Il diritto a morire nel panorama giuridico italiano: dal caso Pretty alla legge della Regione Toscana sull’assistenza al suicidio

Il diritto a morire nel panorama giuridico italiano: dal caso Pretty alla legge della Regione Toscana sull’assistenza al suicidio

La complessa configurazione di un “diritto a morire” nel panorama giuridico italiano. Dalle soluzioni del caso Pretty contro Regno Unito del 2002 sino alla legge della Regione Toscana 14 marzo 2025, n. 16 in materia di assistenza al suicidio.

di Davide Cerrato

 

Abstract .Il contributo in questione si sostanzia in un’analisi della complessa tematica del “fine vita” e della sua evoluzione in una prospettiva diacronica, partendo dalla sentenza della Corte EDU del 2002 relativa al caso Pretty contro Regno Unito – vero e proprio leading case anche nell’ordinamento giuridico interno per quanto concerne l’intendimento del diritto fondamentale ed inviolabile alla vita – per passare attraverso le pronunce dei giudici di merito e di legittimità sui casi Welby ed Englaro e giungere poi ad una disamina delle statuizioni del Giudice delle leggi con riferimento alla legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., fattispecie incriminatrice venuta in rilievo nel caso Dj Fabo, nel caso Salas e nel caso Elena e Romano, rispetto al quale si attende il deposito della sentenza della Consulta. Il contributo dà infine conto della recentissima legge della Regione Toscana n. 16/2025 recante “Modalità organizzative per l’attuazione delle sentenze della Corte costituzionale 242/2019 e 135/2024”, per soffermarsi poi sulla possibilità di rinvenire un che di fondamento di un “diritto a morire” nell’inviolabilità della dignità umana, la quale pure rappresenta diritto fondamentale rientrante nell’alveo dei diritti inviolabili dell’uomo ex art. 2 Cost. e rinviene fondamenti positivi tanto nella legislazione sovranazionale quanto internazionale.

The contribution deals with the complex issue of the “end of life” and its evolution in a diachronic perspective, starting from the 2002 ECHR ruling on the Pretty vs. United Kingdom case – true leading case also in the internal legal system for the understanding of the fundamental and inviolable right to life – to pass through the merit and legitimacy jurisprudence on the Welby and Englaro cases and the rulings of the Supreme Court about the constitutional legitimacy of art. 580 c.p. Finally, the contribution gives an account of the very recent Tuscany Regional law n. 16/2025 containing “Organizational methods for the implementation of the Constitutional Court rulings 242/2019 and 135/2024”, to then focus on the possibility of finding some foundation for a “right to die” in the inviolability of human dignity, which also represents a fundamental right falling within the scope of inviolable human rights pursuant to art. 2 of the Italian Constitution and recognized by both supranational and international legislation.

Sommario: 1. La difficoltà di ricavare un “diritto inviolabile alla morte”: il caso Pretty contro Regno Unito quale leading case significativo per il sistema ordinamentale complessivamente inteso – 2. L’ordinamento giuridico italiano in materia di “diritto inviolabile alla morte” e i pronunciamenti giurisprudenziali sui casi Welby ed Englaro. La legge n. 219/2017 quale conseguenza normativa – 3. Gli sviluppi del caso Dj Fabo e del caso Salas alla luce delle statuizioni della Consulta. L’attesa del deposito della recentissima pronuncia del Giudice delle leggi sull’applicabilità dell’art. 580 c.p. al caso Elena e Romano – 4. Breve excursus sulla legge della Regione Toscana n. 16/2025 recante “Modalità organizzative per l’attuazione delle sentenze della Corte costituzionale 242/2019 e 135/2024” – 5. Riflessioni conclusive: l’inviolabilità della dignità umana quale possibile fondamento definitivo di un “diritto a morire”

 

1. La difficoltà di ricavare un “diritto inviolabile alla morte”: il caso Pretty contro Regno Unito quale leading case significativo per il sistema ordinamentale complessivamente inteso

Nel contesto sociale è sempre più avvertita l’esigenza di consentire a chi versi in uno stato patologico irreversibile, produttivo di significative sofferenze psicofisiche, di “lasciarsi morire”.
Ciò in considerazione del fatto che il dolore derivante da malattie di tipo degenerativo – come la distrofia fascio-scapolo-omerale che colpì Piergiorgio Welby all’età di diciotto anni, la tetraplegia e la cecità che colpirono invece il quarantenne Fabiano Antoniani a seguito di un incidente stradale avvenuto nel 2014, o ancora il gravissimo trauma cranico-encefalico che riportò Eluana Englaro dopo un incidente stradale di cui fu vittima nel 1992[1] e che la costrinse ad uno stato vegetativo per ben diciassette anni – impedisca alla vita di estrinsecarsi in forme dignitose.

Il tema vede da sempre contrapposti il paradigma cattolico, secondo il quale la rilevanza della persona risiede nella sua sostanza, dovendosene sempre e comunque salvaguardare l’esistenza, e quello laico, improntato ad un approccio funzionalistico di tipo radicale sulla base del quale è alle funzioni che la persona medesima può svolgere che è opportuno fare riferimento, non potendosi concepire come essere umano chi non sia capace di svolgere le funzioni vitali che gli si addicano[2].
Dal punto di vista più prettamente normativo l’art. 2 Cost. dispone il riconoscimento e la garanzia, da parte della Repubblica italiana, dei diritti inviolabili dell’uomo, che ad oggi costituiscono “numerus apertus[3] e che stando a quanto sostenuto dalla Corte costituzionale già sul finire degli Anni Ottanta del XX secolo ricomprendono anche il diritto alla vita.

Quest’ultimo diritto, del resto, è “specificamente protetto – in sede penale – dall’art. 27, quarto comma [Cost]”[4], disposizione che sancisce quel fondamentale divieto di pena di morte che rinviene la sua ratio giustificatrice proprio nell’esigenza di tutelare la vita in ogni sua forma ed impedirne una prematura dissoluzione.

Per quanto significativo sia stato lo sforzo di ampliamento del catalogo dei diritti inviolabili, l’intervento del Giudice delle leggi non si è peraltro spinto sino al riconoscimento di un effettivo “diritto inviolabile alla morte” in favore della generalità dei consociati.

L’impossibilità di ricavare un diritto siffatto dal sistema ordinamentale complessivamente inteso (e comprensivo, pertanto, anche della normativa sovranazionale ed internazionale) è del resto posizione condivisa anche dalla Corte EDU, la quale nel 2002 è stata chiamata a pronunciarsi in tema di aiuto al suicidio relativamente a quello che è diventato vero e proprio leading case in materia: il caso Pretty contro Regno Unito[5].

Diane Pretty, affetta da sclerosi laterale amiotrofica, desiderando fortemente porre fine alle proprie sofferenze voleva che il marito agevolasse il suo suicidio mediante la somministrazione di una sostanza mortale. Siccome però per il Suicide Act inglese del 1961 è delittuosa la condotta di chi aiuta un soggetto a morire, la signora Pretty aveva richiesto al Director of Public Prosecutions di dichiarare la non apertura di un procedimento penale che esponesse a conseguenze di tipo sanzionatorio il marito.

L’organo di vertice della procura inglese non accolse affatto questo tipo di richiesta, volendo appunto attenersi rigorosamente al Suicide Act, ciò che condusse Pretty ad azionare la tutela rimediale in sede giurisdizionale.

Svoltasi per lei in senso negativo la vicenda giudiziaria interna ed esaurite le vie di ricorso nell’ordinamento giuridico inglese, fu possibile proporre ricorso alla Corte EDU al fine di censurare la violazione, mediante il rifiuto espresso dall’organo di vertice della procura interna, degli artt. 2 (“diritto alla vita”), 3 (“proibizione della tortura”), 8 (“diritto al rispetto della vita privata e familiare”), 9 (“libertà di pensiero, coscienza e religione”) e 14 (“divieto di discriminazione”) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Relativamente all’art. 2 CEDU, i giudici di Strasburgo non ritennero di poter rinvenire nella disposizione convenzionale anche l’implicito riconoscimento di un diritto a morire, sancendo essa la significatività della vita di ogni persona e non ricomprendendo affatto tra le ipotesi in cui la morte non è cagionata in violazione della disposizione medesima anche quella in cui un soggetto intenda ricorrere all’aiuto di terzi per porre fine alla propria esistenza in presenza di gravi sofferenze legate ad una altrettanto grave patologia. Ne conseguiva l’impossibilità di prevedere l’insorgere di un obbligo negativo in capo alle Alte Parti contraenti sostanziantesi nel diritto di operare una scelta tra la prosecuzione dell’esistenza e l’aiuto al suicidio.

La Corte EDU non ritenne neppure di poter qualificare le condizioni di vita non dignitose in cui la signora Pretty riteneva di essersi ritrovata nella fase terminale della SLA come trattamenti inumani e degradanti vietati ex art. 3 CEDU, non potendo addebitarsi allo Stato inglese una responsabilità per le sofferenze legate allo stato patologico della ricorrente.

Interpretando inoltre l’art. 3 della Convenzione europea nel senso della configurazione dell’obbligo positivo di evitare i maltrattamenti si sarebbe pervenuti ad una soluzione per nulla coerente con la disposizione immediatamente precedente, la quale offre tutela al solo diritto alla vita.

Per quanto poi i giudici di Strasburgo avessero riconosciuto l’interferenza del divieto previsto dal Suicide Act inglese con il diritto al rispetto della vita privata e familiare ex art. 8 CEDU, comprensivo anche del diritto alla scelta delle cure a cui sottoporsi e del come porre fine alla propria esistenza, essi si pronunciarono comunque nel senso della legittimità dell’interferenza medesima nel caso di specie. Ciò in quanto essa era posta in essere nel rispetto del margine di apprezzamento riconosciuto alle Alte Parti contraenti dall’art. 8, che disciplina un diritto relativo assoggettabile a misure limitative allorquando queste ultime, in una società democratica, siano necessarie alla tutela della salute o dei diritti e delle libertà altrui.

