabilità di tale stato e del trattamento di sostegno forzato che le consentiva artificialmente di sopravvivere con le sue precedenti convinzioni sulla vita e sulla dignità individuale, e più in generale con la sua personalità – ha ripetutamente chiesto, nell’interesse e in vece della rappresentata, l’emanazione di un provvedimento che disponesse l’interruzione della terapia di sostegno vitale.
Nel primo procedimento, instaurato con ricorso ex art. 732 c.p.c. depositato in data 19 gennaio 1999, il Tribunale di Lecco, con decreto depositato il 2 marzo 1999[21], dichiarò inammissibile l’istanza del tutore perché, alla luce del principio di indisponibilità del diritto alla vita (art. 579 c.p.), ritenuta incompatibile con l’art. 2 della Costituzione, letto ed inteso come norma implicante una tutela assoluta ed inderogabile del diritto alla vita.
Lo stesso decreto fu poi confermato, con decreto del 31 dicembre 1999[22], in sede di reclamo dalla Sezione “Persone Minori e Famiglia” della Corte d’Appello di Milano la quale riteneva sussistente una situazione di incertezza normativa tale da non consentire l’adozione di una precisa decisione in merito all’istanza di interruzione del trattamento di alimentazione/idratazione forzata.
Nel secondo procedimento, instaurato con ricorso depositato il 26 febbraio 2002, la medesima istanza fu disattesa dal Tribunale di Lecco che, con decreto depositato il 20 luglio 2002[23], ribadiva il principio di necessaria e inderogabile prevalenza della vita umana anche dinanzi a qualunque condizione patologica e a qualunque contraria espressione di volontà del malato.
Tale ultimo decreto, ancora una volta, fu poi confermato, con decreto del 17 ottobre 2003[24], in sede di reclamo dalla predetta Sezione della Corte d’Appello di Milano, la quale riteneva inopportuna un’interpretazione integrativa volta ad attuare il principio di autodeterminazione della persona umana in caso di paziente in stato vegetativo permanente.
Quest’ultimo provvedimento fu successivamente impugnato dal tutore con ricorso straordinario per Cassazione ex art. 111 della Costituzione il quale, tuttavia, fu dichiarato inammissibile dalla Suprema Corte con ordinanza n. 8291 del 2005[25] per difetto di partecipazione al procedimento di un contraddittore ritenuto necessario, da individuarsi questo nella persona di un curatore speciale della rappresentata incapace ex art. 78 c.p.c.
Nel terzo procedimento, avviato, a seguito della predetta ordinanza, con ricorso depositato in data 30 settembre 2005, il tutore chiese la previa nomina di un curatore speciale, che fu in effetti nominato nella persona dell’avv. Franca Alessio, la quale prestò adesione all’istanza del tutore.
Tale istanza fu nondimeno ancora dichiarata inammissibile dall’adito Tribunale con decreto depositato il 2 febbraio 2006[26] poiché reputava che il tutore non fosse legittimano, neppure con l’assenso del curatore speciale, ad esprimere scelte al posto o nell’interesse dell’incapace in materia di diritti e atti personalissimi.
Il decreto fu però riformato dalla Sezione “Persone Minori e Famiglia” della Corte d’Appello di Milano, in sede di reclamo, con provvedimento del 16 dicembre 2006.[27]
In tal caso, infatti, la Corte, andando di contrario avviso rispetto al Tribunale, reputò ammissibile il ricorso in ragione del generale potere di cura della persona da riconoscersi in capo al rappresentante legale dell’incapace ex artt. 357 e 424 c.c.
Tuttavia, esaminando e giudicando nel merito l’istanza del tutore, la Corte la giudico insuscettibile di accoglimento, sul rilievo secondo cui l’attività istruttoria espletata non consentisse di attribuire alle idee espresse da Eluana all’epoca in cui era ancora pienamente cosciente un’efficacia tale da renderle idonee anche nell’attualità a valere come volontà sicura della stessa contraria alla prosecuzione delle cure e dei trattamenti che la tenevano in vita.
Sul ricorso per Cassazione proposto il 6 marzo 2007 da Beppino Englaro anche avverso tale decisione, peraltro autonomamente impugnata anche dalla curatrice speciale con un ricorso incidentale sostanzialmente adesivo a quello principale, la Suprema Corte si è infine pronunciata con sentenza n. 21748 del 2007[28] disponendo la cassazione dell’impugnato provvedimento e il rinvio della “causa” per una nuova decisione, relativamente alle parti cassate, ad altra Sezione della medesima Corte d’Appello di Milano.
La Suprema Corte, in particolare, ha accolto i ricorsi proposti sia dal tutore che dalla curatrice speciale di Eluana Englaro reputando, in estrema sintesi, che:
– In situazioni ove sono in gioco il diritto alla salute o il diritto alla vita, o più in generale assume rilievo critico il rapporto tra medico e paziente, il fondamento di ogni soluzione giuridica transita attraverso il riconoscimento di una regola, presidiata da norme di rango costituzionale (in particolare, gli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione), che colloca al primo posto la libertà di autodeterminazione terapeutica;
– Pertanto è la prestazione del consenso informato del malato – il quale ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità o modalità di erogazione del trattamento medico, ma anche eventualmente di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla in tutte le fasi della vita – a costituire, di norma, fattore di legittimazione e fondamento del trattamento sanitario;
– Il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione terapeutica non può essere negato nemmeno nel caso in cui il soggetto adulto non sia più in grado di manifestare la propria volontà a causa del suo stato di totale incapacità, con la conseguenza che, nel caso in cui, prima di cadere in tale condizione, egli non abbia specificatamente indicato, attraverso dichiarazioni di volontà anticipate, quali terapie avrebbe desiderato ricevere e quali, invece, avrebbe inteso rifiutare nel caso in cui fosse venuto a trovarsi in uno stato di incoscienza, al posto dell’incapace è autorizzato ad esprimere tale scelta il suo legale rappresentante (tutore o amministratore di sostegno), che potrà chiedere anche l’interruzione dei trattamenti che tengano artificialmente in vita il rappresentato;
– Tuttavia, questo potere-dovere che fa capo al rappresentante legale dell’incapace non è incondizionato, ma soffre di limiti “connaturati” al fatto che la salute è un diritto “personalissimo” di chiunque, anche dell’incapace, e che la libertà di rifiutare le cure presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della morte che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque (anche) extragiuridiche, quindi squisitamente soggettive, che per ciò stesso devono essere pur sempre riferibili al soggetto-malato, anche se incapace;
– Un primo limite, coessenziale alla scelta del rappresentante, va in particolare ravvisato nella necessità che tale scelta sia sempre vincolata, come attività rappresentativa, e nella concretezza del caso, al rispetto del migliore interesse del rappresentato.
Due ulteriori ed indefettibili condizioni si riassumono poi nel seguente principio di diritto espresso dalla Suprema Corte, cui dovette conformarsi il Giudice di rinvio: “Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa”.[29]
Alla luce del suddetto principio, il decreto impugnato, reso dalla Corte d’Appello di Milano nella pregressa fase del procedimento, non poteva sottrarsi alle censure articolate dal tutore e dal curatore speciale di Eluana Englaro, poiché, pur risultando “pacificamente dagli atti di causa che nella indicata situazione si trova Eluana Englaro, la quale giace in stato vegetativo persistente e permanente a seguito di un grave trauma cranico-encefalico riportato a seguito di un incidente stradale (occorsole quando era ventenne), e non ha predisposto, quando era in possesso della capacità di intendere e di volere, alcuna dichiarazione anticipata di trattamento”[30], la Corte di merito aveva comunque omesso di indagare adeguatamente sulla sussistenza dell’altra imprescindibile condizione idonea a legittimare la scelta del rappresentante intesa al rifiuto dell’alimentazione artificiale, ossia non aveva ricostruito la “presunta volontà” di Eluana dando rilievo ai desideri da lei precedentemente espressi, o più in generale alla sua personalità, al suo stile di vita e ai suoi più intimi convincimenti.
A seguito di tale pronuncia, il pregresso procedimento di reclamo fu riassunto da Beppino Englaro, originario reclamante, con ricorso depositato in data 5 febbraio 2008 e assegnato alla Prima Sezione Civile della Corte d’Appello di Milano che, in applicazione del principio di diritto dettato dalla Corte di Cassazione, lo accolse con decreto del 9 luglio 2008[31] e per l’effetto, in riforma del decreto n. 727 del 2005 emesso dal Tribunale di Lecco in data 20 dicembre 2005 e depositato in data 2 febbraio 2006, accolse l’istanza – conformemente proposta da entrambi i legali rappresentati di Eluana Englaro – di autorizzazione a disporre l’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale di quest’ultima, realizzato mediante alimentazione e idratazione con sondino naso-gastrico.
Contro quest’ultima pronuncia, il Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Milano propose ricorso sul quale, con la sentenza n. 27145 del 2008[32], si pronunciarono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, dichiarando inammissibile il ricorso, denunciarono il vuoto legislativo, cioè l’assenza di leggi chiare che regolassero i trattamenti sanitari, come l’alimentazione forzata in caso di stato vegetativo permanente.
Peraltro, il 17 settembre 2008 la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica presentarono due distinti ricorsi[33] con cui sollevavano innanzi alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato con riguardo alla sentenza della Corte di Cassazione n. 21748 del 16 ottobre 2007 e ai provvedimenti giurisdizionali successivi e consequenziali, in particolare il decreto della Corte d’Appello di Milano del 9 luglio 2008.
I suddetti ricorsi, tuttavia, furono dichiarati inammissibili con ordinanza[34] dalla Corte costituzionale sulla base della circostanza che la vicenda processuale che aveva originato il presente giudizio non appariva ancora esaurita, e che, d’altra parte, – al fine di colmare il vuoto legislativo che la stesa Corte era stata costretta a colmare con la sua sentenza – il Parlamento poteva in qualsiasi momento adottare una specifica normativa in materia, fondata su adeguati punti di equilibrio fra i fondamentali beni costituzionali coinvolti.
A pronunciarsi sulla questione fu anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, adita da associazioni composte da parenti e amici di persone gravemente disabili e medici, psicologi e avvocati che assistono queste persone, oltre che da un’associazione di tutela dei diritti dell’uomo.
Invocando gli artt. 2 e 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), i ricorrenti lamentavano gli effetti negativi che l’esecuzione della decisione della Corte d’Appello di Milano del 9 luglio 2008 poteva avere su di loro; gli stessi ricorrenti, invocando l’art. 6, par. 1, denunciavano la mancanza di equità del procedimento nazionale e lamentavano anche la violazione degli artt. 5, 6 e 7 della Convenzione di Oviedo e dell’art. 25 della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle persone disabili (Convenzione ONU).
La Corte EDU, con decisione del 16 dicembre 2008[35], dichiarò inammissibile il ricorso presentato dai ricorrenti rilevando che alcuna effettiva lesione sarebbe a loro derivata dall’esecuzione della pronuncia della Corte d’Appello di Milano.[36]
Conclusasi, dunque, la lunga questione processuale, Beppino Englaro – avendo ottenuto l’autorizzazione ad interrompere l’alimentazione artificiale di sua figlia – cercò di mettere in atto la decisione della Corte di Cassazione; tuttavia, le suore misericordie di Lecco, nella cui casa di cura si trovava Eluana dal 1994, si rifiutarono di interrompere il trattamento.
Peraltro, con istanza del 19 agosto 2008, il tutore della Englaro aveva chiesto all’Amministrazione Regionale della Lombardia di indicare la struttura del servizio sanitario regionale presso cui procedere all’esecuzione del decreto della Corte di Appello di Milano, pronunciato il 25 giugno 2008 e depositato il 9 luglio 2008, in dichiarata applicazione, in sede di rinvio, del principio di diritto enunciato nella predetta sentenza n. 21748 del 2007 della Suprema Corte.
A seguito della sopra indicata istanza, l’Amministrazione della Regione Lombardia negava, tuttavia, che il personale del Servizio Pubblico Sanitario Regionale potesse procedere, all’interno di una delle strutture, hospice compresi, alla sospensione del sostegno vitale (idratazione ed alimentazione artificiale) di cui goda l’ammalato in stato vegetativo permanente il quale, tramite manifestazione di volontà del tutore ed autorizzazione del Giudice Tutelare, intenda rifiutare tale trattamento.
In particolare, l’Amministrazione affermava che, ponendo in essere siffatta condotta, il personale sanitario, ivi operante, sarebbe venuto meno ai propri obblighi professionali e di servizio, anche in considerazione del fatto che il provvedimento giurisdizionale di cui si chiedeva l’esecuzione non conteneva un obbligo formale a carico di soggetti o enti individuati.
Avverso il provvedimento del Direttore Generale della Direzione Generale Sanità della Giunta Regionale Lombardia, adottato in data 3 settembre 2008, Beppino Englaro propose ricorso dinanzi al TAR Lombardia il quale, con sentenza n. 214 del 2009[37], lo accoglieva e per l’effetto annullava il l’atto impugnato.
Il 3 febbraio 2009 la famiglia Englaro decise di lasciare la regione Lombardia e di portare Eluana nella clinica “La Quiete” di Udine; il servizio sanitario del Friuli, infatti, non faceva più parte del sistema sanitario nazionale dal 1996.
Il successivo 7 febbraio, il Governo tentò di bloccare la famiglia con un decreto legge, approvato all’unanimità dal Consiglio dei Ministri; tuttavia, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lo respinse sostenendo – come aveva già fatto prima dell’approvazione – che non ci fossero i necessari requisiti di necessità e urgenza per l’approvazione di un decreto legge, che ha validità immediata, in quella materia.
Il Consiglio dei Ministri approvò quindi un disegno di legge avente gli stessi contenuti del decreto precedentemente rifiutato che fu trasmesso alle Camere che vennero convocate dai rispettivi Presidenti in sessione straordinaria lunedì 9 febbraio 2009 al fine di approvare la legge in pochi giorni; tuttavia, il tentativo fu vano, infatti alle 5.45 di venerdì 6 febbraio i medici della clinica “La Quiete” avevano interrotto l’alimentazione e l’idratazione artificiale di Eluana che morì il successivo lunedì.
Il 27 febbraio 2009 successivo alla morte di Eluana la Procura della Repubblica di Udine aprì un fascicolo ipotizzando l’accusa di omicidio volontario aggravato e iscrisse nel registro degli indagati Beppino Enlgaro, il Dott. Amato del Monte e gli infermieri che parteciparono all’attuazione del protocollo in conformità con la sentenza della Corte d’Appello di Milano.
Il 28 novembre 2009 la stessa Procura della Repubblica di Udine chiese l’archiviazione del procedimento dopo che una perizia sull’encefalo della paziente confermò che i danni conseguenti all’incidente automobilistico del 1992 erano anatomicamente irreversibili.
L’11 gennaio 2010 il GIP del Tribunale di Udine emise il decreto di archiviazione ritenendo che, alla luce di quanto deciso in sede civile, il tutore avesse espresso la volontà dell’incapace e che insieme al personale sanitario, che ha conseguentemente operato per sospendere il trattamento e rimuovere i mezzi attraverso cui veniva protratto, ha agito alla presenza di una causa di giustificazione e segnatamente quella prevista dall’art. 51 c.p., ovvero per la necessità di superare l’altrimenti inevitabile contraddizione dell’ordinamento giuridico che non può, da una parte, attribuire un diritto e, dall’altra, incriminarne l’esercizio.
3. La legislazione italiana sul “fine vita”: il diritto a morire e le disposizioni anticipate di trattamento (DAT o testamento biologico).
Nelle Epistolae morales ad Lucilium[38]Seneca esprime il pensiero secondo cui il suicidio è un atto coraggioso, “un’autentica forma di liberazione”[39] attraverso la quale, chi ha perso le speranze di una degna esistenza, può sciogliere le catene della schiavitù e ritrovare la libertà.
Quella di uccidersi costituisce una scelta personale, non delegabile, che nasce nel più profondo, nel più intimo di ogni soggetto e che, giusta o sbagliata che appaia agli occhi degli altri, non può assolutamente essere sindacata.
