Whistleblowing: la tutela della riservatezza dell’identità del segnalante nelle istanze di accesso difensivo
Con la sentenza n. 10400/2022 il Tar Lazio, sezione II, si è occupato della tematica relativa all’istituto del whistleblowing ex art. 54 bis del d.lgs. n. 165 del 2001, ponendo particolare attenzione ai rapporti tra la riservatezza del segnalante, garantita dal richiamato istituto, e le istanze di accesso difensivo ex art. 24 comma 7 della legge n. 241 del 7 agosto 1990[1].
Come è noto, il richiamato istituto del whistleblowing, tutela il dipendente pubblico che decide di effettuare una segnalazione in merito a condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro. La tutela, in particolare, consiste nel divieto di sanzionare, demansionare, licenziare, trasferire o sottoporre ad altra misura organizzativa negativa il dipendente in virtù della propria segnalazione[2].
Al fine di garantire l’effettività di tale tutela, l’istituto in questione, oltre a prevedere un espresso divieto per i richiamati comportamenti ritorsivi, riconosce al segnalante il diritto alla riservatezza della propria identità (art. 54 bis comma 3 del d.lgs n. 165 del 2001).
Tanto precisato, la vicenda processuale traeva origine da un ricorso presentato da un dirigente di primo livello nei confronti della Società con la quale ha svolto diversi incarichi, prima di essere licenziato.
In particolare, il ricorrente, di fronte al giudice amministrativo, lamentava la mancata ostensione, da parte della società, dell’atto di segnalazione di illecito ex art. 54 bis sulla quale si basava la contestazione disciplinare della società e il successivo atto di licenziamento dello stesso ricorrente.
Secondo il ricorrente, tale segnalazione sarebbe stata necessaria per tutelare i propri interessi all’interno del processo innanzi al Tribunale del Lavoro, avente ad oggetto l’impugnazione del predetto licenziamento.
In proposito, la Società negava l’accesso documentale con la seguente motivazione: «gli atti (…) sono da ricondursi alla fattispecie di cui al comma 4 del citato art. 54 bis, come modificato dall’art. 1 della legge n. 179 del 2017, che prevede espressamente come: “…la segnalazione è sottratta all’accesso previsto dagli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241 e successive modificazioni…”, in ciò palesandosi il prevalente e speciale ambito di tutela previsto dal Legislatore».
Occorre precisare sul punto che tale società, seppur non rientrante nell’alveo delle pubbliche amministrazioni, è tenuta all’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 54 bis del D.lgs n. 165/2001 per effetto dell’estensione della nozione di dipendente pubblico, operata dall’art. 54 bis comma 2, anche ai dipendenti di un “ente di diritto privato sottoposto a controllo pubblico ai sensi dell’art. 2359 del codice civile”.
Avverso il provvedimento di diniego, veniva dunque presentato un ricorso di fronte al Tar Lazio, con il quale il ricorrente lamentava la violazione e falsa applicazione dell’art. 54 bis del d.lgs n. 165 del 2001. In particolare, come sopra precisato, il ricorrente sosteneva che il provvedimento di diniego fosse infondato, in quanto l’atto di segnalazione, oggetto di istanza di accesso documentale, sarebbe stato indispensabile per garantire la sua difesa in giudizio.
Il ricorrente rappresentava, altresì, che la segnalazione sarebbe stata erroneamente indirizzata dal segnalante al Consiglio di amministrazione della società e non al Responsabile della prevenzione della Corruzione e della Trasparenza (RPCT). Pertanto, tale errore avrebbe comportato un vizio di forma della stessa segnalazione che, per l’effetto, non avrebbe dovuto essere considerata rientrante nell’ambito di operatività dell’art. 54 bis.
Il Tar Lazio, seconda sezione, con la richiamata sentenza n. 10400 del 2022, respingeva il ricorso per infondatezza delle censure lamentate.
Nell’impianto motivazionale della sentenza, in via preliminare, viene operata una importante ricognizione dell’istituto del whistleblowing e dei suoi presupposti operativi.
In particolare, il giudice di prime cure precisava che lo scopo dell’istituto, oltre ad essere quello di offrire tutela, sotto forma di garanzia di riservatezza dell’identità, al segnalante di condotte e fatti illeciti, è anche quello di evitare che il dipendente, venuto a conoscenza di condotte illecite, ometta di segnalarle per il timore di subire conseguenze pregiudizievoli[3].
Sul punto, riprendendo quanto già segnalato da precedente giurisprudenza[4], nella sentenza viene descritta un’importante distinzione tra tre differenti ipotesi operative, relative al rapporto tra il contenuto della contestazione disciplinare e la riservatezza dell’identità del segnalante:
a) se la contestazione disciplinare è basata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto a quelli oggetto della segnalazione, l’identità del segnalante non può essere rilevata;
b) se la contestazione disciplinare è basata, in tutto o in parte, sui contenuti della segnalazione ma la conoscenza dell’identità del segnalante non è indispensabile per la difesa dell’incolpato, l’identità del segnalante non può essere rivelata;
c) se la contestazione è basata, in tutto o in parte, sui contenuti della segnalazione e la conoscenza dell’identità del segnalante è indispensabile per la difesa dell’incolpato, la segnalazione diviene utilizzabile, nel procedimento disciplinare, solo se il segnalante dà il consenso alla rivelazione della sua identità.