In altri termini, spetta a ciascuno Stato firmatario della CEDU stabilire se il suicidio assistito possa assumere una tendenza degenerativa idonea a determinare un vulnus nei confronti dei pazienti più sensibili, e a detta della Corte EDU il comitato ristretto della Camera dei Lords ha correttamente individuato le ragioni che determinerebbero abusi dell’assistenza alla morte, affermando che le persone sole, malate o sconfortate potrebbero infatti sentirsi obbligate a morire prematuramente in ragione di pressioni reali o immaginarie. Sarebbe opportuno quindi non che la società incoraggiasse questi soggetti a morire, ma che fornisse loro supporto in vita.

Rispetto all’art. 9 CEDU i giudici di Strasburgo statuirono che non ogni opinione o convinzione possa ritenersi tutelata dalla disposizione convenzionale, e che la ricorrente in particolar modo avrebbe semplicemente riformulato la doglianza già sostenuta sotto il profilo dell’art. 8 CEDU.

Infine, la Corte EDU ritenne che non vi fosse alcuna discriminazione censurabile ex art. 14 CEDU, vista la giustificazione obiettiva e ragionevole all’assenza di distinzione giuridica tra le persone che sono fisicamente capaci di suicidarsi e quelle che non lo sono. Il confine tra le categorie è, in linea generale, assai labile.

Per quanto in sostanza la Corte europea dei diritti dell’uomo avesse fatto rientrare nell’alveo applicativo dell’art. 8 CEDU il diritto ad effettuare una scelta concernente i trattamenti sanitari a cui sottoporsi, essa non aveva affatto statuito nel senso della possibilità di ricavare implicitamente l’esistenza di un diritto a morire dall’art. 2 CEDU.

Dovendosi in ogni caso, in forza dell’art. 117, primo comma, Cost., dare attuazione agli obblighi derivanti dall’ordinamento convenzionale nel senso dell’applicazione delle disposizioni CEDU conformemente alle opzioni ermeneutiche fornite dalla Corte di Strasburgo, la pronuncia non poteva (e non può) che essere emblematica per il legislatore nazionale italiano e per gli operatori giuridici tutti.

2. L’ordinamento giuridico italiano in materia di “diritto inviolabile alla morte” e i pronunciamenti giurisprudenziali sui casi Welby ed Englaro. La legge n. 219/2017 quale conseguenza normativa

Come anticipato poc’anzi, per quanto la Consulta abbia considerevolmente ampiato il novero dei diritti inviolabili dell’uomo che lo Stato italiano deve riconoscere e garantire sia al singolo, sia alle formazioni sociali ove la sua personalità si estrinseca, non è stato ricavato dal diritto alla vita anche un contrapposto diritto a morire.

Il diritto penale sostanziale prevede sia l’incriminazione dell’omicidio del consenziente con la reclusione da sei a quindici anni (art. 579 c.p.) che quella dell’istigazione[6] o aiuto al suicidio[7] (art. 580 c.p.) con la reclusione da cinque a dodici anni se il suicidio avviene.

L’art. 579 c.p. inoltre prevede l’applicazione delle disposizioni relative all’omicidio in una serie di ipotesi, ossia laddove il fatto sia commesso contro una persona minore degli anni diciotto, oppure inferma di mente o che si trova in condizioni di deficienza psichica per altra infermità o per abuso di alcolici o sostanze stupefacenti, oppure nei confronti di un soggetto il cui consenso sia stato estorto dall’agente con violenza, minaccia o suggestione o comunque carpito con inganno.

Non trovano invece mai applicazione le aggravanti comuni ex art. 61 c.p., e ciò per una vera e propria valutazione di opportunità compiuta a monte dal legislatore: il consenso proveniente dalla persona offesa attenua la condotta omicidiaria, e l’attenuazione non può essere oggetto di bilanciamento con elementi aggravanti[8].

L’art. 580 c.p. invece dispone che si applichi la diversa pena della reclusione da uno a cinque anni (pena ridotta) laddove a seguito dell’istigazione o dell’aiuto da parte di un soggetto terzo non si verifichi il fatto del suicidio, ma tentativo di delitto da cui derivi una lesione personale grave o gravissima ex art. 583 c.p.

La pena è invece aumentata laddove la persona offesa sia minore degli anni diciotto oppure inferma di mente o in condizione di deficienza psichica per altra infermità o per abuso di alcolici o sostanze stupefacenti, applicandosi invece le disposizioni sull’omicidio laddove la vittima sia minore degli anni quattordici o in ogni caso incapace di intendere e volere.

Il legislatore penale italiano, in ossequio al principio di indisponibilità della vita umana, ha adottato una soluzione che si fonda su scelte di politica criminale sostanzialmente analoghe a quelle perseguite negli altri Paesi occidentali: non sanzionare penalmente il suicidio compiuto individualmente, prevedendo invece l’irrogazione della sanzione in sede penale nelle ipotesi in cui la condotta omicidiaria venga posta in essere da un terzo a danno della persona offesa (omicidio del consenziente ex art. 579 c.p.) oppure venga materialmente eseguita dalla stessa persona offesa in ragione di istigazione, determinazione o aiuto provenienti da un soggetto ulteriore (istigazione o aiuto al suicidio ex art. 580 c.p.)[9].

In sostanza, l’ordinamento giuridico italiano intende soprattutto fornire tutela alle persone più sensibili e vulnerabili, portate in ragione del proprio status psicofisico a subire nella propria sfera personale ingerenze provenienti da soggetti terzi.

La tutela penale apprestata dagli artt. 579 e 580 c.p. è dunque finalizzata – in ossequio al principio di eguaglianza sostanziale ex art. 3, secondo comma, Cost. – ad evitare che la vita di persone più deboli anche da un punto di vista psichico possa dissolversi a seguito dell’intervento di un terzo rispetto all’opzione del suicidio, che magari in determinate ipotesi potrebbe trovare concreta attuazione soltanto mediante l’intervento di soggetti ulteriori.

La vita viene pertanto salvaguardata da abusi che deriverebbero da facilitazioni nella concreta realizzazione del proposito suicida, in ossequio all’idea per cui non possa ricavarsi dal diritto alla vita l’esistenza di un altrettanto “diritto inviolabile a morire”.

Questo assetto ordinamentale peraltro è destinato a rivelarsi parzialmente incompatibile con l’attuale contesto sociale, che si è evoluto proprio nel senso dell’emersione di nuove esigenze pure anticipatamente individuate in apertura del contributo: la vita potrebbe proseguire in maniera poco dignitosa in presenza di patologie che comunque condurrebbero, per via della loro irreversibilità, alla morte, specie laddove si ricorra a trattamenti medici o a strumentazione artificiale finalizzati a prolungare inutilmente la vita.

Si sono rivelati emblematici, in prima battuta, i casi che hanno visto protagonisti Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro, avendo essi suscitato un notevole clamore mediatico in materia di “fine vita” nonché condotto alla predisposizione della legge n. 219/2017 disciplinante il consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento (DAT)[10].

Relativamente al primo caso, la distrofia fascio-scapolo-omerale che fu diagnosticata a Piergiorgio Welby lasciava intatte le funzioni intellettive; tant’è che lo stesso Welby manifestò espressamente ed inequivocabilmente la volontà di porre fine alla propria vita anche in una lettera indirizzata all’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e all’interno del celebre libro “Lasciatemi morire”.

In un primo momento, dopo che il dottor Casale ebbe manifestato il suo rifiuto alla richiesta di staccare il ventilatore artificiale, Welby optò per un ricorso ex art. 700 c.p.c. volto all’ottenimento di un provvedimento che in via d’urgenza obbligasse il medico ad ottemperare alla richiesta.

Il Tribunale ordinario di Roma in sede civile, tuttavia, pur ritenendo che dalla Carta costituzionale si potesse ricavare il diritto ad interrompere la ventilazione artificiale, rigettò il ricorso in ragione del fatto che quella stessa situazione giuridica soggettiva non avesse ricevuto attuazione a livello di legislazione ordinaria[11], non potendosi così considerare perfetta.

Essendosi successivamente Welby rivolto al dottor Riccio, il quale manifestò un certo favore per l’interruzione del trattamento artificiale, fu aperto un procedimento penale a carico del medico per omicidio del consenziente ex art. 579 c.p.

Il P.M. richiese l’archiviazione, mentre il G.I.P. fu di contrario avviso ed ordinò la formulazione dell’imputazione.

Significative le statuizioni del G.U.P. del Tribunale ordinario di Roma contenute nella sentenza di non luogo a procedere (trattasi della n. 2049/2007): la condotta dell’anestetista Riccio, pur risultando caratterizzata da tipicità ex art. 579 c.p., difettava di antigiuridicità in quanto posta in essere nell’adempimento di un dovere ex art. 51 c.p. e così scriminata.

Stando alla previsione di cui all’art. 32, secondo comma, Cost., “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Dalla mancanza di un obbligo in questo senso si può ricavare a contrario l’esistenza di un vero e proprio diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari da parte del paziente, avente ad oggetto anche gli stessi trattamenti cd. salvavita, sia nell’ipotesi di nuova terapia che di terapia in corso di svolgimento.

Si è in presenza di un diritto inviolabile dell’uomo ex art. 2 Cost. strettamente connesso all’inviolabilità della libertà personale sancita dall’art. 13 Cost., la quale si sostanzia pure nella libertà di autodeterminazione.

