Whistleblowing e aziende private: tra tutele e lacune

Whistleblowing e aziende private: tra tutele e lacune

Un sentiero inesplorato si fa spazio nella già contorta trama del nostro ordinamento: il whistle – blowing. Istituto giuridico di matrice anglosassone, sperimentato dai sistemi di common law, anche in Italia è finalmente possibile soffiare il fischietto in presenza di irregolarità (diventare whistleblowers). In altri termini, il dipendente si fa arbitro della trasparenza e del buon andamento.

Per la prima volta con la c.d. “legge Severino” (art. 1, comma 51 della legge 6 novembre 2012, n. 190 – Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), e di recente, tramite l’ulteriore intervento posto in essere dalla legge 30 novembre 2017, n. 179, il legislatore regolamenta – non senza lacune – un luogo di lavoro al riparo da ingiustizie, corruzione e soprusi.

Chi soffia il fischietto compie attività di vigilanza sulla trasparenza ed intercede presso gli organi preposti ai fini della risoluzione dell’ingiustizia. E’ un denunciante, un ispettore interno. E’ chi, nell’interesse dell’integrità della P.A., si fa spontaneamente carico di  segnalare al responsabile della prevenzione della corruzione dell’ente (di norma un dirigente amministrativo; negli enti locali il segretario), o all’Autorità nazionale anticorruzione, ovvero, all’autorità giudiziaria ordinaria (o contabile), le condotte illecite o di abuso di cui sia venuto a conoscenza in ragione del suo stesso rapporto di lavoro.

Il legislatore ha mostrato di aderire alla causa avendo riguardo a realtà sia pubbliche che private (articolo 2). Proprio con riguardo alle realtà aziendali di natura privatistica, se nessuna modifica è prevista circa gli enti già dotati di specifiche procedure per le segnalazioni, non altrettanto è a dirsi relativamente a quelle procedure interne che, tra gli illeciti segnalabili, non includano anche possibili violazioni che abbiano ad oggetto reati previsti dal modello organizzativo, di talché, in quest’ultima evenienza, si dovrà procedere con dei rimedi concreti.

La legge, inoltre, ancorché non ne specifichi la natura, individua anche la necessità di predisporre un canale informatico che possa assurgere a strumento attraverso cui canalizzare le denunce delle angherie. Un modello in tal senso è fornito da Consip (centrale acquisti della pubblica amministrazione italiana), che ha già disciplinato nel proprio Piano Triennale per la prevenzione della corruzione e nel Modello di Organizzazione Gestione e Controllo (D. Lgs. 231/01), un sistema di segnalazione al Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza (RPCT) o, alternativamente, all’Organismo di Vigilanza per i dipendenti (ODV), esteso nondimeno a soggetti esterni alla Società.

La stessa Consip ha anche provveduto all’acquisito di una piattaforma informatica integrata web-based, che, proprio nel solco di quanto previsto dalla Legge 179/2017, permette di gestire le comunicazioni/segnalazioni pervenute con garanzia di anonimato per i soggetti segnalanti garantendo al tempo stesso la massima sicurezza informatica. Tale piattaforma consente di interloquire con il soggetto segnalante – sia interno che esterno alla Società – monitorando lo stato di avanzamento dell’istruttoria, se avviata, secondo la strada indicata dalle Linee guida ANAC in materia.

Un serio problema è rappresentato dal dubbio circa l’effettiva introduzione del sistema delle tutele di cui al neo introdotto whistleblowing con riferimento al citato settore privatistico. Problema generatosi dalla c.d. “questione sul Modello 231”.

Il modello 231 è un documento di organizzazione e gestione, non obbligatorio, ma che consente alle imprese di contenere il rischio di essere chiamate a rispondere per uno dei reati sanzionati dal decreto 231 del 2001. Le imprese che lo adottano possono essere dispensate dai reati imputati ai singoli dipendenti dalla citata norma e, mediante la sua compilazione, la società che lo sottoscrive, può chiedere legittimamente l’esclusione o la limitazione della propria responsabilità derivante dal catalogo (tra cui: reati contro salute e sicurezza sul lavoro; contro la Pubblica Amministrazione; reati societari; delitti contro la personalità individuale; delitti con finalità di terrorismo o eversione dell’ordine democratico; reati transnazionali ed illeciti ambientali; criminalità informatica e manipolazioni del mercato; non da ultimo, abuso di informazioni privilegiate). Nessuna azienda viene sottratta da tale opportunità, sicché non ne sono escluse le piccole e medie imprese.

Con l’intervento riformatore del novembre scorso (L.179/2017), la citata legge, rivolgendosi alle società che hanno adottato i modelli di organizzazione 231 (non avendone imposto l’adozione per quante non avessero provveduto), ha previsto che essi dovranno necessariamente contemplare uno o più canali che consentano a soggetti che “rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale” (c.d. apicali), o che esercitano la gestione ed il controllo dello stesso (anche di fatto), e nondimeno ai sottoposti alla direzione e vigilanza di questi ultimi; di presentare – a tutela dell’integrità dell’ente – segnalazioni circostanziate di condotte illecite” che possano definirsi rilevanti ai sensi della normativa 231. Segnalazioni che dovranno trovare fondamento ineccepibilmente su “elementi di fatto precisi e concordanti, o “di violazioni del modello di organizzazione e gestione dell’ente” di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni svolte.

Quid iuris per quelle realtà aziendali che tale modello non hanno adottato? Il mancato intervento circa la sua obbligatorietà ha inevitabilmente provocato il sorgere di contesti nei quali, in difetto di modello 231 (facoltativo), i dipendenti non trovano le garanzie del neo introdotto whistleblowing relegando l’effettiva cogenza della suindicata legge a ragioni di mera opportunità.

Un ulteriore e non indifferente limite si è registrato nell’assenza della previsione di un fondo di ristoro per le vittime delle ingiustizie segnalate. Vittime che, quantunque trovino tutela e riparo da contegni ritorsivi del proprio datore di lavoro “denunciato” – stante l’accesso in forma anonima alla descritta procedura di segnalazione (tutela non così limpida a giudicare da quanto emerso nella prima pronuncia della Suprema Corte sul tema – sent. n. 9074 , febbraio 2018)[1] – non potranno attingere ad alcun “fondo di sostegno per i denuncianti”.

La legge, infatti, ha contemplato soltanto un rimborso successivo limitato alle sole spese legali sopportate. La previsione di un apposito fondo, invece, avrebbe tutelato colui che segnala anche dalle sostenute spese mediche che talvolta, anzi, spesso, si rendono necessarie a seguito delle subite pressioni e loro conseguenze sulla psiche.


[1] Contenzioso durante il quale è emersa una querelle tecnica dovuta ad un contrasto tra le previsioni di cui al codice di procedura penale disciplinanti il divieto di denuncia anonima e quelle, postesi all’attenzione dei giudicanti, di cui alla legge 179/2017, aventi ad oggetto l’esercizio del diritto di whistle-blower, il cui anonimato garantito retrocederebbe dinanzi ad esigenze difensive incomprimibili se finalizzate alla resistenza in un giudizio penale.


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Gian Marco Giacalone

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