Tanto precisato, il giudice di prime cure ritiene, in primo luogo, che il caso di specie rientri nell’ipotesi richiamata nel precedente punto b), ovvero che la contestazione disciplinare sia basata sul contenuto della segnalazione ma che la conoscenza dell’identità del segnalante non sia, alcun modo, necessaria per la difesa dell’incolpato.
Nello specifico, viene precisato che l’identità del segnalante non sia necessaria al ricorrente per difendersi in giudizio per due ordini di motivi:
“i fatti disciplinarmente rilevanti sono stati oggetto di una compiuta ed analitica descrizione, nell’ambito della quale non v’è alcuna traccia di elementi o passaggi logici rispetto ai quali può rivelarsi indispensabile conoscere l’identità del segnalante (…);
“la natura dei fatti oggetto di contestazione (consistenti in alcuni atti di mala gestio asseritamente commessi nella conduzione delle procedure di evidenza pubblica della società, nonché nell’omessa adozione di alcune cautele atte ad evitare conflitti di interessi ed incompatibilità personali) rende di per sé irrilevante – ai fini difensivi – la conoscenza dell’identità del segnalante, posto che il baricentro della difesa è chiaramente focalizzato sulla correttezza o meno dell’attività del ricorrente e non sull’identità di chi ha segnalato i presunti illeciti”.
Viene precisato, altresì, che nelle istanze di accesso difensivo, ex art. 24 comma 7 della legge n. 241 del 1990, non è sufficiente che l’istante faccia riferimento ad esigenze probatorie e difensive generiche e non meglio precisate. Di converso, è necessario che vi sia una rigorosa e motivata rappresentazione sul nesso di strumentalità tra la documentazione richiesta e la situazione giuridica soggettiva che l’istante intende curare o tutelare.
In secondo luogo, il giudice di prime cure ritiene infondata anche la censura relativa al presunto vizio di forma della segnalazione, che vedeva come destinatario il Consiglio di amministrazione della società e non il RPCT.
Sul punto, il Tar Lazio richiama le linee guida ANAC, adottate con delibera n. 469 del 9 giugno 2021, in materia di tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità, nella parte in cui viene precisato che le pubbliche amministrazioni vengono chiamate a disciplinare, nei piani triennali di prevenzione della corruzione e della trasparenza, le ipotesi in cui il RPCT si trovi in posizione di conflitto di interessi rispetto alla segnalazione, «indicando i soggetti idonei a sostituirlo nella gestione e analisi della segnalazione».
In merito a tale questione, la società, in ossequio alle Linee guida ANAC, all’interno della procedura aziendale di “gestione delle segnalazioni di reati o irregolarità al Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza e tutela del dipendente segnalante, ai sensi dell’art. 54 bis del D.lgs. n. 165/2001” ha inserito una precisa prescrizione secondo la quale le segnalazioni relative al RPCT devono essere inviate al Consiglio di amministrazione della Società, all’ANAC o all’Autorità giudiziaria.
Pertanto, considerato che la segnalazione oggetto di contestazione era relativa non solamente al ricorrente, ma anche al Responsabile della Prevenzione della Corruzione e della trasparenza, secondo il Giudice di prime cure il modus operandi del segnalante «appare perfettamente conferente con l’impianto normativo dell’art. 54 bis del d.lgs n. 165 del 2001, nonché con le Linee guida ANAC e con la procedura aziendale adottata in esecuzione di queste ultime».
In conclusione, alla luce delle richiamate considerazioni, il Tar Lazio, con la richiamata sentenza, respinge il ricorso, da un lato, perché la segnalazione non avrebbe avuto alcun vizio di forma rispetto a quanto previsto dall’art. 54 bis del d.lgs. n.165 del 2001 e, dall’altro lato, perché la mancata ostensione della segnalazione da parte della società era giustificata dalla necessità di tutelare l’identità del segnalante.
[1] Art. 24 comma 7 legge n. 241 del 1990: “Deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Nel caso di documenti contenenti dati sensibili e giudiziari, l’accesso è consentito nei limiti in cui sia strettamente indispensabile e nei termini previsti dall’articolo 60 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, in caso di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”.
[2] L’adozione di eventuali misure ritorsive nei confronti del segnalante può essere oggetto di comunicazione all’ANAC che ha l’onere di informare i relativi organi per i provvedimenti di competenza.
[3] Nella sentenza si legge, altresì, che: “la ratio di fondo, in linea con la legge n. 190/2012, è quella di valorizzare l’etica e l’integrità nella pubblica amministrazione per dare prestigio, autorevolezza e credibilità alla stessa, rafforzando i principi di legalità e buon andamento dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost.“.
[4] CGA, Sez. Giur. 17 maggio 2021, n. 436.
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Samuele Zagagnoni
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