Punto focale della pronuncia del Tribunale ordinario di Roma è che non è richiesta alcuna norma attuativa del diritto sancito dall’art. 32, secondo comma, Cost., in quanto la situazione giuridica soggettiva in questione nasce già perfetta e da essa indubbiamente deriva tanto un obbligo di astensione quanto di intervento (in caso di interruzione di un trattamento terapeutico) di un terzo qualificato in ragione dell’attività professionale svolta e che disponga di competenze di tipo medico[12].

Per quanto attiene invece al caso Englaro, Eluana fu costretta per ben diciassette anni a vivere in stato vegetativo a causa di un incidente stradale verificatosi nel 1992 determinante un gravissimo trauma cranico-encefalico. Il padre Giuseppe Englaro, nel rispetto degli orientamenti di vita della figlia e in qualità di suo tutore, richiese in sede giurisdizionale l’emanazione di un ordine di interruzione dell’alimentazione e della respirazione forzate.

Il ricorso fu dichiarato inammissibile dal Tribunale di Lecco nel 2006 in ragione del carattere personalissimo dei diritti fatti valere, ciò che doveva determinare la necessaria prevalenza del diritto alla vita sul rifiuto dei trattamenti sanitari.

La Corte d’Appello di Milano dichiarò invece ammissibile il ricorso, rigettandolo però nel merito per via dell’insufficienza dei dati che consentissero di ricostruire una volontà di Eluana Englaro che tenesse conto dei suoi orientamenti di vita nonché per l’impossibilità di configurare, partendo dall’inviolabilità del diritto alla vita ex art. 2 Cost., un opposto diritto inviolabile a morire.

Fu in sostanza riconfermata la prevalenza della tutela della vita sulla libertà di autodeterminarsi.

Decisiva la statuizione della Suprema Corte di Cassazione: gli Ermellini sostennero, cassando la pronuncia dei giudici d’appello, che a legittimare e a fondare in ogni caso il rifiuto dei trattamenti sanitari fosse il consenso informato. “Senza il consenso informato l’intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente; la pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi”[13].

I giudici di legittimità facevano così riferimento al cd. best interest del paziente, sostenendo che il principio del consenso informato fosse rinvenibile non soltanto a livello costituzionale negli artt. 2, 13 e 32, ma pure a livello internazionale nella Convenzione del Consiglio d’Europa sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina (cd. Convenzione di Oviedo) e a livello sovranazionale nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (cd. Carta di Nizza).

Trattasi poi di principio che rinviene un fondamento normativo pure nella legge n. 833/1978 istitutiva del Servizio sanitario nazionale, dovendo la tutela della salute fisiopsichica essere rispettosa tanto della dignità quanto della libertà della persona umana (art. 1) ed essendo trattamenti e accertamenti sanitari normalmente caratterizzati dalla volontarietà (art. 33).

Il consenso informato “afferisce alla libertà morale del soggetto ed alla sua autodeterminazione, nonché alla sua libertà fisica intesa come diritto al rispetto della propria integrità corporea, le quali sono tutte profili della libertà personale proclamata inviolabile dall’art. 13 Cost.

Ne discende che non è attribuibile al medico un generale diritto di curare, a fronte del quale non avrebbe alcun rilievo la volontà dell’ammalato che si troverebbe in una posizione di soggezione su cui il medico potrebbe ad libitum intervenire, con il solo limite della propria coscienza; appare, invece, aderente ai principi dell’ordinamento riconoscere al medico la facoltà o la potestà di curare, situazioni soggettive, queste, derivanti dall’abilitazione all’esercizio della professione sanitaria, le quali, tuttavia, per potersi estrinsecare abbisognano, di regola, del consenso della persona che al trattamento sanitario deve sottoporsi”[14].

Facoltà di curare e consenso del paziente vengono così a costituire i termini di un’endiadi.

A detta degli Ermellini, inoltre, il consenso informato consente non semplicemente di operare una scelta tra i diversi trattamenti terapeutici, ma pure di rifiutarli o di interromperli laddove già in atto, e ciò a prescindere dallo stadio della patologia che abbia colpito il paziente. Ciò è conforme al principio personalistico di matrice costituzionale – il quale “concepisce l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa”[15] e guarda al rispetto della persona umana in ogni istante della sua esistenza e con riferimento alle convinzioni che orientano il suo volere – nonché coerente con l’ormai diffusa idea per cui la salute si sostanzi nel completo benessere fisiopsichico più che nella mera assenza di malattia.

Significativo anche il fatto che per la giurisprudenza civile di legittimità in questione la volontà del paziente affetto da incapacità possa farsi valere a mezzo di legale rappresentante, purchè quest’ultimo soggetto, in ragione del carattere personalissimo del diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari, agisca sempre e comunque nel perseguimento del miglior interesse del paziente (il noto best interest).

Il rappresentante legale del paziente è inoltre abilitato a richiedere l’interruzione delle cure soltanto “(a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, concordanti e convincenti, della voce del rappresentato, tratta dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”[16].

Il legislatore, recependo i principi di diritto sanciti dalla giurisprudenza esaminata, ha così emanato la legge n. 219/2017 recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, la quale,  “nel rispetto dei principi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge” (art. 1, comma 1).

La legge in questione promuove soprattutto la relazione fiduciaria che viene ad instaurarsi tra esercente la professione sanitaria e paziente, in quanto nell’ambito della stessa si intersecano autonomia decisionale del paziente e autonomia professionale, competenza e responsabilità del medico (art. 1, comma 2).

L’art. 1 discorre di consenso “informato”, in quanto espresso dal paziente capace di agire a seguito di adeguata informazione sulle proprie condizioni di salute, sulla prognosi, la diagnosi, i benefici e i rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché “riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi” (art. 1, comma 3).

Nelle ipotesi in cui il soggetto sia minore di età, interdetto o inabilitato, il consenso viene prestato o rifiutato dall’esercente la responsabilità genitoriale o dal tutore per il minore, dal tutore per l’interdetto e dalla stessa persona inabilitata in caso di inabilitazione oppure anche da un amministratore di sostegno ove nominato. Il legislatore ha stabilito che vadano valorizzate anche le capacità di comprensione e decisione dei soggetti minori o incapaci (art. 3, commi 1-4), ciò che è coerente con il vecchio art. 337-octies c.c. – abrogato dall’art. 1, comma 5 del d.lgs. n. 149/2022 (cd. Riforma Cartabia del processo civile) – nella misura in cui prevedeva l’ascolto, da parte del giudice, del minore dodicenne o infra-dodicenne ove capace di discernimento – e con i nuovi artt. 473-bis.4 e 473-bis.5 del c.p.c., introdotti dallo stesso d.lgs. n. 149/2022, i quali prevedono un generale diritto di ascolto del minore in sede giudiziale[17].

Il consenso informato viene acquisito con modalità e strumenti che tengano conto delle condizioni del singolo paziente, in un’ottica di adeguamento allo specifico status del medesimo, e viene “documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare”, venendo poi inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico (art. 1, comma 4).

Ogni persona capace di agire dispone in particolar maniera del diritto di rifiutare totalmente o parzialmente ogni accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua specifica patologia oppure singoli atti del trattamento stesso, nonché del diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, anche rispetto ad un trattamento che abbia già avuto inizio. Dal suo canto, il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale (art. 1, commi 5 e 6). Deve però in ogni caso impegnarsi per alleviare le sofferenze del paziente (cd. terapia del dolore), astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati nei confronti di pazienti con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, e ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua soltanto in presenza di apposito consenso prestato dal paziente medesimo (art. 2).

L’art. 4 della legge n. 219/2017 disciplina, infine, le disposizioni anticipate di trattamento (cd. DAT).

In questa sede ci si limita a dire che trattasi di istituto già noto alla Convenzione di Oviedo del 1997 (art. 9) e che consente alla persona fisica maggiorenne nel momento in cui è pienamente in possesso della capacità di intendere e di volere di disporre pro futuro, mediante redazione di apposito atto, su trattamenti sanitari, accertamenti diagnostici e cure che intende o non intende accettare[18].

Il legislatore del 2017, pur non avendo legittimato in senso assoluto il “diritto a morire”, ha comunque positivizzato il diritto di non curarsi, esercitabile attraverso il rifiuto dei trattamenti sanitari già in atto o ancora da eseguirsi. A questo diritto corrisponderebbe il correlativo obbligo del sanitario di interrompere le cure e di ricorrere alla cd. terapia del dolore: una vera e propria forma di eutanasia passiva giustificata ex art. 51 c.p.[19].

Questa tappa è pertanto significativa, innestandosi nell’ambito di un vero e proprio processo evolutivo del “fine vita” che determina aperture di non poco momento quantomeno nel senso di un favor per il diritto a scegliere in che maniera porre fine alla propria esistenza.

3. Gli sviluppi del caso Dj Fabo e del caso Salas alla luce delle statuizioni della Consulta. L’attesa del deposito della recentissima pronuncia del Giudice delle leggi sull’applicabilità dell’art. 580 c.p. al caso Elena e Romano

Gli sviluppi del caso Dj Fabo e del caso Salas sono particolarmente rilevanti, soprattutto per quanto attiene alla ridefinizione dell’ambito operativo della fattispecie incriminatrice di istigazione o aiuto al suicidio ex art. 580 c.p., oggetto dell’imputazione mossa a carico di Marco Cappato per aver accompagnato in Svizzera nel 2017 Fabiano Antoniani (noto come Dj Fabo) al fine di consentirgli di ottenere assistenza al suicidio da parte dell’associazione Dignitas e di averne così agevolato il suicidio il 27 febbraio 2017, dell’imputazione mossa a carico dello stesso Cappato e di Felicetta Maltese e Chiara Lalli per aver aiutato il quarantaquattrenne toscano Massimiliano Salas a raggiungere la Svizzera nel 2022 per beneficiare dello stesso tipo di assistenza, così da agevolarne il suicidio l’8 dicembre 2022[20], e infine dell’imputazione mossa ancora a carico di Marco Cappato per aver accompagnato sempre in Svizzera nel 2022 Elena Altamira e Romano Noli che pure intendevano beneficiare consapevolmente del suicidio assistito.