La decisione di vivere o morire (e, se del caso, come morire), quindi, non può che spettare esclusivamente al soggetto direttamente interessato che sia capace di intendere e di volere e nel caso in cui quest’ultimo scegliesse di togliersi la vita, deve avere il diritto di farlo anche se materialmente impossibilitato perché ha comunque coscientemente maturato una sua precisa volontà; ciò per il principio della libertà di autodeterminazione – intesa quest’ultima come capacità di scelta autonoma ed indipendente dell’individuo – sancito dagli art. 2 e 13, primo comma, della Costituzione secondo cui “la libertà personale è inviolabile”.
Talvolta, però, la realizzazione di tale volontà viene impedita da scelte operate da terzi le quali, producendo effetti (contrari a quelli voluti) nella sfera del soggetto, sono ipoteticamente ed astrattamente lesive del principio sopra citato.
In particolare, ciò accade in tutti quei casi in cui un soggetto, pur essendo capace di intendere e di volere – e, quindi, capace di autodeterminarsi – non può, di fatto (ad es. perché paralizzato), autonomamente realizzare l’intento suicidario.
A parere dello scrivente, anche quando il soggetto è (o è divenuto) incapace – e, quindi, impossibilitato a manifestare una sua cosciente determinazione – si ha una “violazione” del principio costituzionale poiché, non potendo egli esprimersi tanto nel senso della morte quanto nel senso della vita, si presume che voglia vivere non potendosi però, di contro, escludere senza alcun dubbio che lo stesso voglia morire.
È quindi per tali ragioni che, nelle more del processo a Marco Cappato, il Parlamento ha approvato la legge 22 dicembre 2017, n. 219 con la quale il legislatore ha ampiamente valorizzato – come era stato già fatto dalla giurisprudenza – il diritto all’autodeterminazione individuale, previsto dall’art. 32 della Costituzione con riguardo ai trattamenti terapeutici.
In particolare, detta legge ha sancito espressamente il diritto a morire rifiutando i trattamenti sanitari (idratazione o alimentazione artificiale) e l’obbligo di rispettare le decisioni del paziente anche quando ne possa derivare la morte, ha introdotto la possibilità per ciascun individuo di disporre anticipatamente, mediante le DAT, in ordine ai trattamenti sanitari a cui essere sottoposto, ha vietato trattamenti terapeutici finalizzati a prolungare la vita ad ogni costo e ha riconosciuto al malato il diritto di scegliere di porre fine alla propria vita in stato di sedazione profonda nel caso di “sofferenze refrattarie alle cure”.
La legge, nella sua premessa programmatica, ha fatto richiamo ai principi di cui agli art. 2, 13 e 32 della Costituzione e degli artt. l, 2 e 3 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, indicandoli come principi cardine nella tutela del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona, che si può esprimere anche con la volontà di porvi fine.
La stessa legge ha poi stabilito che:
– Ogni persona ha diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo;
– Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare in tutto o in parte qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso;
– Ai fini della presente legge sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e la idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici;
– Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta le conseguenze di questa decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica;
– Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo;
– Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico assistenziali;
– A fronte di queste richieste il medico non ha obblighi professionali.
All’art. 2 ha previsto che il medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico.
Inoltre, ha espressamente sancito “il divieto” di ostinazione irragionevole nelle cure ed ha individuato, come oggetto di tutela da parte dello Stato, “la dignità nella fase finale della vita”.
In presenza di sofferenze refrattarie a trattamenti sanitari, il medico, con il consenso del paziente, può di fatto sospendere anche l’idratazione e l’alimentazione e procedere alla terapia del dolore con sedazione profonda.
Peraltro, la legge non ha in alcun modo limitato i casi in cui il paziente ha diritto di rifiutare trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza e tra questi ha incluso anche quelli tesi a fornire nutrimento alla persona (idratazione ed alimentazione artificiali), prevedendo inoltre, al primo comma dell’art. 2, che al paziente sia in ogni caso garantita un’appropriata terapia del dolore.
Dai lavori preparatori della legge e dalle discussioni parlamentari emerge che il Parlamento era consapevole che il prevedere per il paziente la possibilità di rifiutare la nutrizione artificiale comportava di fatto riconoscere il suo diritto di scegliere di morire non già a causa della malattia, ma per la privazione di sostegni vitali (ovvero per una cosiddetta eutanasia indiretta omissiva).
Nonostante ciò, anche questa decisione, come tutte quelle in campo terapeutico, è stata prevista come insindacabile; la norma prevede solo che, nel caso in cui il paziente rifiuti un trattamento “salva vita”, ovvero scelga in pratica di morire, debbano essergli prospettate da un medico le conseguenze della sua decisione e le possibili alternative alla stessa, nonché che sia promossa ogni azione di sostegno, anche psicologico, in suo favore.
La legge ha addirittura vietato interventi sanitari che, al fine di proteggere “la sacralità della vita”, appaiano, alla luce delle condizioni del paziente, intrinsecamente inutili e sproporzionati; ha altresì ribadito che i trattamenti devono rispettare le decisioni del paziente nel tutelarne “la dignità nella fase finale della vita”.
Nel caso di malattia, dunque, il diritto a decidere di “lasciarsi morire” è stato espressamente riconosciuto, a prescindere dalle motivazioni sottese a tale decisione, a tutti i soggetti capaci.
Il fatto che non sia possibile sindacare le ragioni per cui una persona addiviene a questa scelta, è chiaro riconoscimento dei principi stabiliti dagli artt. 2 e 13, primo comma, della Costituzione, in forza dei quali la libertà di ogni persona a disporre della propria vita non può essere limitata per fini eteronomi.
La legge in esame, peraltro, non ha riconosciuto il “diritto al suicidio assistito” secondo le modalità scelte dai singoli; anzi, all’art. 1 ha specificato che non è possibile richiedere al medico trattamenti contrari a norme di legge o alla deontologia professionale.
Allo stato, pertanto, non è possibile pretendere dai medici del Servizio pubblico la somministrazione o la prescrizione di un farmaco che procuri la morte.
Peraltro, il mancato riconoscimento/regolamentazione da parte del legislatore del “diritto al suicidio assistito” non può portare a negare la sussistenza della libertà della persona di scegliere quando e come porre termine alla propria esistenza, libertà che, come sopra esposto, trova fondamento nei principi cardine della Costituzione dettati agli artt. 2 e 13.
Il mancato riconoscimento del “diritto al suicidio assistito” porta solo ad escludere che si possa richiedere al Servizio Sanitario Nazionale un trattamento diverso da quello previsto nella legge n. 219 del 2017 (può richiamarsi in proposito la sentenza della Corte costituzionale n. 185 del 2 maggio 1998 che nell’affermare la illegittimità costituzionale di alcune norme contenute nel decreto-legge 17 febbraio 1998, n. 23 – “Disposizioni urgenti in materia di sperimentazioni cliniche in campo oncologico ed altre misure in materia sanitaria” – ha ribadito la libertà dell’individuo nella scelta delle cure a cui sottoporsi, sostenendo però che “non possono ricadere (…) sul Servizio Sanitario Nazionale le conseguenze delle libere scelte individuali circa il trattamento terapeutico preferito, anche perché ciò disconoscerebbe il ruolo e le responsabilità che competono allo Stato, attraverso gli organi tecnico-scientifici della sanità”[40]).
Con specifico riferimento alle “Disposizioni anticipate di trattamento” (DAT), l’art. 4, primo comma, della legge n. 219 del 2017 prevede che “Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari”.
Al successivo quinto comma, inoltre, stabilisce che il medico, pur essendo tenuto al rispetto delle DAT, può disattenderle, in tutto o in parte, “qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”.
Infine, con riferimento alle modalità di rilascio, il sesto comma dispone che “le DAT devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata ovvero per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza del disponente medesimo, che provvede all’annotazione in apposito registro, ove istituito, oppure presso le strutture sanitarie (…)”.
Peraltro, “nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, le DAT possono essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare. Con le medesime forme esse sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento. Nei casi in cui ragioni di emergenza e urgenza impedissero di procedere alla revoca delle DAT con le forme previste dai periodi precedenti, queste possono essere revocate con dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico, con l’assistenza di due testimoni”.[41]
4. Il processo a Marco Cappato.
Il giorno successivo al suicidio assistito di Fabiano Antoniani (28 febbraio 2017), Marco Cappato, tornato in Italia, si presentava presso i Carabinieri di Milano e si autodenunciava rappresentando che, nei giorni immediatamente precedenti, si era recato in Svizzera per accompagnare, presso la sede della Dignitas, Fabiano Antoniani, che lì aveva programmato e poi dato corso al suo suicidio assistito.
La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano provvedeva, quindi, ad iscrivere Marco Cappato nel registro degli indagati ma, il 2 maggio 2017, la stessa Procura della Repubblica presentava richiesta di archiviazione del procedimento[42] proponendo un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 850 c.p., tale per cui la condotta doveva ritenersi penalmente irrilevante.
Il Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Milano (Dott. Luigi Gargiulo), non avendo accolto la suddetta richiesta di archiviazione, fissava, ex art. 409, comma 2, c.p.p., udienza in camera di consiglio per il 6 luglio 2017.
Il 30 giugno 2017, gli avvocati difensori di Marco Cappato (Massimo Rossi e Francesco Di Paola), con una memoria difensiva[43], chiedevano al Giudice per le Indagini Preliminari di valutare la compatibilità dell’art. 580 c.p. con la Carta Costituzionale ritenendo l’illegittimità costituzionale del detto articolo per violazione degli artt. 2, 3, 13, 32 e 117, primo comma, della Costituzione.
Lo stesso facevano i Pubblici Ministeri (Dott.sse Tiziana Siciliano e Sara Arduini) i quali, in data 4 luglio 2017, presentavano una memoria[44] chiedendo al Giudice di sottoporre alla Corte Costituzionale una questione di legittimità dell’art. 580 c.p. per violazione delle norme di cui agli artt. 2, 3, 13, 25, secondo comma, 27, primo e terzo comma, 32, secondo comma, e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 2, 3, 8 e 14 CEDU, in relazione alla sola parte in cui incrimina la condotta di “partecipazione fisica” o “materiale” al suicidio altrui senza escludere la rilevanza penale della condotta di chi aiuta il malato terminale o irreversibile a porre fine alla propria vita, quando il malato stesso ritenga le sue condizioni di vita fonte di una lesione del suo diritto alla dignità.
All’udienza, dopo aver sentito le parti, il Giudice per le Indagini Preliminari si riservava la decisione ma, il successivo 10 luglio 2017, rigettava le istanze presentate dalle parti.
Infatti, il Giudice, ritenendo manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale formulata dalle parti, scioglieva la riserva respingendo la richiesta di archiviazione e ordinando, ex art. 409, quinto comma, c.p.p., l’imputazione coatta dell’indagato, ovvero, ordinava di formulare l’imputazione per il reato di aiuto al suicidio di cui all’art. 580 c.p. nei confronti di Marco Cappato, per aver rafforzato il proposito suicidario di Antoniani Fabiano (detto Fabo) prospettandogli la possibilità, in alternativa alla terapia sedativa profonda in Italia, di ottenere assistenza al suicidio presso la Dignitas in Svizzera accreditata per la sua affidabilità e serietà; attivandosi per mettere in contatto la Dignitas con i prossimi congiunti di Antoniani facendo pervenire presso la loro abitazione il materiale informativo e, infine, per aver agevolato il suicidio di Antoniani trasportandolo fisicamente presso la Dignitas il giorno precedente al suicidio.[45]
Il Pubblico Ministero, quindi, presentava, in data 18 luglio 2017, richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Marco Cappato per il reato di cui all’art. 580 c.p. a lui ascritto, e, conseguentemente – avendo l’imputato rinunciato all’udienza preliminare chiedendo di essere giudicato con il rito immediato – il Giudice dell’Udienza Preliminare (Dott. Livio A. Cristofano), in data 18 settembre 2017, ne disponeva, con decreto ex art. 419, quinto comma, c.p.p., il rinvio a giudizio (rito immediato) dinanzi alla Corte d’Assise di Milano.
All’udienza del 17 gennaio 2018, i Pubblici Ministeri – ribadendo quanto sostenuto nel corso della discussione, ovvero che la condotta di Marco Cappato non integrava il reato di aiuto al suicidio di cui all’art. 580 c.p. perché estranea alla fattispecie tipica né che la stessa poteva ritenersi punibile a titolo di concorso, in quanto la configurabilità di una responsabilità penale ex artt. 110 e 580 c.p. contrasta di offensività – presentavano memoria d’udienza[46] con la quale chiedevano alla Corte di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. per violazione degli artt. 2, 3, 13, 32, secondo comma, e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 2, 3 e 8 CEDU.
Gli avvocati della difesa, invece, producevano una nota di udienza[47] con la quale, ritenendo infondate le accuse promosse, chiedevano alla Corte, in via principale, di assolvere Marco Cappato ritenendo il fatto non sussistente in relazione alla parte del capo di imputazione che prevedeva il rafforzamento dell’intento suicidario e ritenendo che il fatto non costituisse reato in relazione alla parte del capo di imputazione che prevedeva l’agevolazione del suicidio; in relazione a quest’ultima ipotesi del capo, inoltre, chiedevano alla Corte di assolvere l’imputato in forza di un’interpretazione dell’art. 580 c.p. conforme a Costituzione, alla luce dei principi scolpiti, in particolare, negli artt. 2, 3, 13, 32 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU.
Gli stessi avvocati, in via subordinata, chiedevano alla Corte di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui punisce chi si attivi, con finalità di tipo solidaristico ed umanitario, per agevolare il proposito suicida della persona che versi in uno stato di malattia irreversibile che produce gravi sofferenze, per contrasto con gli artt. 2, 3, 13, 25, secondo comma, 27, primo e terzo comma, 32, 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU.
Inoltre, gli avvocati difensori – nella denegata ipotesi di mancata assoluzione e di mancata remissione alla Corte Costituzionale delle precedenti questioni –, in ulteriore subordine, chiedevano alla Corte di concedere a Marco Cappato la circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 1, c.p. (l’aver agito per motivi di particolare valore sociale o morale), con condanna ad una pena adeguata al caso concreto, e le circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis c.p. da applicarsi su una pena base pari al minimo edittale.
Nella stessa udienza, Marco Cappato dichiarava: “Piuttosto che essere assolto per un aiuto giudicato irrilevante, mentre è stato determinante, preferirei essere condannato. Altro sarebbe essere assolto per incostituzionalità del reato. Perché altrimenti si accetterebbe che solo chi è in grado di raggiungere la Svizzera può essere libero di scegliere”[48].
All’udienza del 14 febbraio 2018, la Corte d’Assise di Milano – ritenendo che il giudizio non potesse essere definito indipendentemente dal controllo di legittimità – emetteva un’ordinanza[49] con cui, in attesa della pronuncia della Corte costituzionale, sospendeva il processo e sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito suicidario e nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 12 anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione, ritenendo tale incriminazione in contrasto e violazione dei principi sanciti agli artt. 3, 13, primo comma, 25, secondo comma, 27, terzo comma, della Costituzione, che individuano la ragionevolezza della sanzione penale in funzione dell’offensività della condotta accertata.
Secondo la Corte, infatti, deve ritenersi che in forza dei principi costituzionali dettati agli artt. 2, 13, primo comma, e 117 della Costituzione, quest’ultimo con riferimento agli artt. 2 e 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, all’individuo sia riconosciuta la libertà di decidere quando e come morire e che di conseguenza solo le azioni che pregiudichino la libertà della sua decisione possano costituire offesa al bene tutelato dalla norma in esame.
4.1. Le argomentazioni esposte dalla Corte d’Assise di Milano nell’ordinanza di remissione della questione di legittimità alla Corte costituzionale.
Nell’ordinanza appena sopra citata, la Corte d’Assise di Milano rilevava che l’unica sentenza della Corte di Cassazione (Cass. pen. Sez. I, n. 3147 del 6 febbraio 1998) che ha provveduto a definire le condotte di agevolazione incriminate dall’art. 580 c.p., ha sottolineato che le stesse sono state previste come alternative a quelle di istigazione e per ciò sono punibili a prescindere dalla ricaduta sul processo deliberativo dell’aspirante suicida.
L’interpretazione proposta dalla Suprema Corte nella pronuncia appena citata appare conseguenza della considerazione del suicidio come fatto riprovevole e dell’individuazione della ratio della norma nella tutela del “bene supremo della vita”.
Tali considerazioni si ritrovano anche in una più recente sentenza della Corte di Cassazione nella quale è stato affermato che “il suicidio, pur non essendo punito in sè nel vigente ordinamento penale a titolo di tentativo, costituisce pur sempre una scelta moralmente non condivisibile, non giustificabile ed avversata dalla stragrande maggioranza dei consociati, a prescindere dalle loro convinzioni religiose e politiche, siccome contraria al comune modo di sentire, in quanto negatrice del principio fondamentale, su cui si fonda ogni comunità organizzata e costituito dal rispetto e dalla promozione della vita in ogni sua manifestazione”[50].
Ed ancora, la Corte di Cassazione, nella pronuncia sul caso Englaro (Cass. pen. Sez. I, n. 21748 del 16 ottobre 2007[51]), ha sostenuto che dalla Costituzione non deriva il “diritto a morire”, la facoltà “di scegliere la morte piuttosto che la vita”, confermando un orientamento che, secondo la Corte d’Assise di Milano adita, risulta contrario ai principi di libertà e di autodeterminazione dell’individuo sanciti dalla Costituzione e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
4.1.1. L’interpretazione dell’art. 580 c.p. secondo il “diritto vivente”.
L’art. 580 c.p. sanziona chi sia intervenuto nel processo di formazione della decisione suicidaria (nella forma dell’istigazione) e chi abbia contribuito alla realizzazione del suicidio sul piano materiale (l’agevolazione o aiuto).
L’istigazione comprende sia la condotta di chi determini altri al suicidio, facendogli assumere un progetto e una decisione che prima non aveva, sia quella di chi rafforzi il proposito ancora non sicuro, non definito dell’aspirante suicida.
L’aiuto è integrato dalle condotte di chi offra “in ogni modo” un’agevolazione alla realizzazione della decisione di auto sopprimersi dell’aspirante suicida.
In entrambe le ipotesi, il suicidio deve essere in rapporto di derivazione causale con la condotta dell’agente, che non è perseguibile se il suicidio si verifica indipendentemente dal suo contributo; dal punto di vista soggettivo occorre il dolo generico.
La Corte di Cassazione, nella prima delle pronunce sopra citate (Cass. pen., Sez. I, n. 3147 del 6 febbraio 1998) ha affermato che le condotte definite nella norma sono previste in via alternativa e che, pertanto, integra la fattispecie incriminatrice qualsiasi contributo materiale al suicidio, senza che debba avere anche una ricaduta psicologica sul soggetto passivo alterando il suo processo deliberativo.
Per questo motivo la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza della Corte d’Assise di Messina in cui era stato invece affermato che l’art. 580 c.p. punisce la condotta agevolatrice del suicidio soltanto quando questa implica anche un rafforzamento del progetto suicidario, ritenendo che in caso contrario l’azione non sarebbe “idonea a ledere il bene giuridico tutelato” (“nell’ipotesi di doppio suicidio, ove uno dei partecipanti sia morto e l’altro sia sopravvissuto, quest’ultimo non è punibile ai sensi dell’art. 580 c.p., quando il suicida si sia autonomamente determinato, senza essere da lui minimamente influenzato, giacché anche l’agevolazione al suicidio sul piano soltanto materiale va ricondotta al fenomeno istigativo ed una interpretazione della norme conforme a Costituzione impone di circoscrivere le condotte punibili a quelle nelle quali l’aiuto abbia esercitato un’apprezzabile influenza nel processo formativo della volontà della vittima, che ha trovato nella collaborazione dell’estraneo incentivo e stimolo a togliersi la vita”[52]).
La Corte di Cassazione per contro ha sostenuto non solo che l’incriminazione della condotta di favoreggiamento prescinde dalla verifica della sua influenza sulla decisione suicidaria, ma anche che la nozione di aiuto sanzionata dalla norma in esame deve essere intesa nella forma più ampia, comprendendo “qualsiasi” contributo materiale al progetto suicidario (“La legge, nel prevedere, all’art. 580 c.p., tre forme di realizzazione della condotta penalmente illecita (…) ha voluto (…) punire sia la condotta di chi determini altri al suicidio o ne rafforzi il proposito, sia qualsiasi forma di aiuto o di agevolazione di altri del proposito di togliersi la vita, agevolazione che può realizzarsi in qualsiasi modo: ad esempio, fornendo i mezzi per il suicidio, offrendo informazioni sull’uso degli stessi, rimuovendo ostacoli o difficoltà che si frappongono alla realizzazione del proposito ecc., o anche omettendo di intervenire, qualora si abbia l’obbligo di impedire l’evento. L’ipotesi della agevolazione al suicidio prescinde totalmente dall’esistenza di qualsiasi intenzione, manifesta o latente, di suscitare o rafforzare il proposito suicida altrui. Anzi, presuppone che l’intenzione di auto sopprimersi sia stata autonomamente e liberamente presa dalla vittima, altrimenti vengono in applicazione le altre ipotesi previste dall’art. 580 c.p. Perché si realizzi l’agevolazione sanzionata dalla norma “è sufficiente che l’agente abbia posto in essere, volontariamente e consapevolmente, un qualsiasi comportamento che abbia reso più agevole la realizzazione del suicidio”[53]).
L’interpretazione della norma proposta dalla Corte di Cassazione è stata sostanzialmente disattesa dal Tribunale di Vicenza[54], che, pur non contestandola apertamente, anzi richiamandosi alla stessa, ha ritenuto che, alla luce del tenore letterale della norma, l’aiuto al suicidio, definito come la condotta di “chi ne agevola l’esecuzione”, fosse integrato solo dal contributo materiale direttamente e funzionalmente incidente sulla “esecuzione” dell’atto anticonservativo.
Più in particolare, il Giudice dell’Udienza Preliminare ha disatteso la questione di costituzionalità della norma prospettata dalla difesa dell’imputato con riferimento all’art. 3 della Costituzione in considerazione dell’identico trattamento sanzionatorio previsto per tutte le diverse condotte individuate dall’art. 580 c.p., affermando che l’effettivo disvalore della condotta di agevolazione al suicidio poteva cogliersi “selezionando le condotte punite alla luce del dettato letterale della norma, laddove la condotta tipica stigmatizzata è precisamente indicata come di agevolazione dell’esecuzione del suicidio”.
Quel Giudice ha ritenuto, quindi, che le condotte di agevolazione incriminate fossero solo quelle “direttamente e strumentalmente connesse all’attuazione materiale del suicidio”, condotte che si pongono “essenzialmente come condizione di facilitazione del momento esecutivo del suicidio stesso”.
Di conseguenza ha affermato che la condotta dell’imputato che aveva accompagnato l’aspirante suicida in Svizzera, non integrava “agevolazione” dell’esecuzione del suicidio, dovendosi riguardare solo come “agevolatrice della mera potenzialità di attuazione del programma (…) di auto sopprimersi, senza alcuna diretta connessione, se non sul piano soltanto motivazionale, con l’esecuzione del suicidio, la quale costituì (e va riguardata come) una fase finale a se stante”.
La Corte d’Appello di Venezia[55] ha aderito all’interpretazione della norma sostenuta dal suddetto Giudice, affermando in primo luogo che i limiti individuati dall’ordinamento alla possibilità di interferire nelle scelte individuali relative alla salute (art. 32 Cost.) e nelle fondamentali scelte di vita delle persone, conducevano a respingere “qualsiasi ipotesi di lettura estensiva della norma incriminatrice in questione”.
Inoltre, ha soggiunto che il preciso dettato letterale della norma imponeva di ritenere sanzionabili solo le condotte che, a prescindere dal dato meramente temporale, risultassero comunque “in necessaria relazione con il momento esecutivo del suicidio, ovvero direttamente e strumentalmente connesse a tale atto”.
Pertanto, ha ritenuto che il comportamento dell’imputato, che si era limitato ad accompagnare l’aspirante suicida in Svizzera, fosse da considerare essenzialmente neutro (anche perché del tutto fungibile, dal momento che la donna era nelle condizioni per procedere da sola al viaggio che l’aveva portata presso l’associazione che l’aveva assistita mentre metteva in atto la sua decisione di porre termine alla sua vita).
Sia l’interpretazione proposta dalla Corte d’Assise di Messina, sia quella adottata dal G.U.P. di Vicenza e dalla Corte d’Appello di Venezia, rivelano l’esigenza di evitare i profili di incostituzionalità che l’interpretazione ampia e indiscriminata delle condotte costitutive l’aiuto al suicidio incriminato sostenuta dalla Corte di Cassazione solleva sotto il profilo dell’offensività.
4.1.2. Il bene giuridico tutelato dall’art. 580 c.p.
Le norme attualmente in vigore sull’omicidio del consenziente e sull’istigazione e aiuto al suicidio sono state introdotte nel 1930 con il codice Rocco.
All’origine dell’incriminazione prevista dall’art. 580 c.p. vi era stata la considerazione che il suicidio fosse una condotta connotata da elementi di disvalore perché contraria ai principi fondamentali della società, quello della sacralità/indisponibilità della vita in correlazione agli obblighi sociali dell’individuo ritenuti preminenti nel corso del regime fascista.[56]
Solo per ragioni di politica criminale il legislatore aveva ritenuto inutile, se non dannoso, punire chi avesse tentato di realizzarlo.[57]
Peraltro, il concorso nell’azione della volontà del soggetto passivo aveva fatto ritenere meno grave la condotta incriminata rispetto all’omicidio sotto il profilo dell’intensità del dolo e della personalità del reo.
Allo stato, però, la disciplina dettata dal Codice Rocco deve essere interpretata alla luce dei nuovi principi introdotti dalla Costituzione, che hanno comportato una diversa considerazione del diritto alla vita, che si evince dal complesso del dettato costituzionale, primariamente dal principio personalistico enunciato all’art. 2 e da quello dell’inviolabilità della libertà individuale enunciato all’art. 13.
Il diritto alla vita non è stato direttamente enunciato dalla Carta costituzionale, ma costituisce il presupposto di ogni diritto riconosciuto all’individuo e si definisce attraverso questi.
Principio cardine della Costituzione è quello personalistico, che pone l’uomo e non lo Stato al centro della vita sociale e afferma “l’inviolabilità dei suoi diritti” come valore preminente.
Seppur sull’individuo incombano significativi obblighi (obblighi di solidarietà politica, economica e sociale come definiti all’art. 2 della Costituzione), proprio per la preminenza dell’individuo nella struttura sociale del Paese, la vita umana non può essere concepita in funzione di un fine eteronomo rispetto al suo titolare.
A ciascun individuo, inoltre, è garantita la libertà personale rispetto a interferenze arbitrarie dello Stato (art. 13 Cost.) e da questo diritto primario deriva, per quanto rileva ai fini del decidere, il “potere della persona di disporre del proprio corpo”[58] e che “la persona non possa essere costretta a subire un trattamento sanitario non voluto in assenza di una norma che esplicitamente lo imponga”[59].
Da questi stessi principi costituzionali deriva la libertà per l’individuo di decidere sulla propria vita ancorché da ciò dipenda la sua morte.
Che il diritto alla libertà non trovi un limite in funzione di considerazioni eteronome rispetto alla vita (ad esempio, in funzione di obblighi solidaristici), si evince dall’assenza di divieti all’esercizio di attività per sé pericolose e dall’assenza nella nostra Carta costituzionale dell’obbligo di curarsi.[60]
L’obbligo a sottoporsi a una determinata terapia può intervenire solo per legge e solo ai fini di evitare di creare pericolo per gli altri; solo in questi limiti può essere compresso il diritto alla libertà dell’individuo a decidere sulla propria vita.[61]
Il diritto alla libertà e all’autodeterminazione, che è declinato nell’art. 32 della Costituzione con riferimento ai limiti dei doveri/poteri d’intervento dello Stato a tutela della salute delle persone, è stato affermato in modo chiaro dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità in materia di trattamenti terapeutici, riconoscendo in modo sempre più deciso il diritto del paziente all’autodeterminazione nell’individuare le cure a cui sottoporsi e l’obbligo di rispettarne la decisione, anche se da questo possa derivare la sua morte.
Per quanto riguarda la giurisprudenza di merito, può richiamarsi la nota sentenza pronunciata nel “caso Welby”[62], in cui correttamente si è osservato che “quando si riconosce l’esistenza di un diritto di rango costituzionale, quale è quello all’autodeterminazione individuale e consapevole in materia di trattamento sanitario, non è poi consentito lasciarlo senza tutela, rilevandone, in assenza di una normativa secondaria di specifico riconoscimento, la sua concreta inattuabilità sulla scorta di disposizioni normative di fante gerarchica inferiore a contenuto contrario, quali gli artt. 5 c.c., che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo tali da determinare un danno permanente e 575, 576, 577, n. 3, 579 e 580 c.p., che puniscono in particolare l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio, nonché quali gli artt. 35 e 37 del codice di deontologia medica (…). L’affermazione nella Carta costituzionale del principio che sancisce l’esclusione della coazione in tema di trattamenti sanitari (e quindi della necessità del consenso del malato) ha come necessaria consecuzione il riconoscimento anche della facoltà di rifiutare le cure o di interromperle, che a sua volta, non può voler significare l’implicito riconoscimento di un diritto al suicidio, bensì soltanto l’inesistenza di un obbligo a curarsi a carico del soggetto. Infatti la salute dei cittadini non può essere oggetto di imposizione da parte dello Stato, tranne nei casi in cui l’imposizione del trattamento sanitario è determinato per legge, in conseguenza della salvaguardia della salute collettiva e della salute individuale, come avviene ad esempio, nel caso delle vaccinazioni obbligatorie. Il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari fa parte dei diritti inviolabili della persona, di cui all’art. 32 della Costituzione, e si collega strettamente al principio di libertà di autodeterminarsi riconosciuto all’individuo dall’art. 13 della Costituzione”.
Il Giudice ha dunque individuato correttamente nell’art. 13 della Costituzione il fondamento del diritto della persona a decidere della propria vita e del limite al diritto dello Stato a intervenire sulla salute (di cui è espressione l’art. 32 della Costituzione); inoltre, ha sottolineato con chiarezza che detto diritto sussiste a prescindere “da una normativa secondaria di specifico riconoscimento”.
Non si può peraltro omettere di riferire che, nella citata sentenza, il Giudice ha rimarcato che dai principi costituzionali non deriva “un implicito riconoscimento del diritto al suicidio” e che “in ogni caso l’azione di interruzione di una terapia non può essere concettualmente assimilata all’espletamento di un trattamento diretto a provocare la morte del paziente, poiché la prima costituisce mera cessazione di una terapia precedentemente somministrata, mentre il secondo è l’attivazione ex novo di un intervento terapeutico finalizzato al decesso del paziente”.
Qualche mese dopo quella sentenza di merito, pronunciando nella vicenda Englaro, la Corte di Cassazione[63] ha riaffermato il diritto “all’autodeterminazione terapeutica” ed “il diritto di lasciarsi morire”, come correlati al principio personalistico che anima la Costituzione.
La Corte di Cassazione ha affermato che “il diritto alla salute, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire”.