Sia Dj Fabo, affetto da tetraplegia e cecità a seguito di un incidente stradale avvenuto nel 2014, sia Salas, affetto invece da sclerosi multipla, sia Elena e Romano, affetti rispettivamente da microcitoma polmonare e parkinsonismo atipico, scelsero di ricorrere all’extrema ratio del suicidio nel pieno delle loro facoltà intellettive.

Relativamente al caso Dj Fabo, all’udienza di discussione del 17 gennaio 2018 il P.M. chiedeva l’assoluzione dell’imputato o, in subordine, di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. innanzi alla Corte costituzionale.

La Corte d’Assise di Milano optò per la seconda soluzione riconoscendo che, per quanto potesse imputarsi a Cappato di aver posto in essere una condotta di aiuto materiale al suicidio[21], l’art. 580 c.p. presentasse profili di illegittimità costituzionale.

Il giudice a quo rilevava il contrasto della norma penale incriminatrice con gli artt. 3, 13, secondo comma e 25, terzo comma, Cost., non essendo ravvisabile alcuna ragionevole connessione tra la pena astrattamente prevista dal legislatore e il principio di offensività del fatto.

Il giudice di merito, inoltre, richiamando i principi di cui agli artt. 2 e 13, primo comma, Cost. nonché i diritti sanciti dagli artt. 2 e 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – disposizioni applicabili nell’ordinamento giuridico interno ex art. 117, primo comma, Cost. – e la normativa di cui alla legge n. 219/2017, metteva in evidenza la sussistenza della possibilità per il paziente di rinunciare al trattamento sanitario, potendo così porre fine alla propria esistenza sofferente pure acconsentendo alla somministrazione della sedazione palliativa profonda e continua; ciò che avrebbe dovuto orientare gli operatori giuridici nell’individuazione del bene giuridico tutelato dall’art. 580 c.p. e delle condotte tipiche che potessero determinarne l’offesa.

I principi di offensività della condotta, di ragionevolezza e proporzionalità della sanzione penale rispetto al fatto lesivo conducevano all’esito della non sanzionabilità delle condotte di agevolazione al suicidio che non avessero incidenza alcuna sul percorso deliberativo della persona offesa “aspirante suicida”.

Si rivelava infine necessario differenziare il minimo e il massimo edittale in ragione dell’intrinseca diversità delle condotte di assistenza e di istigazione, essendo queste ultime indubbiamente “più incisive anche sotto il profilo causale”.

In data 23 ottobre 2018, il Giudice delle leggi decise con ordinanza (n. 207/2018) di rinviare la trattazione della questione di costituzionalità dell’articolo 580 c.p. all’udienza del 24 settembre 2019, rivolgendo apposito monito alle aule parlamentari al fine della predisposizione di una “appropriata disciplina”.

La Consulta aveva segnatamente giustificato la rilevanza penale delle condotte di aiuto al suicidio in ragione della necessità di apprestare apposita tutela ai soggetti più vulnerabili.

Per quanto i giudici di Strasburgo abbiano nel tempo interpretato l’art. 8 della CEDU nel senso di ricomprendere nel perimetro del diritto al rispetto della vita privata e familiare anche il diritto a operare una scelta concernente tanto l’an quanto il quomodo della morte, la situazione giuridica soggettiva in questione non potrebbe infatti intendersi in senso assoluto, avendo la CEDU riconosciuto alle Alte Parti contraenti un certo margine di apprezzamento con riferimento alla suddetta disposizione convenzionale. Margine che consente al legislatore italiano di predisporre limitazioni all’esercizio del diritto che rinvengano la ratio giustificatrice proprio nell’esigenza di tutelare soggetti che, in relazione alla loro condizione, sarebbero maggiormente spinti a ricercare aiuto nella concreta esecuzione dell’atto suicida.

L’incostituzionalità dell’art. 580 c.p. veniva piuttosto ravvisata dalla Corte costituzionale nella disparità di trattamento che si sarebbe potuta avere nell’ambito della categoria dei soggetti affetti da patologia irreversibile e tenuti in vita da trattamenti sanitari, in quanto alcuni di essi sarebbero potuti morire in maniera dignitosa semplicemente rifiutando la prosecuzione dei trattamenti medesimi, mentre per altri la morte sarebbe sopraggiunta soltanto più tardi, assoggettandoli comunque a gravi sofferenze pur a seguito della consapevole espressione del rifiuto.

Si sarebbe pertanto dovuto garantire anche il diritto di ricevere trattamenti finalizzati ad accompagnare il fine vita[22].

Considerata l’inerzia del legislatore, all’udienza del 25 settembre 2019 la Consulta ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 580 c.p.

Con la sentenza n. 242/2019 ne è stata infatti dichiarata l’incostituzionalità “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”[23].

Il Giudice delle leggi ha così statuito, in estrema sintesi, che esiste ormai nell’ordinamento giuridico italiano un diritto ad adottare decisioni sull’an e sul quomodo della morte, dovendosene peraltro considerare il carattere meramente relativo.

La relatività del diritto in questione implica la giustificazione di condizioni e limitazioni all’esercizio della situazione giuridica soggettiva in questione finalizzate alla salvaguardia di soggetti particolarmente vulnerabili, affinchè l’autodeterminazione di questi ultimi non venga distorta dall’intervento di soggetti terzi e privata del profilo della libertà.

Ciò appurato, si rivela fondamentale pure evitare un discrimen tra soggetti che possano darsi serenamente la morte col mero rifiuto delle cure e pazienti per i quali invece l’esercizio del diritto di rifiuto del trattamento non risulti bastevole al raggiungimento dignitoso dello scopo: ne deriverebbe una violazione del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. sub specie di parità di trattamento, venendo per l’appunto in rilievo una indubbia disparità.

Ne deriva la necessità di restringere l’area della punibilità ex art. 580 c.p., espungendo dall’alveo applicativo della fattispecie incriminatrice tutte le condotte agevolative del suicidio di un soggetto che, pur affetto da patologia irreversibile e tenuto in vita mediante trattamenti sanitari, abbia formato il proposito suicida nel pieno delle sue facoltà intellettive e in ragione delle intollerabili sofferenze patite. Le condotte di agevolazione devono tuttavia essere rispettose delle procedure individuate dalla legge n. 219/2017 (o di procedure di tipo equivalente se trattasi di condotte poste in essere anteriormente alla pubblicazione della statuizione all’esame), ciò che consente al sanitario non soltanto di assicurare la terapia del dolore, ma pure di ricorrere di concerto col paziente alla sedazione palliativa profonda e continuativa.

Si tratta essenzialmente di comportamenti che, in un’ottica di parità di trattamento ex art. 3 Cost., rendono dignitosa e serena la morte di soggetti per i quali il semplice rifiuto del trattamento sanitario potrebbe non rivelarsi sufficiente rispetto alla diminuzione delle sofferenze e alla dignità dell’evento-morte.

Per quanto attiene invece al caso Salas, nel mese di gennaio 2024 il G.I.P. di Firenze ha statuito che la condotta posta in essere da Cappato, Lalli e Maltese è sussumibile entro l’art. 580 c.p. così come reinterpretato dal Giudice delle leggi nel 2019, difettando la condizione della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale[24] sulla quale poi si innesta la riflessione che ha condotto lo stesso giudice a sollevare con ordinanza una nuova questione di legittimità costituzionale.

Il requisito scriminante andrebbe anzitutto riferito ai trattamenti “sanitari”, avendo la Corte costituzionale menzionato propriamente le procedure di cui alla legge n. 219/2017.

Logica conseguenza di questo assunto sarebbe quella per cui non ogni “aiuto a vivere” possa rilevare ai fini dell’esclusione della punibilità del soggetto che agevoli l’esecuzione dell’atto suicida.

Si evidenzia poi che il criterio della sussistenza di trattamenti sanitari che tengano in vita l’aspirante suicida condurrebbe ad operare una differenziazione di non poco momento quanto al trattamento e alla considerazione di “situazioni concrete sostanzialmente identiche”, in violazione degli artt. 3, secondo comma, Cost. e 8 e 14 CEDU in relazione al parametro dell’art. 117, primo comma, Cost. Ciò in quanto “a parità di altre condizioni (in particolare l’irreversibilità della malattia, l’intollerabilità delle sofferenze che ne derivano e la capacità di autodeterminazione dell’interessato), la liceità della condotta di terzi finisce per dipendere dal fatto che la persona sia o meno tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale”[25], quando l’avverarsi di tale condizione è subordinato per la verità a “circostanze del tutto accidentali, legate alla multiforme variabilità dei casi concreti, in relazione alle condizioni cliniche generali della persona interessata […], alla natura delle terapie disponibili in un determinato luogo e in un determinato momento, nonché dalle scelte che lo stesso paziente abbia fatto”[26].

Non solo la dipendenza da sostegni vitali non implica necessariamente l’intollerabilità delle sofferenze patite e l’irreversibilità della malattia, ma pure l’irreversibilità della patologia e l’intolleranza delle sofferenze medesime non sono viceversa sempre determinative della necessità del ricorso a trattamenti vitali di sostegno.

La ratio che la Consulta ha posto a fondamento dell’art. 579 c.p. nella sentenza n. 50/2022 – ossia quella di tutelare non soltanto i soggetti strutturalmente più fragili, ma qualsiasi individuo da condotte autodistruttive “non sufficientemente meditate, e potenzialmente frutto di una decisione assunta […] in condizioni di vulnerabilità soggettiva”[27] – è estendibile anche all’art. 580 c.p., e il bilanciamento tra libertà di autodeterminazione e necessità di salvaguardare la vita umana non può farsi dipendere dalla presenza o assenza di trattamenti di sostegno vitale.

Emerge oggi infatti una significativa esigenza di garanzia di eguaglianza sostanziale anche nei confronti di pazienti che per le “caratteristiche accidentali della loro patologia” non possono accedere ai trattamenti di sostegno indicati. Tali soggetti sarebbero lesi nella loro libertà di autodeterminazione, segnatamente con riferimento alla scelta delle terapie cui sottoporsi – con violazione degli artt. 2, 13 e 32 Cost. – e costretti ad attendere l’aggravamento della patologia da cui sono affetti al fine di poter beneficiare del suicidio assistito, con indubbio vulnus al valore della dignità umana.

A fronte della richiesta del G.I.P di Firenze di emanazione di una declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. come modificato dalla sentenza n. 242/2019 della Consulta stessa, nella parte in cui prevede che la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio sia subordinata alla condizione che l’aiuto sia fornito a una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale (e ciò per contrasto con gli articoli 2, 3, secondo comma, 13, 32 e 117, primo comma, Cost.), il Giudice delle leggi ha tuttavia dichiarato non fondata la questione[28].

Nella sentenza n. 135/2024 la Consulta ha ribadito la rilevanza del requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale in un contesto di forte inerzia legislativa sul tema del “fine vita”.
Pur non configurandosi un generale diritto inviolabile alla morte in presenza di sofferenze difficilmente tollerabili, non è conforme a ragionevolezza l’idea per cui non possano ricorrere al suicidio medicalmente assistito quei pazienti che, tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale, siano già legittimati a rifiutare o interrompere trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza dall’art. 1, quinto e sesto comma della legge n. 219/2017 o a ricorrere alla sedazione palliativa profonda e continua sulla base di quanto previsto dall’art. 2 della medesima legge.

Trattasi di soggetti che potrebbero già “alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza”, ciò che non accadrebbe invece con riferimento a quei pazienti che, pur affetti da patologia irreversibile e foriera di rilevanti sofferenze non necessitino di tali trattamenti e conseguentemente non ne dipendano.

Le situazioni sarebbero pertanto differenti e non sostanzialmente identiche, non derivandone alcuna lesione del principio di parità di trattamento ricavabile dall’art. 3 Cost.

Fondamentale è invece non operare alcun discrimen tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può chiedere l’interruzione, e quella del paziente che non vi è ancora sottoposto, ma necessita dei medesimi per sopravvivere. Dal momento che anche in questa situazione il paziente può legittimamente rifiutare il trattamento, egli si trova già nelle condizioni indicate dalla sentenza n. 242/2019.

La Consulta è poi consapevole del fatto che le Corti costituzionali tedesca, spagnola ed austriaca abbiano optato per un concetto particolarmente ampio di “autodeterminazione terapeutica”, statuendo le stesse che dal diritto alla libera autodeterminazione nello sviluppo della propria personalità possa pure ricavarsi il “diritto fondamentale a disporre della propria vita, anche attraverso l’aiuto di terzi”[29], o comunque un “diritto della persona alla propria morte in contesti eutanasici”[30]. Tuttavia, essa non ritiene di potersi pronunciare in questo senso.

“Può, certo, convenirsi […] che la decisione su quando e come concludere la propria esistenza possa considerarsi inclusa tra quelle più significative nella vita di un individuo. Tuttavia, se è vero che ogni scelta di legalizzazione di pratiche di suicidio assistito o di eutanasia amplia gli spazi riconosciuti all’autonomia della persona nel decidere liberamente sul proprio destino, essa crea – al tempo stesso – rischi che l’ordinamento ha il dovere di evitare, in adempimento del dovere di tutela della vita umana che […] discende dall’art. 2 Cost”[31].

Tra i rischi in questione rientra anche “la possibilità che, in presenza di una legislazione permissiva non accompagnata dalle necessarie garanzie sostanziali e procedimentali, si crei una «pressione sociale indiretta» su altre persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte”[32].

Viene ancora precisato che è il legislatore, nell’ambito della sua discrezionalità e in considerazione della cornice ermeneutica fissata dalla Corte costituzionale tra il 2018 e il 2019, a dover operare un opportuno bilanciamento tra la libertà di autodeterminazione e il diritto alla vita nonché a dover “offrire una tutela equilibrata a tutti i diritti di pazienti che versino in situazioni di intensa sofferenza”.

Ogni vita ha una sua inalienabile dignità, indipendentemente dalle condizioni in cui concretamente essa si svolga, non potendosi pertanto ritenere che l’art. 580 c.p. rechi un vulnus alla dignità umana per il fatto di costringere il paziente a vivere un’esistenza non più dignitosa.

La nozione soggettiva di dignità – ossia la concezione che l’individuo ha della propria persona e l’interesse a lasciare una certa immagine di sé – finisce col coincidere con quella di autodeterminazione, la libertà della quale va necessariamente bilanciata con la tutela della vita.

Nel precisare poi che il paziente può rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività, la Corte costituzionale qualifica come trattamenti di sostegno vitale ai fini dell’applicazione della sentenza n. 242/2019 ogni procedura – tra cui anche l’evacuazione manuale dell’intestino del paziente, l’inserimento di cateteri urinari o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – che si riveli in concreto necessaria ad assicurare al paziente stesso l’espletamento di funzioni vitali, al punto che l’omissione o l’interruzione della medesima “determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo”[33].

A conclusione della statuizione del 18 luglio del 2024 si pone il monito rivolto dal Giudice delle leggi al legislatore nonché al Servizio sanitario nazionale, affinchè intervengano ad assicurare concreta attuazione ai principi di cui all’ordinanza n. 207/2018 e alla sentenza n. 242/2019.

Ultimo caso significativo, rispetto al quale è venuta nuovamente in rilievo la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 580 c.p., è quello di Elena e Romano. La relativa vicenda giudiziaria condivide con quella concernente il caso Salas l’insussistenza della condizione della dipendenza dei due pazienti da trattamenti di sostegno vitale.

La Procura della Repubblica di Milano ha richiesto però in tal caso l’archiviazione o, in subordine, di sollevare questione di legittimità costituzionale, ritenendo che la condotta di Marco Cappato rientrasse nell’area di esclusione della punibilità dell’art. 580 c.p. così come interpretato dalla più recente giurisprudenza costituzionale e ricomprendendo nell’ambito applicativo della norma penale incriminatrice anche le ipotesi in cui, come quella all’esame, il paziente non sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale in quanto lui stesso li avrebbe rifiutati per la loro futilità o inutilità perché espressivi di accanimento terapeutico secondo la scienza medica, non dignitosi secondo la percezione del malato e forieri di ulteriori sofferenze per coloro che lo accudiscono.

La lettura della Procura della Repubblica di Milano[34] non è stata peraltro condivisa dal G.I.P., il quale ha messo in evidenza la differenza sussistente tra rifiuto di un trattamento di sostegno vitale in atto del quale si richieda l’interruzione e rifiuto di un trattamento sanitario futile o espressivo di accanimento terapeutico mai iniziato.

È stata peraltro sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. con ordinanza del 21 giugno 2024 negli stessi termini in cui è stata sollevata nel mese di gennaio 2024 dal G.I.P. di Firenze.

Il 26 marzo 2025, e dunque pochissimi giorni fa, si è tenuta l’udienza pubblica nella quale la Consulta è stata chiamata a discutere la questione relativa al se l’applicabilità dell’art. 580 c.p. possa escludersi nelle ipotesi in cui il paziente non sia tenuto in vita da un trattamento di sostegno vitale da lui stesso rifiutato in quanto futile o espressivo di accanimento terapeutico secondo la scienza medica, non percepito come dignitoso e produttivo di ulteriori sofferenze per coloro che lo accudiscano. Si attende il deposito della statuizione, rispetto alla quale non è ancora intervenuto alcun comunicato, essendo tuttavia assai plausibile che nihil sub sole novum[35].

Ad ogni modo tutto ciò testimonia, unitamente alla pubblicazione della legge della Regione Toscana n. 16/2025 (recante “Modalità organizzative per l’attuazione delle sentenze della Corte costituzionale 242/2019 e 135/2024”) sul Bollettino ufficiale della Regione del 17 marzo 2025 e all’attuale esame in Senato del disegno di legge S. 65 da parte della Seconda e Decima Commissione in sede referente, quanto il tema del “fine vita” sia particolarmente rilevante e centrale nel panorama giuridico italiano nel periodo attuale.

4. Breve excursus sulla legge della Regione Toscana n. 16/2025 recante “Modalità organizzative per l’attuazione delle sentenze della Corte costituzionale 242/2019 e 135/2024”

A rappresentare indubbio elemento di novità è la predisposizione, da parte del legislatore della Regione Toscana, di modalità organizzative finalizzate a dare concreta attuazione ai principi di diritto enunciati nelle sentenze nn. 242/2019 e 135/2024 della Corte costituzionale.

È stata infatti pubblicata nel Bollettino ufficiale della Regione Toscana del 17 marzo 2025 la legge regionale 14 marzo 2025, n. 16[36], con la quale ci si prefissa la finalità, in attuazione delle statuizioni più recenti della giurisprudenza costituzionale in materia di aiuto al suicidio e “fine vita”[37], di “eliminare eventuali residui di incertezza e problematicità rispetto all’erogazione di una prestazione sanitaria suddivisa in più fasi”, cosicché “la facoltà riconosciuta dalla Corte costituzionale sia efficacemente fruibile” (punto 7 del Preambolo).