Quindi, più nello specifico, ha rilevato che “il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia, di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Cioè conforme al principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente, concepisce l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa, e guarda al limite – del rispetto della persona umana – in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive. Deve escludersi che il diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegue il sacrificio del bene della vita. Benché sia stato talora prospettato un obbligo per l’individuo di attivarsi a vantaggio della propria salute o un divieto di rifiutare trattamenti o di omettere comportamenti ritenuti vantaggiosi o addirittura necessari per il mantenimento o il ristabilimento di essa, il Collegio ritiene che la salute dell’individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c’è spazio (…) per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e sofferenza, e c’è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico (…) lo si ricava dall’art. 32 della Costituzione, per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente prevista dalla legge, sempre che il provvedimento che li impone sia volto ad impedire che la salute del singolo possa arrecare danno alla salute degli altri e che l’intervento previsto non danneggi, ma sia anzi utile alla salute di chi vi è sottoposto (Corte costituz., sentenze n. 258 del 1994 e n. 118 del 1996). Soltanto in questi limiti è costituzionalmente corretto ammettere limitazioni al diritto del singolo alla salute, il quale, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del risvolto negativo: il diritto di perdere la salute (…) di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umani propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire. Il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale”.
Anche in quest’ultima sentenza è stato dunque correttamente individuato il diritto di decidere della propria vita, finanche scegliendo la morte, correlandolo al principio personalistico che informa tutta la Costituzione, salvo poi declinarlo solo in rapporto agli interventi sanitari disciplinati dall’art. 32 della Costituzione.
Peraltro, in questa pronuncia, la Corte di Cassazione, pur non essendosi soffermata ad approfondire come si configura il diritto a porre fine alla propria esistenza al di fuori del rapporto terapeutico, ha fatto esplicito richiamo alla sentenza pronunciata dalla CEDU nel caso Pretty vs Regno Unito del 29 aprile 2002, sostenendo di condividere l’affermazione che il riconoscimento del diritto alla vita non può essere interpretato come presupposto di “un diritto di morire, né (…) può creare un diritto di autodeterminazione, nel senso di attribuire a un individuo la facoltà di scegliere la morte piuttosto che la vita”.
4.1.3. La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha subito una significativa evoluzione dalla pronuncia Pretty, citata nella sentenza della Corte di Cassazione sul “caso Englaro”.
La CEDU, che ha avuto modo di pronunciarsi più volte sul tema del suicidio[64], lo ha fatto riferendosi alle norme della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (stipulata nel 1950 e ratificata e resa esecutiva dall’Italia con la legge n. 848 del 1955) che salvaguardano rispettivamente il diritto alla vita (art. 2) ed il diritto dell’individuo di fronte ad arbitrarie ingerenze delle pubbliche autorità nella sua vita privata (art. 8)[65], giungendo ad affermare il “diritto di un individuo di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà” e l’intervento repressivo degli Stati in questo campo può avere solo la finalità di evitare “rischi di abuso”, ovvero di “indebita influenza” nei confronti di soggetti particolarmente vulnerabili, come sono le persone che hanno perso interesse per la vita.
Analizzando in ordine cronologico queste pronunce, la prima sentenza è quella pronunciata nel “caso Pretty vs Regno Unito” del 29 aprile 2002[66] in cui è stato affermato che, interpretando le disposizioni della CEDU, non può ritenersi riconosciuto il diritto di morire per mano di un terzo o con l’assistenza dello Stato e che gli Stati hanno il diritto di controllare, attraverso l’applicazione del diritto penale generale, le attività pregiudizievoli per la vita e la sicurezza dei terzi.
Più in particolare la Corte ha sostenuto che il “diritto alla vita” garantito dall’art. 2 non può “essere interpretato nel senso che comporti un aspetto negativo” ovvero il diritto di scegliere di continuare o cessare di vivere; “l’art. 2 non potrebbe, senza distorsione di linguaggio, essere interpretato nel senso che conferisce un diritto diametralmente opposto, vale a dire un diritto di morire; non potrebbe nemmeno far nascere un diritto all’autodeterminazione nel senso che darebbe od ogni individuo il diritto di scegliere la morte piuttosto che la vita”[67].
La Corte ha dapprima osservato che le norme nazionali che sanzionino l’aiuto al suicidio non possono ritenersi violazione dell’art. 3 della Convenzione che prevede che “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.
Per quanto riguarda poi la pretesa violazione dell’art. 8 della Convenzione, la Corte di Strasburgo ha rilevato che “la nozione di autonomia personale rispecchia un principio importante sotteso all’interpretazione delle garanzie dell’art. 8” e, richiamandosi a tale principio, ha anticipato le conclusioni adottate poi dalla Corte di Cassazione nel “caso Englaro”, sostenendo che “in ambito sanitario, il rifiuto di accettare un trattamento particolare potrebbe, inevitabilmente, condurre ad un esito fatale, l’imposizione di un trattamento medico senza il consenso del paziente, se è un adulto e sano di mente costituirebbe un attentato all’integrità fisica dell’interessato che può mettere in discussione i diritti protetti dall’art. 8, paragrafo 1, della Convenzione”[68].
Quindi, analizzando più specificatamente la fattispecie concreta al suo esame, in cui la ricorrente lamentava che le fosse stato impedito dalla legge di compiere una scelta per evitare ciò che, ai suoi occhi, costituiva “un epilogo della vita indegno e doloroso”, ha sostenuto che “la Corte non può escludere che ciò costituisce una lesione del diritto dell’interessata al rispetto della sua vita privata, ai sensi dell’art. 8, paragrafo 1, della Convenzione”[69].
Inoltre, ha sottolineato che, “per conciliarsi col paragrafo 2 dell’articolo 8, un’ingerenza (da parte dello Stato N.d.r.) nell’esercizio di un diritto garantito da tale articolo deve essere “prevista dalla legge”, ispirata da uno o più scopi legittimi, secondo tale paragrafo e “necessaria, in una società democratica” per il perseguimento di questo o di quegli scopi (sentenza Dudgeon c. Regno Unito del 22 ottobre 1981, Serie A n. 45, pagina 19, paragrafo 43)” e che “la nozione di necessità implica che l’ingerenza corrisponda ad un bisogno sociale imperativo e, in particolare, che sia proporzionata allo scopo legittimo perseguito”, bilanciando le considerazioni di salute e sicurezza pubblica con il principio concorrente dell’autonomia personale.
La Corte ha rimarcato quindi che gli Stati hanno il diritto di controllare, tramite l’applicazione del diritto penale generale, le attività pregiudizievoli per la vita e la sicurezza dei terzi, individuando una disciplina idonea a “salvaguardare la vita, proteggendo le persone deboli e vulnerabili – specialmente quelle che non sono in grado di adottare decisioni con cognizione di causa – contro atti che mirano a porre fine alla vita o ad aiutare a morire”.
La decisione in commento appare significativa perché nel riconoscere il diritto di ciascuno Stato a vietare e sanzionare l’aiuto al suicidio, ha individuato espressamente la ratio di queste norme nell’esigenza di tutelare appunto le persone deboli e vulnerabili.
Inoltre, nell’affermare che a fronte di detta necessità la disciplina inglese, la quale sancisce che “la natura generale del divieto di suicidio assistito non è sproporzionata”, ha sottolineato pure che il diritto inglese prevede la possibilità “di valutare in ciascun caso concreto tanto l’interesse pubblico ad avviare un azione giudiziaria quanto le esigenze giuste e adeguate del castigo e della dissuasione”.[70]
Nella sentenza “Haas vs Svizzera” del 20 gennaio 2011[71] è stato invece asserito espressamente che “il diritto di un individuo di decidere con quali mezzi ed a che punto la propria vita finirà, a condizione che egli o ella sia in grado di raggiungere liberamente una propria decisione su questa questione ed agire di conseguenza, è uno degli aspetti del diritto al rispetto della vita privata entro il significato dell’art. 8 della Convenzione”[72].
La Corte ha rilevato innanzitutto che nel caso Pretty era già stato affermato incidentalmente che la scelta della ricorrente di evitare quello che ai suoi occhi costituiva una fine indegna e dolorosa rientrava nel campo di applicazione dell’art. 8; a sua volta, ha inoltre ribadito che l’art. 2 della Convenzione impone agli Stati l’obbligo di proteggere “le persone vulnerabili, anche contro azioni con cui minaccino la loro stessa vita”, attivandosi per evitare che “un individuo possa mettere fine alla sua vita quando la sua decisione non è intervenuta liberamente e con piena conoscenza”.
Nell’affrontare poi il caso al suo esame, la Corte da un lato ha dato riconoscimento alla “volontà del richiedente di suicidarsi in maniera sicura, degna e senza dolore e sofferenze superflue” e dall’altro lato ha sostenuto che la previsione di una prescrizione medica per il rilascio di un farmaco letale fosse giustificata perché finalizzata a “proteggere le persone dal prendere decisioni precipitose” e a prevenire possibili abusi.
La Corte ha affermato quindi che gli Stati avevano il dovere di “evitare che un paziente privo di capacità di discernimento possa ottenere una dose mortale di pentobarbital sodico”[73]e che in considerazione di tale dovere e della “necessità” di tutela della salute, della sicurezza pubblica e della prevenzione di illeciti penali, le restrizioni all’accesso al farmaco letale trovavano giustificazione, puntualizzando che “il diritto alla vita garantito dall’art. 2 della Convenzione obbliga gli Stati a predisporre una procedura appropriata a garantire che una decisione di mettere fine alla propria vita corrisponda alla libera volontà dell’interessato”.[74]
Infine, nella sentenza “Gross vs Svizzera” del 14 maggio 2013[75] la Corte ha dato atto del superamento della pronuncia Pretty con l’esplicito riconoscimento “del diritto di un individuo di decidere il mezzo ed il momento in cui la sua vita debba finire” a condizione che sia capace di adottare una decisione libera e consapevole.
Ha rilevato quindi che nel caso al suo esame la richiesta della ricorrente si fondava “sul suo diritto al rispetto della vita privata”, ribadendo che “lo scopo principale dell’art. 8 è quello di proteggere gli individui contro interferenze arbitrarie delle Pubbliche Autorità”, interferenze che sono giustificate solo nel caso di “previsione di legge” e solo in forza di una delle “necessità” individuate nel secondo paragrafo di detta norma.
Richiamandosi sempre a tali principi, la Corte ha proceduto quindi a verificare se “lo Stato avesse fallito nell’indicare sufficienti linee guida che definissero se ed in quali circostanze il personale medico era autorizzato a rilasciare una prescrizione per persone nelle condizioni della ricorrente” ed ha rilevato che le linee guida adottate in Svizzera dall’Ordine dei medici riguardavano solo i casi relativi a pazienti terminali (la cui malattia li avrebbe portati a morte in poche settimane), ma non anche la condizione della ricorrente.
La Corte ha affermato quindi che “la legge svizzera, pur offrendo la possibilità di ottenere una dose letale di pentobarbital su prescrizione medica, non offre linee guida che assicurino chiarezza sull’estensione di tale diritto” ed ha ritenuto in tal senso violata la Convenzione.[76]
Anche nelle sentenze più recenti[77] è stato affermato che il diritto all’autodeterminazione, implicato e sotteso a tutta la Convenzione, si esplica nella facoltà per ogni individuo, che sia in grado di assumere determinazioni consapevoli e ponderate, di decidere se e come porre termine alla sua vita.[78]
4.1.4. Le condotte sanzionate dall’art. 580 c.p.
I principi costituzionali che hanno ispirato la formulazione e l’approvazione della legge n. 219 del 2007 devono presidiare, ad avviso della Corte d’Assise di Milano, anche l’esegesi della norma in esame orientando l’interprete nell’individuazione del bene giuridico tutelato e, di conseguenza, delle condotte idonee a lederlo.
Il riconoscimento del diritto di ciascuno di autodeterminarsi anche in ordine alla fine della propria esistenza porta a ritenere sanzionabili, ai sensi dell’art. 580 c.p., solo le condotte che “in qualsiasi modo” abbiano alterato il percorso psichico del soggetto passivo, impedendogli di addivenire in modo consapevole e ponderato a tale scelta (che, lo si ribadisce, rappresenta l’espressione più radicale, ma anche la più significativa della libertà dell’individuo).
Il diritto penale, alla luce dei principi costituzionali ed Eurounitari più volte richiamati, deve intervenire a sanzionare, e nel modo più severo, le aggressioni da parte di terzi al bene della vita altrui ed è per ciò giustificato l’intervento repressivo anche quando questo avvenga con il “concorso” della volontà della vittima, se tale volontà sia stata in qualche modo alterata.
Si avrà addirittura un “omicidio nel caso in cui l’altrui determinazione volitiva si sostituisca a quella della vittima, si da far apparire il suicidio come il frutto dell’altrui volontà e non di quella cosciente e libera della vittima”[79].
Inoltre, il secondo comma dell’art. 580 c.p. prevede come aggravante il fatto che la persona istigata o aiutata abbia meno di 18 anni o sia inferma di mente, o versi in condizioni di deficienza psichica per altra malattia o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti (malattia mentale e deficienza psichica che devono ritenersi parziali, dal momento che se la persona fosse priva della capacità di intendere e volere, ricorrerebbe, così come nel caso di minori di anni 14, l’omicidio); anche ciò rivela come il focus della norma sia la tutela della libertà e consapevolezza della decisione del soggetto passivo.
D’altra parte, il riconoscimento del diritto di ciascun individuo di autodeterminarsi anche su quando e come porre fine della propria esistenza, rende ingiustificata la sanzione penale nel caso in cui le condotte di partecipazione al suicidio siano state di mera attuazione di quanto richiesto da chi aveva fatto la sua scelta liberamente e consapevolmente.
In quest’ultima ipotesi, infatti, la condotta dell’agente “agevolatore” si pone solo come strumento per la realizzazione di quanto deciso da un soggetto che esercita una sua libertà e risulta di conseguenza non lesiva del bene giuridico tutelato dalla norma in esame, salvo poter essere altrimenti sanzionata.[80]
In ogni caso di suicidio si impone un’indagine particolarmente rigorosa sul percorso deliberativo del soggetto passivo, in primo luogo sul suo stato di salute mentale, nonché sulle condizioni in cui ha vissuto e su tutti i fattori, tra cui il contributo di terzi, che possono aver inciso sulla sua decisione.
Comportamenti che alterano il processo di formazione della volontà dell’aspirante suicida possono essere realizzati non solo mediante la persuasione diretta verso questo gesto estremo, ma anche mediante interventi che pregiudichino il suo esame di realtà, che impediscano che alla persona vengano fornite tutte le informazioni, prospettate tutte le alternative del caso, attivati tutti i supporti per farlo riflettere ed eventualmente desistere dal suo progetto auto lesivo.[81]
L’azione di chi interviene a supportare il proposito suicidario può d’altra parte consistere, così come si è verificato nel caso in esame, in interventi diretti nei confronti di una persona non isolata, non in stato di abbandono, in grado di attingere sostegno in tante altre persone per ponderare bene le proprie decisioni, e costretta a far ricorso ad un soggetto terzo solo perché impossibilitata fisicamente a realizzare da solo quanto deciso.
Inoltre, interpretando la norma nel modo più ampio, si dovrebbe punire, fra gli altri, anche chi abbia fornito contributi materiali al suicidio consistenti, così come esemplificato dalla Corte di Cassazione nella sentenza del 1998 citata, nell’aiutare l’aspirante suicida a trovare tutte le informazioni e le soluzioni per porre termine alla sua vita, interventi, quali quelli posti in essere da Valeria Imbrogno, che si erano accompagnati a tentativi di dissuadere il fidanzato (Fabiano Antoniani) e che si erano tradotti di fatto in un aiuto a ponderare bene la sua scelta.
Si nota infine che, anche seguendo l’interpretazione restrittiva della norma, la possibilità di una indagine sul percorso deliberativo del suicida e la pluralità delle condotte che possono essere ritenute idonee ad alterarlo, appaiono elementi sufficienti a preservare la funzione preventiva dell’art. 580 c.p., proteggendo le persone vulnerabili, anche contro azioni che minaccino la loro vita.
4.1.5. La pena prevista dall’art. 580 c.p.
Gli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione impongono che la libertà dell’individuo possa essere sacrificata solo a fronte della lesione di un bene giuridico altrimenti non pienamente tutelabile, che la sanzione sia proporzionata alla lesione provocata così da prevenire la violazione e provvedere alla rieducazione del reo.
È proprio in relazione a questi principi (offensività, ragionevolezza e proporzione della pena) che la Corte d’Assise di Milano, per tutti i motivi sopra esposti, ha ritenuto che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida, non siano sanzionabili e, tanto più, che non possano esserlo con la pena della reclusione da 5 a 12 anni prevista dall’art. 580 c.p. senza distinzioni tra le condotte di istigazione e quelle di aiuto, nonostante le prime siano certamente più incisive anche solo sotto il profilo causale, rispetto a quelle di chi abbia semplicemente contribuito al realizzarsi dell’altrui autonoma deliberazione e nonostante del tutto diversa risulti nei due casi la volontà e la personalità del partecipe.
Un’esegesi dell’art. 580 c.p. che non distingua fra le condotte di aiuto sanzionate e quelle invece lecite appare pertanto in contrasto con la finalità rieducativa della pena che impone una costante “proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra”[82].
A rafforzamento di queste considerazioni appare utile richiamare la sentenza della Corte EDU nel caso Pretty che nell’affermare che per prevenire il rischio di abuso, la disciplina inglese, che sancisce “la natura generale del divieto di suicidio assistito, non è sproporzionata”, ha tuttavia sottolineato che la stessa prevede la possibilità “di valutare in ciascun caso concreto tanto l’interesse pubblico ad avviare un’azione giudiziaria, quanto le esigenze giuste ed adeguate del castigo e della dissuasione”.
Illuminante in questo senso appare infine la diversificata disciplina sanzionatoria dettata dalla legge n. 194 del 1978 relativa all’interruzione volontaria di gravidanza, una legge posta a tutela della donna e nel contempo del diritto alla vita (all’art. 1 è sancito che lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore della maternità e tutela la vita umana sin dal suo inizio), una legge che, così come l’art. 580 c.p., sanziona l’intervento del terzo in un atto che a certe condizioni è lecito.[83]
5. Il giudizio di illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.: Corte cost., Sent. n. 242 del 2019.
L’udienza di trattazione della questione di legittimità dell’art. 580 c.p. si teneva, dinanzi alla Corte costituzionale, il 23 ottobre 2018.
Nel giudizio de quo si costituiva l’imputato Marco Cappato, la cui difesa (avv. Filomena Gallo e prof. Vittorio Manes) presentava note d’udienza[84] con cui chiedeva che l’art. 580 c.p. fosse dichiarato illegittimo nella parte in cui punisce la condotta di chi abbia agevolato l’esecuzione della volontà, liberamente formatasi, della persona che versi in uno stato di malattia irreversibile che produce gravi sofferenze, sempre che l’agevolazione sia strumentale al suicidio di chi, alternativamente, avrebbe potuto darsi la morte rifiutando i trattamenti sanitari; ovvero, in subordine, nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione al suicidio che non abbiano inciso sulla formazione del proposito suicidario siano punite allo stesso modo della istigazione al suicidio.
Intervenivano altresì il Presidente del Consiglio dei Ministri – la cui difesa (Avvocatura generale dello Stato, avv. Gabriella Palmieri) eccepiva, in via preliminare, l’inammissibilità delle questioni sotto plurimi profili, deducendone, in ogni caso, l’infondatezza nel merito – e, ad opponendum, il Centro Studi “Rosario Livatino” (avv. Mauro Ronco), la libera associazione di volontariato “Vita è” (avv. Simone Pillon) e il Movimento per la vita italiano (avv. Ciro Intino) – associazioni i cui interventi venivano dichiarati inammissibili in quanto ritenute dalla Corte costituzionale non legittimate a partecipare al giudizio.
La Corte costituzionale, ritiratasi in camera di consiglio al termine dell’udienza, rilevava che “l’attuale assetto normativo concernente il fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti” e, al fine di “consentire in primo luogo al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina”[85], con ordinanza[86] sospendeva il giudizio e rinviava la trattazione della questione di costituzionalità dell’art. 580 c.p. all’udienza del 24 settembre 2019.
All’udienza del 25 settembre 2019, pur non avendo avuto luogo l’auspicato intervento del legislatore, la Corte costituzionale con la sentenza n. 242 del 2019 si pronunciava, ritenendola fondata, sulla questione di legittimità ad essa sottoposta.
La Corte, infatti, “ha ritenuto non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.[87]
Con la suddetta sentenza la Corte ha confermato i rilievi formulati e le conclusioni tratte con la precedente ordinanza n. 207 del 2018.
In particolare, la Corte ha escluso che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio, ancorché non rafforzativo del proposito della vittima, possa ritenersi di per sé in contrasto con la Costituzione.
Infatti, ritiene la stessa che per sostenere il contrasto, non è pertinente il riferimento del rimettente al diritto alla vita, riconosciuto implicitamente – come “primo dei diritti inviolabili dell’uomo”[88], in quanto presupposto per l’esercizio di tutti gli altri – dall’art. 2 della Costituzione (sentenza n. 35 del 1997), nonché, in modo esplicito, dall’art. 2 CEDU.
Dall’art. 2 della Costituzione – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire.
Che dal diritto alla vita, garantito dall’art. 2 CEDU, non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire, è stato, del resto, da tempo affermato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, proprio in relazione alla tematica dell’aiuto al suicidio (sentenza 29 aprile 2002, Pretty vs Regno Unito).[89]
Neppure, poi, è possibile desumere la generale inoffensività dell’aiuto al suicidio da un generico diritto all’autodeterminazione individuale, riferibile anche al bene della vita: diritto che il rimettente ricava dagli artt. 2 e 13, primo comma, della Costituzione.
A prescindere dalle concezioni di cui era portatore il legislatore del 1930, la ratio dell’art. 580 c.p. può essere agevolmente scorta, alla luce del vigente quadro costituzionale, nella “tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere”[90].
Le medesime considerazioni valgono, altresì, ad escludere che la norma censurata si ponga, sempre e comunque, in contrasto con l’art. 8 CEDU, il quale sancisce il diritto di ciascun individuo al rispetto della propria vita privata: conclusione, questa, confermata dalla pertinente giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
La Corte ha individuato, nondimeno, una circoscritta area di non conformità costituzionale della fattispecie criminosa, corrispondente segnatamente ai casi in cui l’aspirante suicida si identifichi – come nella vicenda oggetto del giudizio a quo – in una persona “(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli” [91].
Si tratta di “situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali” [92].
In tali casi, l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unico modo per sottrarsi, secondo le proprie scelte individuali, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, secondo comma, della Costituzione.
Nei casi considerati – ha osservato la Corte – la decisione di accogliere la morte potrebbe essere già presa dal malato, sulla base della legislazione vigente, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua.
Ciò, in forza della legge 22 dicembre 2017, n. 219, la cui disciplina recepisce e sviluppa, nella sostanza, le conclusioni alle quali era già pervenuta all’epoca la giurisprudenza ordinaria – in particolare a seguito delle sentenze sui casi Welby ed Englaro – nonché le indicazioni della stessa Corte riguardo al valore costituzionale del principio del consenso informato del paziente al trattamento sanitario proposto dal medico: principio qualificabile come vero e proprio diritto della persona, che trova fondamento nei principi espressi negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione.[93]
La citata legge n. 219 del 2017 riconosce, infatti, ad ogni persona capace di agire il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza, comprendendo espressamente nella relativa nozione anche i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale (art. 1, comma 5): diritto inquadrato nel contesto della “relazione di cura e di fiducia” tra paziente e medico.
In ogni caso, il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo, rimanendo, in conseguenza di ciò, esente da responsabilità civile o penale (art. 1, comma 6).
Integrando le previsioni della legge 15 marzo 2010, n. 38 (Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore) – che tutela e garantisce l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore da parte del paziente, inserendole nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza – la legge n. 219 del 2017 prevede che la richiesta di sospensione dei trattamenti sanitari possa essere associata alla richiesta di terapie palliative, allo scopo di alleviare le sofferenze del paziente (art. 2, comma 1).
Inoltre, lo stesso art. 2, al comma 2 stabilisce che il medico possa, con il consenso del paziente, ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, per fronteggiare sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari; disposizione, questa, che “non può non riferirsi anche alle sofferenze provocate al paziente dal suo legittimo rifiuto di trattamenti di sostegno vitale, quali la ventilazione, l’idratazione o l’alimentazione artificiali: scelta che innesca un processo di indebolimento delle funzioni organiche il cui esito – non necessariamente rapido – è la morte”[94].
La legislazione oggi in vigore non consente, invece, al medico di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte; pertanto, il paziente, per congedarsi dalla vita, è costretto a subire un processo più lento e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care.
Ne è testimonianza il caso oggetto del giudizio, nel quale “l’interessato richiese l’assistenza al suicidio, scartando la soluzione dell’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale con contestuale sottoposizione a sedazione profonda (soluzione che pure gli era stata prospettata), proprio perché quest’ultima non gli avrebbe assicurato una morte rapida. Non essendo egli, infatti, totalmente dipendente dal respiratore artificiale, la morte sarebbe sopravvenuta solo dopo un periodo di apprezzabile durata, quantificabile in alcuni giorni: modalità di porre fine alla propria esistenza che egli reputava non dignitosa e che i propri cari avrebbero dovuto condividere sul piano emotivo” [95].
Al riguardo, occorre in effetti considerare che la sedazione profonda continua, connessa all’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale – sedazione che rientra nel genus dei trattamenti sanitari – ha come effetto l’annullamento totale e definitivo della coscienza e della volontà del soggetto sino al momento del decesso; si comprende, pertanto, come la sedazione terminale possa essere vissuta da taluni come una soluzione non accettabile.
La Corte, infatti, nella sentenza cui si fa riferimento, ha messo in discussione le esigenze di tutela che negli altri casi giustificano la repressione penale dell’aiuto al suicidio.
Se, infatti, il fondamentale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale.
Quanto, poi, all’esigenza di proteggere le persone più vulnerabili, è ben vero che i malati irreversibili esposti a gravi sofferenze appartengono solitamente a tale categoria di soggetti; ma è anche agevole osservare che, se chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato dall’ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede la ragione per la quale la stessa persona, a determinate condizioni, non possa ugualmente decidere di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri.
La conclusione è dunque che entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente, nonché irragionevolmente, la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie – comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze – scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, della Costituzione, imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive.
Con l’ordinanza n. 207 del 2018, la Corte costituzionale ha ritenuto, peraltro, di non poter porre rimedio – almeno allo stato – al riscontrato vulnus, tramite una pronuncia meramente ablativa, riferita ai pazienti che versino nelle condizioni sopra indicate; una simile soluzione, infatti, avrebbe generato il pericolo di lesione di altri valori costituzionalmente protetti, lasciando “del tutto priva di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in tali condizioni, in un ambito ad altissima sensibilità etico-sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi” [96].
In assenza di una specifica disciplina della materia, infatti, “qualsiasi soggetto – anche non esercente una professione sanitaria – potrebbe lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento, assistenza al suicidio a pazienti che lo desiderino, senza alcun controllo ex ante sull’effettiva sussistenza, ad esempio, della loro capacità di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta da essi espressa e dell’irreversibilità della patologia da cui sono affetti” [97].
Per quanto attiene ai contenuti della presente decisione, la Corte aveva già puntualmente individuato, nell’ordinanza n. 207 del 2018, le situazioni in rapporto alle quali l’indiscriminata repressione penale dell’aiuto al suicidio, prefigurata dall’art. 580 c.p., entra in frizione con i precetti costituzionali evocati.
Si tratta in specie – come si è detto – dei casi nei quali venga agevolata l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella trova intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
Quanto, poi, all’esigenza di evitare che la sottrazione pura e semplice di tale condotta alla sfera di operatività della norma incriminatrice dia luogo a intollerabili vuoti di tutela per i valori protetti, generando il pericolo di abusi per la vita di persone in situazioni di vulnerabilità, già più volte la suddetta Corte, in passato, si è fatta carico dell’esigenza di scongiurare esiti similari: in particolare, subordinando la non punibilità dei fatti che venivano di volta in volta in rilievo al rispetto di specifiche cautele, volte a garantire – nelle more dell’intervento del legislatore – un controllo preventivo sull’effettiva esistenza delle condizioni che rendono lecita la condotta.
Ciò è avvenuto, ad esempio, in materia di aborto, con la sentenza n. 27 del 1975 (la quale dichiarò illegittimo l’art. 546 c.p. nella parte in cui non prevedeva che la gravidanza potesse essere interrotta quando l’ulteriore gestazione implicasse “danno, o pericolo, grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile, per la salute della madre”[98]); ovvero, più di recente, in materia di procreazione medicalmente assistita, con le sentenze n. 96 e n. 229 del 2015 (le quali hanno dichiarato illegittime, rispettivamente, le disposizioni che negavano l’accesso alle relative tecniche alle coppie fertili portatrici di gravi malattie genetiche, trasmissibili al nascituro, accertate da apposite strutture pubbliche, e la disposizione che puniva ogni forma di selezione eugenetica degli embrioni, senza escludere le condotte di selezione volte a evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da gravi malattie genetiche trasmissibili accertate nei predetti modi).
Nell’odierno frangente, peraltro, un preciso “punto di riferimento” già presente nel sistema – utilizzabile ai fini considerati, nelle more dell’intervento del Parlamento – è costituito dalla disciplina racchiusa negli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017: disciplina più volte richiamata, del resto, nella stessa ordinanza n. 207 del 2018.
La declaratoria di incostituzionalità attiene, infatti, in modo specifico ed esclusivo all’aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza, ai sensi dell’art. 1, comma 5, della legge ora citata: disposizione che, inserendosi nel più ampio tessuto delle previsioni del medesimo articolo, prefigura una “procedura medicalizzata” estensibile alle situazioni che qui vengono in rilievo.
Il riferimento a tale procedura si presta a dare risposta a buona parte delle esigenze di disciplina[99] poste in evidenza nell’ordinanza n. 207 del 2018.
Ciò vale, anzitutto, con riguardo alle modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto.
Mediante la procedura in questione è, infatti, già possibile accertare la capacità di autodeterminazione del paziente e il carattere libero e informato della scelta espressa.
L’art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017 riconosce, infatti, il diritto all’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in corso alla persona capace di agire e stabilisce che la relativa richiesta debba essere espressa nelle forme previste dal precedente comma 4 per il consenso informato.
La manifestazione di volontà deve essere, dunque, acquisita nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente e documentata in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare, per poi essere inserita nella cartella clinica; ciò, ferma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà che, peraltro, nel caso dell’aiuto al suicidio, è insito nel fatto stesso che l’interessato conserva, per definizione, il dominio sull’atto finale che innesca il processo letale.
Lo stesso art. 1, comma 5, prevede, altresì, che il medico debba prospettare al paziente le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative, promovendo ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica.
In questo contesto, deve evidentemente darsi conto anche del carattere irreversibile della patologia: elemento indicato nella cartella clinica e comunicato dal medico quando avvisa il paziente circa le conseguenze legate all’interruzione del trattamento vitale e sulle possibili alternative.
Lo stesso deve dirsi per le sofferenze fisiche o psicologiche: il promovimento delle azioni di sostegno al paziente, comprensive soprattutto delle terapie del dolore, presuppone una conoscenza accurata delle condizioni di sofferenza.
Il riferimento a tale disciplina implica, d’altro canto, l’inerenza anche della materia considerata alla relazione tra medico e paziente.
Quanto all’esigenza di coinvolgimento dell’interessato in un percorso di cure palliative, l’art. 2 della legge n. 219 del 2017 prevede che debba essere sempre garantita al paziente un’appropriata terapia del dolore e l’erogazione delle cure palliative previste dalla legge n. 38 del 2010 (e da questa incluse, come già ricordato, nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza).
Tale disposizione risulta estensibile anch’essa all’ipotesi che qui interessa: l’accesso alle cure palliative, ove idonee a eliminare la sofferenza, spesso si presta, infatti, a rimuovere le cause della volontà del paziente di congedarsi dalla vita.