La Regione Toscana ha così approvato per prima il d.d.l. presentato dall’Associazione Luca Coscioni. Trattasi di normativa che, come espressamente sancito al punto 8 del Preambolo, risulta cedevole rispetto ad una successiva disciplina legislativa statale che regoli la materia, fissandone i principi[38]. Il tema è piuttosto “caldo” se si considera il fatto che, come anticipato poc’anzi, al Senato è in corso di esame da parte della Seconda e Decima Commissione in sede referente il disegno di legge S. 65, di iniziativa del Senatore Parrini, cui sono abbinati i disegni di legge 104, 124, 570 e 1083, tutti di iniziativa parlamentare.

Stando all’art. 2 della legge regionale all’esame, “fino all’entrata in vigore della disciplina statale, possono accedere alle procedure relative al suicidio medicalmente assistito le persone in possesso dei requisiti indicati dalle sentenze della Corte costituzionale 242/2019 e 135/2024, con le modalità previste dagli articoli 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219”.

Entro quindici giorni dall’entrata in vigore della legge, le aziende sanitarie locali istituiscono una Commissione multidisciplinare permanente “per la verifica della sussistenza dei requisiti per l’accesso al suicidio medicalmente assistito nonché per la verifica o definizione delle relative modalità di attuazione” (art. 3).

La persona interessata presenta direttamente o tramite delegato all’azienda sanitaria locale territorialmente competente un’istanza per l’accertamento dei requisiti per l’accesso al suicidio medicalmente assistito nonché per l’approvazione o definizione delle relative modalità di attuazione, potendo indicare nella stessa un medico di fiducia nonché il protocollo redatto da quest’ultimo recante le modalità di attuazione del suicidio medicalmente assistito.

Tale istanza, unitamente alla documentazione relativa, viene così trasmessa tempestivamente dall’azienda sanitaria locale alla Commissione multidisciplinare e al Comitato per l’etica nella clinica (art. 4).

La Commissione ha in sostanza venti giorni dal ricevimento dell’istanza – e il termine può essere sospeso per una sola volta e per un periodo non superiore a cinque giorni laddove debbano effettuarsi accertamenti clinico-diagnostici – per verificare che il consenso sia informato, libero e consapevole e che sussistano le condizioni indicate dalla Consulta ai fini dell’accesso al suicidio medicalmente assistito. Al termine della verifica, essa redige la relazione finale attestante gli esiti dell’accertamento dei requisiti, i quali vengono comunicati all’interessato dall’azienda sanitaria locale (art. 5).

In caso di esito positivo della verifica dei requisiti la Commissione procede, entro dieci giorni dalla comunicazione della relazione finale attestante gli esiti dell’accertamento dei requisiti, all’approvazione o definizione delle modalità di attuazione del suicidio medicalmente assistito, con redazione di un’ulteriore relazione che è poi sempre l’azienda sanitaria locale a comunicare all’interessato[39]. Quest’ultimo in ogni caso può richiedere alla Commissione tanto l’approvazione del protocollo redatto dal medico di fiducia e indicante le modalità di attuazione del suicidio medicalmente assistito quanto la definizione, in accordo con la Commissione medesima, delle modalità attuative mediante la redazione di apposito protocollo (se l’accordo manca, peraltro, la richiesta non ha seguito).

La Commissione è in ogni caso tenuta a richiedere il parere di adeguatezza del protocollo al Comitato etico, espresso entro cinque giorni dal ricevimento della documentazione trasmessa dalla stessa Commissione (art. 6).

Infine, entro sette giorni dalla comunicazione degli esiti della procedura, l’azienda sanitaria locale assicura il supporto tecnico e farmacologico nonché l’assistenza sanitaria per la preparazione all’autosomministrazione del farmaco autorizzato. L’interessato in possesso dei requisiti può decidere comunque di sospendere o annullare l’erogazione del trattamento in qualsiasi istante (art. 7)[40].

La problematica che la legge n. 16/2025 della Regione Toscana pone deriverebbe, stando ad un certo orientamento dottrinale[41], dal fatto di rappresentare nient’altro che la concretizzazione dell’esercizio di una competenza in materie riservate alla potestà legislativa esclusiva statale: ordinamento civile e penale (art. 117, secondo comma, lett. l), Cost.) e determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art. 117, secondo comma, lett. m), Cost.).

Il legislatore regionale interviene in sostanza nel senso del restringimento dell’ambito applicativo dell’art. 580 c.p., della disciplina del consenso informato e della regolamentazione dei trattamenti di “fine vita”, che atterrebbero però ai cd. LEP.

Altra dottrina[42] mette peraltro in evidenza che, se è forse complicato negare che i trattamenti di “fine vita” attengano ai livelli essenziali delle prestazioni, costituendo essi oggetto di un vero e proprio diritto alla vita inteso come “protezione di una signoria della volontà che si estende fino al decidere, in situazioni estreme, come poter morire”[43], non può altrettanto ritenersi che il legislatore toscano abbia effettuato ingerenze nella materia civile e in quella penale. Il consenso informato resta infatti pur sempre disciplinato dalla legge n. 219/2017, che è legge dello Stato, e l’area di rilevanza penale ex art. 580 c.p. non viene affatto ristretta dalla legge regionale, limitandosi quest’ultima a “definire le condizioni di accesso a un trattamento sanitario che per effetto di una decisione costituzionale può essere erogato senza incorrere in alcuna responsabilità penale”[44].

Per il momento il Governo non ha proceduto, ex art. 127 Cost., alla promozione della questione di legittimità costituzionale della legge regionale n. 16/2025, ma è pur sempre vero che non è ancora spirato il termine di sessanta giorni dalla pubblicazione della legge necessario per procedere all’impugnativa.

5. Riflessioni conclusive: l’inviolabilità della dignità umana quale possibile fondamento definitivo di un “diritto a morire”

All’esito della disamina complessiva effettuata sulla tematica del fine vita, potrebbe giungersi alla conclusione per cui l’effettivo fondamento di quello che può configurarsi come “diritto a morire” vada rinvenuto nella dignità umana, concepibile tanto come valore che come contenuto di un vero e proprio diritto inviolabile dell’uomo ex art. 2 Cost.

Preliminarmente può dirsi che proprio la Corte costituzionale, nel superamento della concezione del cd. numerus clausus del catalogo dei diritti inviolabili, ha fornito il crisma dell’inviolabilità al diritto al rispetto della dignità umana intorno agli Anni Ottanta del XX secolo.

In qualità di valore, la dignità umana è poi espressamente indicata dall’art. 41, secondo comma, Cost., quale limite negativo al libero esercizio dell’iniziativa economica privata.

È bene inoltre rammentare, in un’ottica di tutela cd. multilevel, che la dignità umana è anche valore evincibile dall’art. 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata e proclamata dall’Assemblea Generale dell’ONU il 10 dicembre 1948 (“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”), oltre che essere espressamente sancita dall’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 ed adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, che dispone che “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”[45].

Come confermato dalla Corte di giustizia nella sentenza 9 ottobre 2001, causa C 377/98, Regno dei Paesi Bassi contro Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione europea, la dignità umana non è semplicemente diritto fondamentale costituente parte integrante del diritto UE, ma pure presupposto di ogni diritto fondamentale[46].

Ciò evidenziato, può aderirsi a quella dottrina che concepisce la dignità come “meta-diritto” che si pone in un rapporto di reciprocità con i diritti fondamentali: se è vero che da un lato essa contribuisce ad illuminare il percorso che conduce al riconoscimento dei diritti, non può negarsi che dall’altro essa risulti potenziata e contenutisticamente alimentata per il tramite degli stessi[47].

Questa stessa dottrina, tuttavia, pare collegare la dignità umana alla sola vita e non anche alla morte, dovendosi configurare l’esistenza – e non anche la morte – come dignitosa e puntando l’ordinamento complessivamente inteso a tutelare il diritto inviolabile alla vita.

Per la verità, se si riflette sulle potenzialità espresse dal binomio dignità umana-vita, può sostenersi che un “diritto a morire” possa proprio ricavarsi dal diritto a vivere un’esistenza dignitosa, concependo come equivalente alla morte una vita sofferente e la cui prosecuzione non sia per nulla dignitosa.

Se si argomenta in siffatta maniera, è altresì possibile qualificare la dignità umana come fondamento definitivo del riconoscimento di un “diritto inviolabile a morire”; ciò purchè però non si faccia rientrare una simile situazione giuridica soggettiva tra quelle connotate dall’assolutezza.

È in effetti complesso configurare un simile diritto secondo coordinate differenti da quelle fornite nei recenti anni dalla giurisprudenza costituzionale, in quanto l’assolutizzazione del “diritto a morire” finirebbe col trasformare l’esistenza stessa in un non valore, in un bene disponibile e degradabile a cui si potrebbe rinunciare anche in situazioni per nulla estreme.

Si rivela pertanto opportuno addivenire all’idea per cui, in ossequio alla libertà di autodeterminazione e nell’ambito dell’esercizio del diritto inviolabile al rispetto della dignità umana, sia possibile immaginare l’esistenza di un diritto ad operare scelte sull’an e sul quomodo della morte – e quindi di un “diritto a morire” – soltanto in presenza di patologie irreversibili da cui derivino intollerabili sofferenze, purchè si sia ancora nel pieno delle proprie facoltà intellettive
e si sia sottoposti a trattamenti di sostegno vitale dei quali si possa richiedere l’interruzione oppure si necessiti di trattamenti di questo tipo al fine di sopravvivere, purchè non ancora iniziati.

Non è possibile ampliare oltre questo limen la platea dei soggetti legittimati all’esercizio di questo diritto ricomprendendovi ad esempio tutti coloro che, pur affetti da patologia irreversibile da cui derivino gravi sofferenze, non necessitino di trattamenti di sostegno vitale, oppure ancora coloro che rifiutino trattamenti prospettati come concretizzazione di un vero e proprio accanimento terapeutico – con ciò probabilmente anticipando quel che la Corte costituzionale potrebbe a breve statuire in sentenza rispetto alla questione di legittimità costituzionale discussa all’udienza del 26 marzo 2025.