Similmente a quanto già stabilito da questa Corte con le citate sentenze n. 229 e n. 96 del 2015, la verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio deve restare peraltro affidata – in attesa della declinazione che potrà darne il legislatore – a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale.
A queste ultime spetterà altresì verificare le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze.
La delicatezza del valore in gioco richiede, inoltre, l’intervento di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze, il quale possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità.
Nelle more dell’intervento del legislatore, tale compito è affidato ai comitati etici territorialmente competenti che, quali organismi di consultazione e di riferimento per i problemi di natura etica che possano presentarsi nella pratica sanitaria, sono investiti di funzioni consultive intese a garantire la tutela dei diritti e dei valori della persona in confronto alle sperimentazioni cliniche di medicinali o, amplius, all’uso di questi ultimi e dei dispositivi medici (art. 12, comma 10, lettera c, del decreto-legge n. 158 del 2012; art. 1 del decreto del Ministro della salute 8 febbraio 2013, recante “Criteri per la composizione e il funzionamento dei comitati etici”): funzioni che involgono specificamente la salvaguardia di soggetti vulnerabili e che si estendono anche al cosiddetto uso compassionevole di medicinali nei confronti di pazienti affetti da patologie per le quali non siano disponibili valide alternative terapeutiche (artt. 1 e 4 del decreto del Ministro della salute 7 settembre 2017, recante “Disciplina dell’uso terapeutico di medicinale sottoposto a sperimentazione clinica”).
Quanto, infine, al tema dell’obiezione di coscienza del personale sanitario, vale osservare che la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici; resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, ad esaudire la richiesta del malato.
Ciò premesso, la Corte ha quindi dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 580 c.p., per violazione degli artt. 2, 13, 32, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in riferimento agli artt. 2 e 8 CEDU, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017 – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi indicati –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
In ultimo, per completezza di trattazione, si segnala che il 23 dicembre 2019 la Corte d’Assise di Milano, conformandosi alla pronuncia della Corte costituzionale, ha definitivamente assolto Marco Cappato perché il fatto non sussiste.
6. Conclusioni.
Con la sentenza n. 242 del 2019, la Corte costituzionale, sancendo che il suicidio può essere realizzato anche mediante l’assistenza di un soggetto terzo, ha ampliato l’estensione del “diritto a morire” così come previsto dalla legge n. 219 del 2017, sicché la morte può essere (auto)procurata anche con modalità da essa non contemplate.
La pronuncia della Suprema Corte trova il fondamento nella ragione secondo la quale, per il principio di autodeterminazione, non è possibile negare all’individuo la libertà di scegliere quando e come porre fine alla propria vita.
Il “diritto a morire”, infatti, al pari del diritto alla vita, richiede una speculare e altrettanta tutela poiché entrambi sono strettamente e indissolubilmente connessi al diritto alla libertà; pertanto, se ogni individuo ha diritto di vivere, allora deve avere il diritto di morire, se ha diritto di scegliere come vivere, allora deve avere il diritto di scegliere come morire.
Se quello alla vita è un diritto non comprimibile, allo stesso modo dev’essere il “diritto a morire” poiché, se l’individuo nasce libero, allora deve essere libero di abbandonare – quando e quomodo – un corpo che, di fatto, impedisce di vivere liberamente.
[1] R. Dworkin, Life’s Dominion (1993), trad. it. Il dominio della vita, Milano, Edizioni di Comunità, 1994, p. 300.
[2] Eutanasia attiva e indiretta, in Mealex, <http://www.mealex.eu/eutanasia-attiva-e-indiretta/>; P. Magliocco, Che differenza c’è tra eutanasia e suicidio assistito?, in La Stampa web, giugno 2019, <https://www.lastampa.it/cronaca/2018/10/25/news/che-differenza-c-e-tra-eutanasia-e-suicidio-assistito-1.34055302>.
[3] La Corte costituzionale fa riferimento alle modalità previste dalla normativa sul consenso informato (art. 1), sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua (art. 2).
[4] Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale il 16 gennaio 2018, n. 12 ed entrata in vigore il 31 gennaio 2018.
[5] “Riguardo ai fatti anteriori la non punibilità dell’aiuto al suicidio rimarrà subordinata, in specie, al fatto che l’agevolazione sia stata prestata con modalità anche diverse da quelle indicate, ma idonee comunque sia a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti. Occorrerà dunque che le condizioni del richiedente che valgono a rendere lecita la prestazione dell’aiuto – patologia irreversibile, grave sofferenza fisica o psicologica, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e capacità di prendere decisioni libere e consapevoli – abbiano formato oggetto di verifica in ambito medico; che la volontà dell’interessato sia stata manifestata in modo chiaro e univoco, compatibilmente con quanto è consentito dalle sue condizioni; che il paziente sia stato adeguatamente informato sia in ordine a queste ultime, sia in ordine alle possibili soluzioni alternative, segnatamente con riguardo all’accesso alle cure palliative ed, eventualmente, alla sedazione profonda continua. Requisiti tutti la cui sussistenza dovrà essere verificata dal giudice nel caso concreto”, Corte cost., Sent., (ud. 25 settembre 2019) 22 novembre 2019, n. 242, punto 7 dei Considerato in diritto, in cortecostituzionale, <https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2019&numero=242>.
[6] Corte cost., Sent., (ud. 25 settembre 2019) 22 novembre 2019, n. 242, ivi.
[7] La Corte d’Assise di Milano, Sez. I, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale con Ordinanza del 14 febbraio 2018, in associazionelucacoscioni.it, <https://www.associazionelucacoscioni.it/wp-content/uploads/2017/11/Ordinanza-Corte-di-Assise-Milano-Processo-Cappato.pdf>.
[8] In particolare, Fabiano Antoniani riportava lesioni midollari a livello delle vertebre C3 e C4 che ne cagionavano la paralisi totale e la cecità corticale. Pur rimanendo nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, l’Antoniani non era autonomo nella respirazione (necessitando, seppur non continuativamente, dell’ausilio di un respiratore e di periodiche aspirazioni del muco), nell’alimentazione (era gravemente disfagico con deficit sia della fase orale sia di quella degluttitoria, e necessitava di nutrizione intraparietale) e nell’evacuazione. Inoltre, soffriva di ricorrenti contrazioni e spasmi che erano incoercibili e gli provocavano sofferenze che non potevano essere completamente lenite farmacologicamente, se non mediante sedazione profonda.
[9] Le cure, seppur tempestive e in centri altamente specializzati, non raggiungevano nessuno degli obiettivi sperati in termini di guarigione o miglioramento delle condizioni dell’Antoniani. Dopo diversi ricoveri e oltre un anno trascorso presso l’unità spinale dell’Ospedale Niguarda la prognosi si rivelava irreversibile. Data l’inefficacia delle cure ufficiali, l’Antoniani decideva di recarsi in India al fine di sottoporsi ad un trattamento sperimentale con trapianto di cellule staminali. Tuttavia, dopo un effimero miglioramento, anche tale terapia rivelava la sua inutilità.
[10] “Le mie giornate sono intrise di sofferenza e disperazione, non trovando più il senso della mia vita. Fermamente deciso, trovo più dignitoso e coerente, per la persona che sono, terminare questa mia agonia”, così scriveva Fabiano Antoniani in una lettera-testamento, in “La storia di dj Fabo e il processo a Marco Cappato. Il caso che ha portato la legge sul fine vita all’attenzione della Corte costituzionale”, in La Stampa web, settembre 2019, <https://www.lastampa.it/cronaca/2019/09/23/news/la-storia-di-dj-fabo-e-il-processo-a-marco-cappato-1.37501077>; Carlo Lorenzo Veneroni (medico curante di Fabiano Antoniani) sentito a sit il 4 aprile 2017 dichiarava: “Due giorni prima della sua partenza per la Svizzera feci visita a Fabiano, con il quale parlammo della sua scelta, e lo stesso mi ribadì la sua idea di andare incontro ad una liberazione da una vita che lo rendeva prigioniero”, Richiesta di archiviazione del procedimento (2 maggio 2017), in giurisprudenza penale web, p. 2, <http://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2017/10/Richiesta-di-archiviazione_Cappato.pdf>.
[11] Tesoriere dell’Associazione “Luca Coscioni” per la libertà di ricerca scientifica. In alternativa al suicidio assistito, Cappato aveva esposto all’Antoniani la possibilità di essere sottoposto in Italia alla sedazione profonda, con interruzione della respirazione e dell’alimentazione artificiale, lasciando che la malattia facesse il suo corso.
[12] Tra i vari casi ricordano quello di Giovanni Nuvoli – cinquantatreenne affetto da sclerosi laterale amiotrofica che, non essendo stato il medico anestesista autorizzato a staccare il respiratore, decise di interrompere l’assunzione di acqua e di cibo e morì di inedia – e quello di Walter Piludu – sessantaseienne affetto da sclerosi laterale amiotrofica a cui il Tribunale di Cagliari ha riconosciuto il diritto di poter interrompere la ventilazione polmonare previa sedazione.
[13] Piergiorgio Welby (Roma, 26 dicembre 1945 – Roma 20 dicembre 2006) è stato un attivista, giornalista, politico, poeta e pittore italiano, impegnato per il riconoscimento legale del diritto al rifiuto dell’accanimento terapeutico in Italia e per il diritto all’eutanasia, nonché vicepresidente dell’Associazione “Luca Coscioni”.
[14] Malattia degenerativa dei muscoli scheletrici che interessa, in particolare, i muscoli della faccia e delle spalle ma lascia intatte le funzioni intellettive. Nella maggior parte delle forme distrofiche è presente l’insufficienza respiratoria, in R. D. Adams, M. Victor, Principi di neurologia, 8 ed., New York, Mcgrow-Hill Education, 2006.
[15] Con ricorso ex art. 700 c.p.c., Welby chiedeva al Giudice di ordinare ai medici che lo avevano in cura di interrompere la terapia di assistenza respiratoria esercitata, contro la sua volontà, da un ventilatore polmonare. Il ricorso era stato dichiarato integralmente inammissibile perché il Giudice, pur riconoscendo l’esistenza di un diritto soggettivo costituzionalmente garantito di poter richiedere l’interruzione della terapia, lo riteneva privo di tutela giuridica in assenza di specifica normativa ed in considerazione dell’esistenza di una legislazione contraria che risponde al principio della indisponibilità della vita umana, ovvero gli artt. 5 c.c., che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo tali da determinare un danno permanente, 575, 576, 577, n. 3, 579 e 580 c.p. (omicidio del consenziente e aiuto al suicidio), nonché gli artt. 35 e 37 del Codice di deontologia medica; cfr. Trib. Roma, Sez. I civile, Ord. 16 dicembre 2006, in associazionelucacoscioni.it, <https://www.associazionelucacoscioni.it/wp-content/uploads/2017/09/Tribunale-di-Roma.pdf>.
[16] Biografia, in associazionelucacoscioni.it, <https://www.associazionelucacoscioni.it/piergiorgio-welby/> e in Wikipedia (Piergiorgio Welby), <https://it.wikipedia.org/wiki/Piergiorgio_Welby>.
[17] L’ordine dei medici di Cremona aveva aperto una procedura disciplinare nei confronti del Dott. Mario Riccio che poi veniva chiusa in quanto veniva accertato che il medico aveva agito nella piena legittimità del comportamento etico e professionale.
[18] In particolare, il Pubblico Ministero disponeva una consulenza medico-legale e tossicologica per accertare le cause della morte del Welby; acquisiva le dichiarazioni del medico anestesista operante, Mario Riccio, e di Marco Cappato che era presente; acquisiva documentazione sanitaria riguardante il decesso in possesso di Schett Wilhelmine (detta Mina Welby), moglie del Welby.
[19] “se è vero (…) che l’intervento del medico a favore del paziente debba essere giuridicamente giustificato in ragione dell’esistenza di uno stato di necessità, è altrettanto vero che nel nostro ordinamento giuridico non è rinvenibile alcun obbligo giuridico per il medico di intervenire prescindendo dalla volontà del paziente. Infatti lo stato di necessità, quale causa oggettiva di esclusione del reato, non impone alcun obbligo di intervento ma si limita ad escludere rilevanza penale della condotta del medico che intervenga a favore della sopravvivenza del malato, anche senza avere acquisito il consenso di quest’ultimo. Se ciò è vero nel caso di assenza di consenso, a maggior ragione non esiste alcun obbligo giuridico per il medico di intervenire se il paziente stesso abbia addirittura espresso il proprio dissenso informato”, Sentenza GUP di Roma, 23 luglio 2007, n. 2049, p. 29, in unipa.it, <http://www1.unipa.it/gpino/Villa_sentenza%20welby.pdf>.
[20] Sentenza GUP di Roma, n. 2049 del 2007, ivi.
[21] Decreto del Tribunale di Lecco, in European Center for Law, Science and new Technologies. Centro di ricerca interdipartimentale dell’Università degli Studi di Pavia, <https://www.unipv-lawtech.eu/files/englarolecco1999.pdf>.
[22] Decreto della Corte d’Appello di Milano, in European Center for Law, Science and new Technologies. Centro di ricerca interdipartimentale dell’Università degli Studi di Pavia, <https://www.unipv-lawtech.eu/files/englarocamilano1999.pdf>.
[23] Il Tribunale rigetta il ricorso presentato dal tutore poiché il potere di cura del tutore implica un quid positivo volto alla conservazione della vita del soggetto stesso e della sua integrità psico-fisica. Appare quindi una contraddizione in termini o, comunque, una conseguenza contraria alla logica, prima ancora che al diritto, assegnare al tutore, ovverosia a colui che è titolare di poteri-doveri di conservazione della persona interdetta, la potestà di compiere atti che implichino di necessità (come, nella specie, a seguito della cessazione della somministrazione dell’alimentazione artificiale) la morte del soggetto tutelando; cfr. Decreto del Tribunale di Lecco, in European Center for Law, Science and new Technologies. Centro di ricerca interdipartimentale dell’Università degli Studi di Pavia, <https://www.unipv-lawtech.eu/files/englarotrib20luglio2002.pdf>.
[24] La Corte d’Appello di Milano rigetta il reclamo del tutore sulla base dell’importanza e della delicatezza della questione. Il Collegio auspica che il legislatore ordinario individui e predisponga gli strumenti adeguati per l’efficace protezione della persona e il rispetto del suo diritto di autodeterminazione, prevedendo una verifica rigorosa da parte dell’Autorità giudiziaria della sussistenza di manifestazioni di direttive anticipate. L’intervento legislativo potrebbe evitare strumentalizzazioni e sofferenze e contribuirebbe alla responsabilizzazione della collettività; cfr. Decreto della Corte d’Appello di Milano, in European Center for Law, Science and new Technologies. Centro di ricerca interdipartimentale dell’Università degli Studi di Pavia, <https://www.unipv-lawtech.eu/files/englarocamilano2003.pdf>.
[25] Cass. civ., Sez. I, Ord., 20 aprile 2005, n. 8291, in Federalismi.it, <https://www.federalismi.it/ApplOpenFilePDF.cfm?artid=12026&dpath=document&dfile=10022009093402.pdf&content=Corte%2Bdi%2BCassazione%2C%2B%2BOrdinanza%2Bn%2E%2B8291%2F2005%2C%2Bin%2Btema%2Bdi%2Binterruzione%2Bdell%27idratazione%2Be%2Bdell%27alimentazione%2B%28caso%2BEnglaro%29%2B%2D%2Bstato%2B%2D%2Bdocumentazione%2B%2D%2B>.
[26] Il ricorso proposto dal tutore e dal curatore speciale di Eluana Englaro deve essere dichiarato inammissibile per difetto da parte di quest’ultimi dei poteri di rappresentanza sostanziale e quindi processuale dell’interdetta con riferimento alla domanda di interruzione dell’alimentazione artificiale; cfr. Decreto del Tribunale di Lecco, in European Center for Law, Science and new Technologies. Centro di ricerca interdipartimentale dell’Università degli Studi di Pavia, <https://www.unipv-lawtech.eu/ebook/3/index.html>.