L’ampliamento contenutistico del diritto al rispetto della propria dignità, unitamente all’espansione dello spettro della libertà di autodeterminazione, non può cagionare un rilevante vulnus al diritto alla vita, ugualmente connotato da inviolabilità e fondamentalità.

In ragione di ciò, si rivela dunque ancora assolutamente necessaria l’opportunità di una significativa tutela in favore di tutti quei soggetti psicologicamente vulnerabili (o che sperimentino comunque pure sofferenze di tipo fisico legate a patologie di notevole entità) che potrebbero essere spinti, in ragione di una soggettiva percezione di assenza di condizioni dignitose nel proprio percorso esistenziale, a ricercare il sostegno di soggetti terzi ai fini della commissione dell’atto estremo.

Il carattere relativo di un pure supposto “diritto a morire” che poggi sull’incrollabile pilastro della dignità umana orienta dunque nel senso della disponibilità soltanto relativa ed estremamente eccezionale del bene-vita, in un’ottica di contrasto ad ogni forma di ingerenza nella personale sfera psichica da parte di soggetti terzi che potrebbero “alimentare la fiamma” della supposizione di assenza di dignità negli individui più sensibili.

È unicamente in questi termini e secondo queste coordinate ermeneutiche, ad avviso di chi scrive, che può discorrersi di “diritto a morire” nel panorama giuridico italiano, rivelandosi forse più opportuno optare per la definizione di “diritto all’atto estremo in estrema assenza di dignità esistenziale”. Diritto, questo, che pur connotandosi per assolutezza quanto al suo esercizio in presenza delle condizioni individuate dalla giurisprudenza costituzionale (nel senso della sua inviolabilità, nei casi eccezionalmente indicati, derivante dalla correlazione alla necessità di un’esistenza dignitosa), andrebbe declinato sempre e comunque in senso relativo quanto alle categorie di soggetti cui può essere riconosciuto e garantito, dovendosi così discorrere di legittimazione non generalizzata all’esercizio.

 

 

Bibliografia
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CGUE, 9 ottobre 2001, causa C 377/98, Regno dei Paesi Bassi contro Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione europea
Corte EDU, Sez. IV, 29 aprile 2002, ric. n. 2346/02
Corte cost., 19 giugno 1956, n.11
Corte cost., 22 marzo 1962, n.29
Corte cost., 2 luglio 1968, n. 98
Corte cost., 21 giugno 1979, n. 54
Corte cost., 16 novembre 2018, n. 207
Corte cost. 22 novembre 2019, n. 242
Corte cost., 15 febbraio 2022, n. 50
Corte cost., 18 luglio 2024, n. 135
Cass. Civ., Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748
Trib. Roma, Sez. I civ., 16 dicembre 2006
Trib. Roma, 23 luglio-17 ottobre 2007, n. 2049
Corte Assise Milano, 14 febbraio 2018
Trib. Firenze, 17 gennaio 2024