[27] La Corte d’Appello di Milano ritiene che il ricorso in esame, pur ammissibile, non possa essere accolto e vada respinto nel merito poiché la medesima Corte non ha alcuna possibilità di accedere a distinzioni tra vite degne e non degne di essere vissute, dovendo fare riferimento unicamente al bene vita costituzionalmente garantito, indipendentemente dalla qualità della stessa e dalle percezioni soggettive che di detta qualità si possano avere. Il bilanciamento tra il bene giuridico della vita, da un lato, e quelli della dignità e dell’autodeterminazione della persona, dall’altro lato, bilanciamento, a giudizio di questa Corte, non può che risolversi a favore del primo; cfr. Decreto della Corte d’Appello di Milano, in European Center for Law, Science and new Technologies. Centro di ricerca interdipartimentale dell’Università degli Studi di Pavia, <https://www.unipv-lawtech.eu/ebook/4/index.html>.
[28] La Corte di Cassazione – escluso che l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino nasogastrico costituiscano, in sé, oggettivamente una forma di accanimento terapeutico, pur essendo indubbiamente un trattamento sanitario – ha deciso che il Giudice può, su istanza del tutore, autorizzarne l’interruzione soltanto in presenza di due circostanze concorrenti: a) la condizione di stato vegetativo del paziente sia apprezzata clinicamente come irreversibile, senza alcuna sia pur minima possibilità, secondo standard scientifici internazionalmente riconosciuti, di recupero della coscienza e delle capacità di percezione; b) sia univocamente accertato, sulla base di elementi tratti dal vissuto del paziente, dalla sua personalità e dai convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che ne orientavano i comportamenti e le decisioni, che questi, se cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, deve essere negata l’autorizzazione, perché allora va data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa; cfr. Cass. civ. Sez. I, (ud. 4 ottobre 2007) 16 ottobre 2007, n. 21748, in Leggi d’Italia PA,<http://pa.leggiditalia.it/#id=44MA0002074010,__m=document>.
[29] Cass. civ. Sez. I, (ud. 4 ottobre 2007) 16 ottobre 2007, n. 21748, punto 10 dei Motivi della decisione, ivi.
[30] Cass. civ. Sez. I, (ud. 4 ottobre 2007) 16 ottobre 2007, n. 21748, punto 7.1. dei Motivi della decisione, ivi.
[31] Decreto della Corte d’Appello di Milano, in European Center for Law, Science and new Technologies. Centro di ricerca interdipartimentale dell’Università degli Studi di Pavia, <https://www.unipv-lawtech.eu/files/englarocadecr25giugno2008.pdf>.
[32] Le SS.UU., facendo applicazione di principi consolidati nella giurisprudenza e ripercorrendo le funzioni attribuite al P.M. nel processo civile, hanno, chiarito che: a) al fine di estendere il limitato potere di impugnazione del P.M. non varrebbe l’interpretazione estensiva della nozione di questioni attinenti allo “stato e capacità delle persone”, atteso che anche in queste ipotesi alla previsione dell’intervento necessario del P.M. non si accompagna il potere di impugnazione, identificandosi le relative funzioni in quelle che svolge il Procuratore generale presso la Cassazione; b) non è utile il richiamo alla impugnazione nell’“interesse della legge” di cui al novellato art. 363 c.p.c.; c) la limitazione del potere di impugnazione del P.M. presso il Giudice del merito si sottrae a dubbi di legittimità costituzionale, stante l’evidente ragionevolezza del non identico trattamento di fattispecie in cui viene in rilievo un diritto personalissimo di spessore costituzionale (autodeterminazione terapeutica), rispetto al quale è coerente che il P.M. non possa contrapporsi fino al punto della impugnazione di decisione di accoglimento della domanda di tutela del titolare, e fattispecie connotate da prevalente interesse pubblico, come quelle cui fa rinvio l’art. 69 c.p.c.; cfr. Cass. SS.UU. Sent., (ud. 11 novembre 2008) 13 novembre 2008, n. 27145, in Federalismi.it, <https://www.federalismi.it/ApplOpenFilePDF.cfm?artid=11321&dpath=document&dfile=14112008163515.pdf&content=Corte%2Bdi%2BCassazione%2C%2B%2BSentenza%2Bn%2E%2B27145%2F2008%2C%2BLe%2BSS%2EUU%2E%2Bsul%2Bcaso%2BEnglaro%2B%2D%2Bstato%2B%2D%2Bdocumentazione%2B%2D%2B>.
[33] La Camera dei Deputati contestava l’invasione o comunque la menomazione da parte della Corte di Cassazione della sfera di poteri attribuiti costituzionalmente agli organi del potere legislativo poiché la stessa Corte di Cassazione aveva posto a fondamento della sua decisione presupposti non ricavabili dall’ordinamento vigente, neppure mediante l’applicazione dei criteri ermeneutici, ledendo, in tal modo, la sfera di attribuzioni costituzionali della Camera; cfr. Ricorso della Camera dei Deputati, in European Center for Law, Science and new Technologies. Centro di ricerca interdipartimentale dell’Università degli Studi di Pavia, <https://www.unipv-lawtech.eu/files/cameraconflittoattribuzionedecisione.pdf>. Il Senato della Repubblica riteneva che, nella sentenza della Corte di Cassazione n. 21748 del 2007, il potere giudiziario si fosse materialmente sostituito al potere legislativo, al quale spetta solo la funzione “nomo genetica” a fronte di quella “nomofilattica” attribuita al primo; e ciò in aperto contrasto con il principio di separazione dei poteri, espresso anche nella “teoria della Costituzione scritta”, alla garanzia della quale il giudizio per conflitto di attribuzioni è preordinato; cfr. Ricorso del Senato della Repubblica, in European Center for Law, Science and new Technologies. Centro di ricerca interdipartimentale dell’Università degli Studi di Pavia, <https://www.unipv-lawtech.eu/files/conflattribuzione.pdf>.
[34] Corte cost., Ord. (ud. 8 ottobre 2008) 8 ottobre 2008, n. 334, in Consulta online, <http://www.giurcost.org/decisioni/2008/0334o-08.html>.
[35] Corte EDU, Ada Rossi et al. c. Italia, in European Center for Law, Science and new Technologies. Centro di ricerca interdipartimentale dell’Università degli Studi di Pavia, <https://www.unipv-lawtech.eu/files/corteedu.pdf>.
[36] I. Anrò, Il caso Englaro di fronte alla Corte europea dei diritti dell’uomo: un confronto con la Corte di giustizia delle Comunità europee circa la legittimazione ad agire delle associazioni a difesa dei diritti dell’uomo, in forumcostituzionale.it, maggio 2009, p. 4, <http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/documenti_forum/giurisprudenza/corte_europea_diritti_uomo/0002_anro.pdf>.
[37] TAR Lombardia, Sent., 26 gennaio 2009, n. 214, in European Center for Law, Science and new Technologies. Centro di ricerca interdipartimentale dell’Università degli Studi di Pavia, <https://www.unipv-lawtech.eu/files/tar_214_2005.pdf>.
[38] L. A. Seneca, in Epistolae morales ad Lucilium, trad. it. Lettere morali a Lucilio.
[39] G. Pistolato, Seneca e il suicidio (lettere morali a Lucilio, De ira e De brevitate vitae), in pistolato.wordpress.com, <https://pistolato.wordpress.com/2013/03/10/seneca-e-il-suicidio-lettere-morali-a-lucilio-de-ira-e-de-brevitate-vitae/>.
[40] Corte cost., Sent., (ud. 20 maggio 1998) 26 maggio 1998, n. 185, in Consulta online, <http://www.giurcost.org/decisioni/1998/0185s-98.html>.
[41] Redazione Diritto.it, “Biotestamento, Legge 219/2017”, in Diritto.it, luglio 2018, <https://www.diritto.it/biotestamento-legge-219-2017/>; Redazione Altalex, “Biotestamento: il testo della nuova legge. Legge 22/12/2017 n° 219, G.U. 16/01/2018”, in Altalex, gennaio 2018, <https://www.altalex.com/documents/news/2017/04/19/biotestamento-camera-approva-la-norma-contro-accanimento-terapeutico>; M. Annoni, Legge 22 dicembre 2017, n. 219. Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, in Riv. giur. The future, the science and Ethics, dicembre 2017, n. 2, vol. 2, <https://scienceandethics.fondazioneveronesi.it/wp-content/uploads/2018/03/Rivista4_legge.pdf>; Sito del Ministero della Salute, “Legge sul consenso informato e sulle DAT”, marzo 2018, <http://www.salute.gov.it/portale/dat/dettaglioContenutiDat.jsp?lingua=italiano&id=4953&area=dat&menu=vuoto>.
[42] Richiesta di archiviazione, in giurisprudenza penale web, <http://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2017/10/Richiesta-di-archiviazione_Cappato.pdf>.
[43] Memoria difensiva, in giurisprudenza penale web, <http://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2017/11/memoria_difensiva.pdf>.
[44] Memoria del PM e questione di legittimità costituzionale, in giurisprudenza penale web, <http://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2017/07/580-cp-cappato-questione-legittimita-1.pdf>.
[45] Ordinanza per la formulazione dell’imputazione a seguito di richiesta di archiviazione non accolta del 10 luglio 2017, in giurisprudenza penale web, <http://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2017/10/Ordinanza-per-imputazione_Cappato.pdf>.
[46] Memoria d’udienza del PM, in giurisprudenza penale web, <http://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2018/01/memoria-pubblici-ministeri.pdf>.
[47] Note di udienza degli avvocati difensori, in giurisprudenza penale web, <http://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2018/01/memoria-difesa.pdf>.
[48] Spontanee dichiarazioni rese da Marco Cappato nelle conclusioni del 17 gennaio 2018, in associazionelucacoscioni.it, <https://www.associazionelucacoscioni.it/processo-marco-cappato-punto-punto/>; Video dell’udienza trasmesso da Radio Radicale, in Radio Radicale. Conoscere per deliberare, <https://www.radioradicale.it/scheda/528972/processo-a-marco-cappato-per-aiuto-al-suicidio-per-aver-accompagnato-fabiano-antoniani>.
[49] Ordinanza di remissione della questione di legittimità alla Corte Costituzionale del 14 febbraio 2018, in Leggi d’Italia PA, <http://pa.leggiditalia.it/#id=10SE0001928534,__m=document>.
[50] Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 9 maggio 2013) 31 luglio 2013, n. 33244, in Leggi d’Italia PA, <http://pa.leggiditalia.it/#document_text=Cass.%20pen.%2C%20Sez.%20I%2C%20n.%2033244%20del%209%20maggio%202013,__name=main,__m=form>.
[51] Cass. civ. Sez. I, Sent., (ud. 4 ottobre 2007) 16 ottobre 2007, n. 21748, in Leggi d’Italia PA, <http://pa.leggiditalia.it/#id=10SE0000498896,__m=document>.
[52] Corte d’Assise di Messina, Sent., 10 giugno 1997 (Munaò), in Leggi d’Italia PA, <http://pa.leggiditalia.it/#id=44MA0000502931,highlight=1,__m=document>.
[53] Cass. pen. Sez. I, (ud. 6 febbraio 1998) 12 marzo 1998, n. 3147, in Leggi d’Italia PA, <http://pa.leggiditalia.it/#id=10SE1000362039,__m=document>.
[54] G.U.P. del Tribunale di Vicenza, 14 ottobre 2015 (Tedde).
[55] Corte d’Appello di Venezia, Sent. n. 9 del 2017.
[56] Nella relazione introduttiva del Presidente della Commissione Ministeriale Appiani, si afferma “Non vi è dubbio, per ragioni che non è qui luogo a diffusamente ripetere, ma che si ricollegano con la prevalenza dell’interesse statuale e sociale sull’egoismo individuale, che la vita umana e l’integrità fisica siano beni, di cui non si può liberamente disporre” (vedi in lavori preparatori 1929 pt. I, 478).
[57] La Relazione al Re che aveva accompagnato il progetto definitivo del codice penale Rocco nel 1930 sottolineava la ratio della norma, che vedeva nel suicidio un atto inutilmente perseguibile ma che voleva sanzionare chiunque concorresse in qualsiasi modo nel fatto altrui: “il principio che l’individuo non possa liberamente disporre della propria vita, intesto in senso assoluto e rigoroso, indusse taluno ad affermare la penale incriminabilità del suicidio (…). Prevalenti considerazioni politiche, ispirate a ragioni di prevenzione, ossia precisamente allo scopo di contribuire alla conservazione del bene giuridico della vita, impedendo che di essa si faccia scempio con più meditata preordinazione dei mezzi e con più ponderata esecuzione per tema di incorrere negli errori della legge penale, hanno indotto le legislazioni più recenti ad escludere il suicidio dal novero dei reati, limitando la punizione ai casi di partecipazione all’altrui suicidio”.
[58] Corte cost., Sent., (ud. 9 ottobre 1990) 22 ottobre 1990, n. 471, in Leggi d’Italia PA, <http://pa.leggiditalia.it/#id=10SE0000251696,__m=document>.
[59] La Corte costituzionale, già nella sentenza n. 238 del 1996, ha infatti affermato che gli interventi relativi alla salute coinvolgono “un diritto inviolabile, quello della libertà personale, rientrante tra i valori supremi, quale indefettibile nucleo essenziale dell’individuo, non diversamente dal contiguo e connesso diritto alla vita ed alla integrità fisica, con il quale concorre o creare la matrice prima di ogni altro diritto costituzionalmente protetto dalla persona”.
[60] Come è stato più volte ribadito con riferimento al rifiuto alle emotrasfusioni espresse dai testimoni di Geova, cfr. Cass. civ. Sez. III, (ud. 15 gennaio 2007) 23 febbraio 2007, n. 4211 e Cass. n. 2367 del 15 settembre 2008 in cui è stato affermato che alla persona è riconosciuto il diritto “di indubbia rilevanza costituzionale, di non curarsi, anche se tale condizione la esponga al rischio della vita stessa”.
[61] Cfr. le diverse decisioni sulle vaccinazioni obbligatorie, fra tutte Corte cost., Sent., (ud. 14 giugno 1990) 22 giugno 1990, n. 307, in Consulta online, <http://www.giurcost.org/decisioni/1990/0307s-90.html>.
[62] Sent. GUP Roma, 23 luglio 2007, cit.
[63] Cass. civ. Sez. I, n. 21748 del 2007, cit.
[64] In forza dell’art. 117 della Costituzione “è parimenti da respingere l’idea che l’interprete non possa applicare la CEDU, se non con riferimento ai casi che siano già stati oggetto di puntuali pronunce da parte della Corte di Strasburgo. Al contrario, «[l]’applicazione e l’interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battuta ai giudici degli Stati membri» (sentenze n. 49 del 2015 e n. 349 del 2007). Il dovere di questi ultimi di evitare violazioni della CEDU li obbliga ad applicarne le norme, sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte EDU, specie quando il caso sia riconducibile a precedenti della giurisprudenza del giudice europeo (sentenze n. 276 e n. 36 del 2016). In tale attività interpretativa, che gli compete istituzionalmente ai sensi dell’art. 101, secondo comma, Cost., il giudice comune incontra il solo limite costituito dalla presenza di una normativa nazionale di contenuto contrario alla CEDU. In tale caso, la disposizione interna va impugnata innanzi a questa Corte per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., ove non sia in alcun modo interpretabile in senso convenzionalmente orientato (sentenza n. 239 del 2009)”, Corte cost., Sent., (ud. 7 febbraio 2017) 7 aprile 2017, n. 68, in consulta online, <http://www.giurcost.org/decisioni/2017/0068s-17.html>.
[65] L’art. 2 della Convenzione prevede, sotto la rubrica “diritto alla vita”, che “il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale (…)”. L’art. 8 sancisce, sotto la rubrica “diritto al rispetto della vita privata e familiare”, che “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine o alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
[66] La sig.ra Pretty, paralizzata e affetta da una malattia neurodegenerativa (la SLA), presentò ricorso alla Corte di Strasburgo avverso il rifiuto del rappresentante della Pubblica accusa inglese di accordare un’impunità penale al marito qualora l’avesse aiutata a suicidarsi e contro la proibizione dell’aiuto al suicidio prevista dal diritto britannico, che a suo parere violava i diritti garantiti dagli artt. 2, 3, 8, 9 e 14 della Convenzione.
[67] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sent., 29 aprile 2002, ricorso n. 2346/2002, in dirittiuomo.it, <http://www.dirittiuomo.it/caso-pretty>.
[68] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sent., 29 aprile 2002, ricorso n. 2346/2002, ibid.
[69] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sent., 29 aprile 2002, ricorso n. 2346/2002, ibid.
[70] I. A. Colussi, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – Pretty v. Regno Unito: fine vita, in Riv. giur. BioDiritto, aprile 2002,<https://www.biodiritto.org/Biolaw-pedia/Giurisprudenza/Corte-Europea-dei-Diritti-dell-Uomo-Pretty-v.-Regno-Unito-fine-vita>.
[71] Il ricorrente – cittadino svizzero, affetto da circa vent’anni da un disturbo bipolare, che negli anni precedenti aveva compiuto due tentativi di suicidio e subito più ricoveri in cliniche psichiatriche, e che dal 2004 era divenuto membro della Dignitas – si era rivolto invano a diversi psichiatri e presso diverse Autorità per ottenere l’autorizzazione a procurarsi, tramite detta associazione, il pentobarbital, per garantirsi la possibilità di morire senza dolore e rischio di insuccesso.
[72] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sent., 20 gennaio 2011, ricorso n. 31322/2007, in Riv. giur. BioDiritto, <https://www.biodiritto.org/ocmultibinary/download/2444/23225/9/6ff0f08c7b3b6614fed0087b7ad90832.pdf/file/HAAS_v._SWITZERLAND.pdf>.
[73] Nell’affermare questo principio la Corte faceva riferimento espresso alle restrizioni relative all’interruzione volontaria della gravidanza.
[74] D. Butturini, Note a margine di Corte E.D.U. Haas contro Svizzera, in Riv. giur. rivistaaic – associazione italiana dei costituzionalisti, luglio 2011, n. 3, p. 1 ss., <https://www.rivistaaic.it/images/rivista/pdf/Butturini.pdf>; I. A. Colussi, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo – Hass v. Svizzera: fine vita, in Riv. giur. BioDiritto, gennaio 2011, <https://www.biodiritto.org/Biolaw-pedia/Giurisprudenza/Corte-Europea-dei-Diritti-dell-Uomo-Haas-v.-Svizzera-fine-vita>; A. Ciervo, L’insostenibile leggerezza del margine di apprezzamento. Il problema dell’eutanasia davanti ai giudici di Strasburgo: in margine al caso Haas c. Svizzera, in Riv. giur. Diritti comparati. Comparare i diritti fondamentali in Europa, settembre 2011, <http://www.diritticomparati.it/my-entry-6/>.
[75] La ricorrente, un’anziana signora di ottant’anni, che non era affetta da una malattia invalidante, ma voleva porre fine alla sua vita non riuscendo ad accettare il decadimento delle sue capacità fisiche e mentali legato all’invecchiamento, lamentava di non aver potuto ottenere dalle Autorità svizzere l’autorizzazione a procurarsi una dose letale di farmaco per suicidarsi. Sosteneva quindi la lesione del suo diritto di decidere il momento ed il modo di morire, in violazione all’art. 8 della Convenzione.
[76] Il codice penale svizzero si limita a punire l’aiuto o l’istigazione al suicidio, quando siano attuati “per motivi egoistici” (art. 115 c.p.). A sua volta l’omicidio del consenziente (art. 114 c.p.) è costruito come ipotesi penale attenuata sulla base dei motivi (“chiunque, per motivi stimabili, e soprattutto per compassione, cagiona la morte di un uomo a seguito di una sua richiesta seria e pressante, è punito con pena detentiva sino a tre anni o con la pena pecuniaria”). Nel diritto svizzero, le condizioni alle quali le sostanze letali possono essere prescritte sono contenute nelle linee guida dell’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche, che fungono da codice deontologico per i sanitari, ma non provengono da una fonte governativa. Nelle stesse si ammette la possibilità di aiutare il suicidio dei pazienti nella fase terminale della loro malattia – e quindi anche di prescrivere la somministrazione di sostanze letali – quando la sofferenza sia diventata intollerabile ed il malato esprima una volontà in tal senso.
[77] Appare opportuno richiamare incidentalmente anche un’altra sentenza in materia di suicidio, quella relativa al caso “Koch vs Germania” (Provv. del 19 luglio 2012), in cui è stato stabilito che il rifiuto dei giudici nazionali di esaminare nel merito la domanda del ricorrente, svolta in proprio, di ottenere l’autorizzazione all’acquisto di un farmaco letale per far conseguire una morte dignitosa alla propria consorte, anch’essa ricorrente prima del decesso intervenuto in corso di causa, integrava una violazione del diritto del ricorrente alla tutela della propria vita privata. Nella sentenza non veniva analizzato il diritto della donna ad ottenere il farmaco letale, ma solo quello del marito a vedere verificata detta istanza alla luce dei principi della Convenzione. Nella pronuncia, peraltro, veniva menzionata come premessa la giurisprudenza della Corte con riferimento ai casi Pretty e Haas ed è interessante la sintesi (o interpretazione autentica) di dette decisioni soprattutto con riguardo a quest’ultima causa in cui, si rileva, “la Corte ha ulteriormente sviluppato questa giurisprudenza – in tema di tutela della “autonomia personale” – riconoscendo il diritto di un individuo di decidere come e quando dovrebbe finire la propria vita, purché questi fosse in grado di formarsi una volontà libera”. Occorre infine far cenno a due recenti pronunce della CEDU con riguardo all’obbligo di rispettare lo sciopero della fame posto in essere da alcuni detenuti in cui si è affermato, in un caso, che la scelta degli organi dello Stato di non alimentare forzosamente il detenuto non poteva essere criticata essendo conseguenza dell’aver accettato il suo chiaro rifiuto di permettere qualsiasi intervento, benché le sue condizioni di salute comportassero un pericolo per la sua vita (cfr. Horoz vs Turchia del 14 agosto 2014) e, nell’altro caso, che l’alimentazione forzata che era stata praticata doveva ritenersi lecita, in quanto lo sciopero della fame – poi peraltro interrotto – era stato posto in essere dal detenuto non già per porre fine ai suoi giorni, ma per far pressione sulle autorità nazionali per ottenere un cambio nella legislazione sugli stupefacenti ed una riduzione della pena, circostanza che “esclude la rilevanza dell’art. 8 CEDU” (cfr. Rapaz vs Svizzera del 26 marzo 2013).
[78] C. Parodi, Una Corte divisa su una materia divisiva: una pronuncia di Strasburgo in tema di suicidio assistito. C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 14 maggio 2013, Gross c. Svizzera, in Riv. giur. DPC – Diritto Penale Contemporaneo, giugno 2013, <https://www.penalecontemporaneo.it/d/2314-una-corte-divisa-su-una-materia-divisiva-una-pronuncia-di-strasburgo-in-tema-di-suicidio-assistito>; Id., Una cauta pronuncia della Corte europea in tema di eutanasia attiva. Corte EDU, sez. V, sent. 19 luglio 2012, Koch c. Germania, ric. n. 497/09, in Riv. giur. DPC – Diritto penale Contemporaneo, febbraio 2013, <https://www.penalecontemporaneo.it/d/2053-una-cauta-pronuncia-della-corte-europea-in-tema-di-eutanasia-attiva>; L. D’Avack, Il dominio delle biotecnologie. L’opportunità e i limiti dell’intervento del diritto, Torino, Giappichelli, 2018, p. 92 ss.; V. Cianciolo, Corte EDU in tema di eutanasia. Considerazioni a margine della sentenza Gross v. Svizzera, Corte EDU in tema di eutanasia e assenza di chiarezza nelle linee guida sull’assistenza al suicidio, in ProfessioneGiustizia.it, dicembre 2014, <https://www.professionegiustizia.it/documenti/notizia/2014/corte_edu_in_tema_di_eutanasia>.
[79] Cfr. Sentenza della Corte d’Assise di Messina citata.
[80] Si potrebbero peraltro configurare altri reati, quale la violazione della legge sugli stupefacenti o sulle armi, la ricettazione di farmaci illegittimamente commercializzati, reati di pericolo per la collettività ecc.
[81] Seppure non sussista un dovere di dissuasione e siano limitati i casi in cui vige l’obbligo di impedire il suicidio, comunque le condotte che possono alterare il processo decisorio del soggetto passivo, così come osservato da autorevole dottrina, possono essere le più varie, come per esempio la rappresentazione falsa, esagerata o tendenziosa di mali o pericoli, le esortazioni, l’eccitazione ecc. Nell’individuare la condotta che integra il reato di “concussione per induzione” di cui all’art. 317 c.p. la Corte di Cassazione ha affermato che “l’induzione” può assumere svariate forme (più blande della costrizione) quali “l’inganno, la persuasione, la suggestione, l’allusione, il silenzio o l’ostruzionismo, anche variamente ed opportunamente combinati tra di loro”; cfr. Cass. pen. Sez. VI, 1 ottobre 2003, n. 4958 e Cass. pen. Sez. VI, 11 gennaio 2013, n. 17285.
[82] Cfr. Corte cost., Sent., (ud. 5 novembre 2012) 15 novembre 2012, n. 251, in corte costituzionale.it, <https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2012&numero=251>; Corte cost., Sent., (ud. 1° giugno 2016) 16 giugno 2016, n. 341 <https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2016&numero=148>.
[83] La disciplina relativa all’interruzione volontaria di gravidanza è significativa sia perché indica gli strumenti adottati dallo Stato per tutelare il diritto alla vita e per garantire che le scelto della donna siano coscienti e responsabili, sia perché prevede pene diverse nelle differenti situazioni, rivelando l’esigenza di una diversificazione del regime sanzionatorio nel punire le condotte che incidono sul diritto di autodeterminazione della donna, rispetto a quelle che non garantiscono la tutela del suo diritto alla salute, rispetto infine a quelle che violano i presupposti per l’esercizio della sua scelta. Gli artt. 18 e 19 della legge n. 194 del 1978 sanzionano “chi cagiona l’interruzione volontaria di gravidanza” rispettivamente senza il consenso della donna, ovvero con il suo consenso, ma senza l’osservanza delle disposizioni previste dalla legge. In questo secondo caso, il legislatore ha stabilito sanzioni diverse, a seconda delle norme violate (una pena fino a tre anni se è violato l’art. 5 che prevede un insieme di attività demandate alla struttura socio sanitaria o al medico dirette ad informare compiutamente la donna ed a rimuovere le cause che la porterebbero all’interruzione della gravidanza, ed all’art. 8 che indica chi è autorizzato a praticarla; una pena da uno a quattro anni se sono violati gli artt. 6 e 7, norme che individuano i casi in cui l’interruzione di gravidanza può essere praticata; un aumento delle pene citate, fino alla metà, se la donna è minore di diciotto anni o interdetta o se non sono state osservate le previsioni degli artt. 12 o 13 che disciplinano come garantire la libertà della volontà espressa e la consapevolezza per le donne infra diciottenni o interdette).
[84] Note di udienza dell’avv. F. Gallo, in giurisprudenza penale web, <http://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2018/11/Note-udienza-del-23-ottobre-2018-Corte-Costituzionale-Avv.-F.-Gallo.pdf>; Note di udienza del prof. avv. V. Manes, in giurisprudenza penale web, <http://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2018/11/Corte-costituzionale-%E2%80%93-note-di-udienza-del-23-ottobre-2018-Prof.-Avv.-V.-Manes.pdf>.
[85] Comunicato del 24 ottobre 2018 dell’Ufficio Stampa della Corte costituzionale, “Caso Cappato, vuoti di tutela costituzionale. Un anno al Parlamento per colmarli”, in giurisprudenza penale web, <http://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2018/10/CC_CS_20181024184707.pdf>.
[86] Corte cost., Ord., (ud. 24 ottobre 2018) 16 novembre 2018, n. 207, in giurisprudenza penale web, <http://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2018/11/corte-cost-207-2018.pdf>.
[87] Comunicato del 25 settembre 2019 dell’Ufficio Stampa della Corte costituzionale, in giurisprudenza penale web, <http://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2019/09/comunicato-stampa-corte-cost-corretto.pdf>.
[88] Corte cost., Sent., (ud. 25 giugno 1996) 27 giugno 1996, n. 223, in Consulta online, <http://www.giurcost.org/decisioni/1996/0223s-96.htm>.
[89] Corte cost., Ord., (ud. 24 ottobre 2018) 16 novembre 2018, n. 207, punto 5 dei Considerato in diritto, cit.
[90] Corte cost., Ord., (ud. 24 ottobre 2018) 16 novembre 2018, n. 207, punto 6 dei Considerato in diritto, ivi.
[91] Corte cost., Ord., (ud. 24 ottobre 2018) 16 novembre 2018, n. 207, punto 8 dei Considerato in diritto, ivi.
[92] Corte cost., Ord., (ud. 24 ottobre 2018) 16 novembre 2018, n. 207, ibid.
[93] Cfr. Corte cost., Ord., (ud. 24 ottobre 2018) 16 novembre 2018, n. 207, ibid.; Corte cost., Sent., (ud. 23 luglio 2009) 30 luglio 2009, n. 253, in Consulta online, <http://www.giurcost.org/decisioni/2009/0253s-09.html>; Corte cost., Sent., (ud. 15 dicembre 2008) 23 dicembre 2008, n. 438, in Consulta online, <http://www.giurcost.org/decisioni/2008/0438s-08.html>.
[94] Corte cost., Ord., (ud. 24 ottobre 2018) 16 novembre 2018, n. 207, ibid.
[95] Cfr. Corte cost., Ord., (ud. 24 ottobre 2018) 16 novembre 2018, n. 207, punto 9 dei Considerato in diritto, ivi.
[96] Corte cost., Ord., (ud. 24 ottobre 2018) 16 novembre 2018, n. 207, punto 10 dei Considerato in diritto, ivi.
[97] Corte cost., Ord., (ud. 24 ottobre 2018) 16 novembre 2018, n. 207, punto 9 dei Considerato in diritto, ibidem.
[98] Corte cost. Sent., (ud. 18 febbraio 1975) 18 febbraio 1975, n. 27, in Consulta online, <http://www.giurcost.org/decisioni/1975/0027s-75.html>.
[99] “Una regolazione della materia (…) è suscettibile peraltro di investire plurimi profili, ciascuno dei quali, a sua volta, variamente declinabile sulla base di scelte discrezionali: come, ad esempio, le modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto, la disciplina del relativo “processo medicalizzato”, l’eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale, la possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura”, Corte cost., Ord., (ud. 24 ottobre 2018) 16 novembre 2018, n. 207, punto 10 dei Considerato in diritto, cit.
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Avv. Andrea Persichetti
Dopo aver conseguito a pieni voti la Laurea magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Camerino con tesi in Diritto Amministrativo ("Il principio di precauzione e la valutazione del rischio: il caso dei vaccini obbligatori"), ha svolto la pratica forense presso l'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Torino.
Svolge la professione di Avvocato occupandosi di diritto civile e di diritto del lavoro, con particolare riguardo alla materia previdenziale, alle questioni di infortunistica sul lavoro e controversie INAIL.
È abilitato a presentare istanze e ricorsi all'INPS ed è Intermediario abilitato a svolgere attività in materia di lavoro, previdenza ed assistenza sociale, ai sensi della Legge n. 12/1979.
Collabora con l’Ufficio del Massimario dell’Associazione dei Giovani Avvocati di Torino – AGAT ed è autore di articoli di interesse giuridico.
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