[1] Con riferimento al caso Englaro, si segnala REDAZIONE MEDIAVOX MAGAZINE, 5 luglio 2018, “Fine vita”: un dibattito senza “fine”, in www.mediavoxmagazine.it, https://mediavoxmagazine.it/?p=7076. L’articolo, a  seguito di preliminari considerazioni sulla tematica del “fine vita”, reca un’intervista che gli autori – tra i quali anche l’autore del presente contributo – hanno personalmente fatto a Giuseppe Englaro, padre di Eluana Englaro. Significative alcune delle sue affermazioni rispetto alle condizioni della figlia, che vengono qui brevemente riportate: “Nello specifico della sua condizione clinica, dalla fine dell’emergenza in poi, era preferibile che la morte accadesse, nonostante la rianimazione ad oltranza e le terapie successive. Per il suo caso è stato chiarito, sin da subito, che lo stato dell’arte della medicina era di poco superiore allo zero e che non si poteva escludere persino lo sbocco dello stato vegetativo permanente, condizione che Eluana definiva peggiore della morte”.
[2] Le posizioni in questione sono riportate in REDAZIONE MEDIAVOX MAGAZINE, 5 luglio 2018, “Fine vita”: un dibattito senza “fine, cit.
[3] La Consulta era inizialmente orientata nel senso dell’attribuzione del crisma dell’inviolabilità ai soli diritti che la Carta costituzionale espressamente indicasse nelle disposizioni successive all’art. 2 (cd. numerus clausus dei diritti inviolabili. Si vedano ad es. Corte cost., 19 giugno 1956, n. 11, Corte cost., 22 marzo 1962, n. 29 e Corte cost., 2 luglio 1968, n. 98). Già dagli Anni Settanta del XX secolo, tuttavia, questo orientamento è stato superato in favore del riconoscimento del cd. numerus apertus dei diritti inviolabili. La Consulta in quel periodo ha infatti riconosciuto il carattere dell’inviolabilità ad una serie di diritti, tra cui il diritto inviolabile alla riservatezza ed all’immagine, il diritto di rettifica delle notizie inesatte concernenti la propria persona, il diritto alla libertà ed all’identità sessuale, il diritto ad un proprio patrimonio morale e il diritto alla vita anche del nascituro, per poi proseguire questa operazione anche nel corso degli Anni Ottanta e Novanta (si pensi al riconoscimento del carattere dell’intangibilità con riferimento al diritto alla vita e all’incolumità, nonché al riconoscimento del diritto alla privacy, del diritto al rispetto della dignità umana, del diritto al nome e del diritto all’abitazione).
[4] Cit. testualmente da Corte cost., 21 giugno 1979, n. 54.
[5] Trattasi di Corte EDU, Sez. IV, 29 aprile 2002, ric. n. 2346/02, Pretty contro Regno Unito. Le statuizioni dei giudici di Strasburgo vengono sintetizzate in PARODI C., 19 febbraio 2013, “Una cauta pronuncia della Corte europea in tema di eutanasia attiva”, in www.penalecontemporaneo.it, https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/2053-una-cauta-pronuncia-della-corte-europea-in-tema-di-eutanasia-attiva, da cui in parte si argomenta.
[6] Per la verità la norma distingue tra condotta che si sostanzi nella determinazione del proposito suicida inesistente nella psiche della persona offesa e condotta che vada invece a concretarsi nel rafforzamento di un proposito suicida già formatosi.
[7] Inteso come agevolazione nell’esecuzione dell’atto suicida.
[8] È quanto si fa notare in FRATINI M., FIANDACA L., “Manuale sistematico di diritto penale parte speciale”, II Edizione, NelDirittoEditore, Molfetta, 2024, pag. 730.
[9] Proprio in MASSARO A., “L’omicidio del consenziente e l’istigazione o aiuto al suicidio. La rilevanza penale delle pratiche di fine vita”, in Giurisprudenza penale web, n. 10/2018, pag. 2, si precisa come il discrimen tra art. 579 e art. 580 c.p. vada individuato nel tipo di condotta che determini l’evento naturalistico morte. Si adduce quale esempio l’ipotesi in cui il soggetto decida di morire mediante assunzione di un forte barbiturico. L’art. 579 c.p. trova applicazione laddove il farmaco venga materialmente somministrato da un soggetto terzo, mentre l’art. 580 c.p. rileva laddove sia la persona offesa ad assumere materialmente il barbiturico, venendo esso fornito da un terzo che in questo senso agevolerebbe la commissione del suicidio.
[10] Per quanto riguarda entrambi i casi, si argomenta da MASSARO A., “L’omicidio del consenziente e l’istigazione o aiuto al suicidio. La rilevanza penale delle pratiche di fine vita”, cit., pagg. 9 e ss., nonché da SCALCON E., 23 luglio 2007 (ult. Modifica 30 maggio 2019), Tribunale di Roma – Caso Welby: non luogo a procedere nei confronti del medico che ha interrotto il trattamento di sostegno vitale, in www.biodiritto.org, https://www.biodiritto.org/Biolaw-pedia/Giurisprudenza/Tribunale-di-Roma-Caso-Welby-non-luogo-a-procedere-nei-confronti-del-medico-che-ha-interrotto-il-trattamento-di-sostegno-vitale, e ancora da COLUSSI I.A., 16 ottobre 2007 (ult. Modifica 20 agosto 2019), “Corte di Cassazione – sez. I civ. – Caso Englaro: interruzione dei trattamenti e incapacità”, in www.biodiritto.org, https://www.biodiritto.org/Biolaw-pedia/Giurisprudenza/Corte-di-Cassazione-sez.-I-civ.-Caso-Englaro-interruzione-dei-trattamenti-e-incapacita.
[11] Si veda Trib. Roma, Sez. I civ., 16 dicembre 2006.
[12] Si consulti Trib. Roma, 23 luglio-17 ottobre 2007, n. 2049.
[13] Cit. testualmente da Cass. Civ., Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748.
[14] Idem.
[15] Idem.
[16] Idem.
[17] In particolar modo nei procedimenti relativi allo stato delle persone, ai minorenni e alle famiglie attribuiti alla competenza del tribunale ordinario, del giudice tutelare e del tribunale per i minorenni, come disposto dal nuovo art. 473-bis c.p.c. delineante l’ambito applicativo delle disposizioni del Titolo IV-bis del Codice di procedura civile.
[18] Per una trattazione più approfondita della legge n. 219/2017, della quale in questa sede si è cercato di sintetizzare le disposizioni e di enucleare i principi basilari, si consenta di rinviare a MASSARO A., “L’omicidio del consenziente e l’istigazione o aiuto al suicidio. La rilevanza penale delle pratiche di fine vita”, in Giurisprudenza penale web, n. 10/2018, pagg. 20 e ss., nonché a FRATINI M., “Manuale sistematico di diritto penale”, II Edizione, NelDirittoEditore, Molfetta, 2024, pagg. 428 e ss per quanto attiene al consenso informato, pagg. 433-434 per quanto concerne le disposizioni anticipate di trattamento (cd. DAT), e ancora pagg. 435-436 relativamente all’art. 2, rubricato “Terapia del dolore, divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e dignità nella fase finale della vita”.
[19] Si argomenta da FRATINI M., FIANDACA L., “Manuale sistematico di diritto penale parte speciale”, II Edizione, NelDirittoEditore, Molfetta, 2024, pag. 733.
[20] Per quanto attiene alla complessa vicenda giudiziaria che ha visto protagonista Marco Cappato per il suicidio assistito di Fabiano Antoniani, si argomenta da MASSARO A., “L’omicidio del consenziente e l’istigazione o aiuto al suicidio. La rilevanza penale delle pratiche di fine vita”, in Giurisprudenza penale web, n. 10/2018, pagg. 15 e ss., da FRATINI M., FIANDACA L., “Manuale sistematico di diritto penale parte speciale”, II Edizione, NelDirittoEditore, Molfetta, 2024, pagg. 733 e ss., nonché da STAMPANONI BASSI G., (a cura di), “Processo nei confronti di Marco Cappato per il suicidio assistito di Dj Fabo”, in www.giurisprudenzapenale.com, https://www.giurisprudenzapenale.com/processi/processo-nei-confronti-di-marco-cappato-suicidio-assistito-di-dj-fabo/. Relativamente al caso Salas, si argomenta invece da PIVATO E., 17 gennaio 2024 (ult. Modifica 4 aprile 2024), “Tribunale di Firenze – ord. 17 gennaio 2024: questione di legittimità costituzionale dell’articolo 580 c.p. come modificato dalla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale”, in www.biodiritto.org, https://www.biodiritto.org/Biolaw-pedia/Giurisprudenza/Tribunale-di-Firenze-ord.-17-gennaio-2024-questione-di-legittimita-costituzionale-dell-articolo-580-c.p.-come-modificato-dalla-sentenza-242-2019-della-Corte-costituzionale.
Per quanto attiene al caso Elena e Romano, si tiene conto invece di SIGNORELLA R., 21 giugno 2024 (ult. Modifica 5 ottobre 2024), “Tribunale di Milano – ord. 21 giugno 2024: questione di legittimità costituzionale dell’articolo 580 c.p. come modificato dalla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale (casi E.A. e R.N.)”, in www.biodiritto.org, https://www.biodiritto.org/Biolaw-pedia/Giurisprudenza/Tribunale-di-Milano-ord.-21-giugno-2024-questione-di-legittimita-costituzionale-dell-articolo-580-c.p.-come-modificato-dalla-sentenza-242-2019-della-Corte-costituzionale-casi-E.A.-e-R.N.
[21] E non invece di aiuto morale, portando l’istruttoria ad evidenza il fatto che il contatto tra Cappato e Dj Fabo si fosse avuto in un momento in cui lo stesso Dj Fabo non solo era già conscio delle attività svolte da Dignitas, ma aveva pure maturato in autonomia la decisione di ricorrere alla morte. Si veda Corte Assise Milano, 14 febbraio 2018, ordinanza citata e descritta in MASSARO A., “L’omicidio del consenziente e l’istigazione o aiuto al suicidio. La rilevanza penale delle pratiche di fine vita”, in Giurisprudenza penale web, n. 10/2018, pag. 17.
[22] Si veda Corte cost., 16 novembre 2018, n. 207, ordinanza che viene ben descritta in FRATINI M., FIANDACA L., “Manuale sistematico di diritto penale parte speciale”, II Edizione, NelDirittoEditore, Molfetta, 2024, pag. 734.
[23] Cit. testualmente da Corte cost., 22 novembre 2019, n. 242.
[24] Si argomenta da PIVATO E., 17 gennaio 2024 (ult. Modifica 4 aprile 2024), “Tribunale di Firenze – ord. 17 gennaio 2024: questione di legittimità costituzionale dell’articolo 580 c.p. come modificato dalla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale”, in www.biodiritto.org, https://www.biodiritto.org/Biolaw-pedia/Giurisprudenza/Tribunale-di-Firenze-ord.-17-gennaio-2024-questione-di-legittimita-costituzionale-dell-articolo-580-c.p.-come-modificato-dalla-sentenza-242-2019-della-Corte-costituzionale.
[25] Cit. testualmente da Trib. Firenze, 17 gennaio 2024.
[26] Idem.
[27] Si veda Corte cost., 15 febbraio 2022, n. 50, che è pronuncia richiamata anche dal G.I.P. di Firenze nell’ordinanza del 17 gennaio 2024 e posta a fondamento del suo iter motivazionale.
[28] Per quanto attiene all’analisi della statuizione della Consulta in questione, si argomenta principalmente da SIGNORELLA R., 1 luglio 2024 (ult. Modifica 8 settembre 2024), “Corte costituzionale – sent. n. 135/2024: la Corte chiarisce la portata del requisito della “dipendenza da trattamenti di sostegno vitale” richiesto per la procedura di assistenza al suicidio” in www.biodiritto.org., https://www.biodiritto.org/Biolaw-pedia/Giurisprudenza/Corte-costituzionale-sent.-n.-135-2024-la-Corte-chiarisce-la-portata-del-requisito-della-dipendenza-da-trattamenti-di-sostegno-vitale-richiesto-per-la-procedura-di-assistenza-al-suicidio.
[29] Come sostenuto dal Tribunale costituzionale federale tedesco e dal Tribunale costituzionale austriaco nel 2020.
[30] Come sostenuto dal Tribunale costituzionale spagnolo nel 2023.
[31] Cit. testualmente da Corte cost., 18 luglio 2024, n. 135.
[32] Idem.
[33] La Consulta ha poi precisato che tali procedure sono normalmente posti in essere da personale sanitario, ma nulla esclude che le stesse possano essere apprese anche da familiari o caregivers.
[34] Richiamata tra l’altro anche dal G.I.P. di Firenze nell’ordinanza del 17 gennaio 2024 e ritenuta non condivisibile.
[35] E in effetti all’udienza del 26 marzo 2025 il giudice Francesco Viganò ha precisato che la sentenza n. 135/2024 della Corte costituzionale rappresenta statuizione della quale non può che tenersi conto anche con riferimento al caso Elena e Romano. Si consiglia la lettura di MACIOCCHI P., 27 marzo 2025, “Attesa per la decisione della Consulta sul fine vita. Da stabilire la punibilità dell’aiuto al suicidio assistito in assenza di sostegni vitali. Per il relatore Viganò non si può ignorare la sentenza 135/2024 della Corte costituzionale”, in www.ilsole24ore.com, https://www.ilsole24ore.com/art/attesa-la-decisione-consulta-fine-vita-AG6P50kD.
[36] Il contenuto della disciplina viene sinteticamente esposto in CONTI G.L., 21 marzo 2025, “A proposito della legge regionale toscana 16/2025 e della deliberazione 2/2025 del collegio toscano di garanzia statutaria”, in www.lecostitutionaliste.it, https://www.lecostituzionaliste.it/a-proposito-della-legge-regionale-toscana-16-2025/.
[37] Statuizioni che, stando a quanto disposto al punto 6 del Preambolo, sarebbero immediatamente esecutive.
[38] E del resto l’art. 7, ultimo comma, prevede proprio che “le aziende unità sanitarie locali conformano i procedimenti disciplinati dalla presente legge alla disciplina statale”.
[39] Le modalità di attuazione, stando a quanto disposto dall’art. 6, quarto comma, “devono prevedere l’assistenza del medico e devono essere tali da evitare abusi in danno delle persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze”.
[40] L’art. 7, secondo comma, dispone che le prestazioni e i trattamenti disciplinati dalla legge “costituiscono un livello di assistenza sanitaria superiore rispetto ai livelli essenziali di assistenza. La Regione fa fronte con risorse proprie agli effetti finanziari connessi a tali prestazioni e trattamenti […]”. Stando inoltre a quanto disposto dall’art. 8, le prestazioni e i trattamenti che vengono effettuati dal Servizio sanitario regionale nell’ambito del percorso terapeutico-assistenziale del suicidio medicalmente assistito si connotano per gratuità.
[41] Di questo orientamento fanno sostanzialmente parte Candido, Razzano, Esposito e Bianchi. Si veda CANDIDO A., “Il fine vita fra Stato e Regioni”, in Giurcost.org, Fascicolo n. 3/2024, pagg. 989 e ss.; RAZZANO G., ”Le proposte di leggi regionali sull’aiuto al suicidio, i rilievi dell’Avvocatura Generale dello Stato, le forzature del Tribunale di Trieste e della commissione nominata dall’azienda sanitaria”, in Giurcost.org, Fascicolo n. 1/2024, 69 e ss.; ESPOSITO M., “Morte e credito”: riflessioni critiche sul c.d. diritto al suicidio assistito”, in Federalismi.it, n. 14/2024; BIANCHI L,, “La competenza legislativa sul fine vita”, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2024. Trattasi di dottrina che viene menzionata in CONTI G.L., 21 marzo 2025, “A proposito della legge regionale toscana 16/2025 e della deliberazione 2/2025 del collegio toscano di garanzia statutaria”, cit.
[42] Trattasi di Conti. Si veda CONTI G.L., cit.
[43] Cit. testualmente da CONTI G.L., cit.
[44] Idem.
[45] Si rammenta in questa sede che l’art. 6, par. 1, TUE prevede che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea dispone dello stesso valore giuridico dei Trattati, mentre l’art. 6, par. 3, TUE dispone che “I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”.
[46] Per un approfondimento sul concetto di dignità nel contesto sovranazionale ed internazionale, si consenta di rinviare a CAVALIERE S., “Il concetto di dignità umana nel diritto internazionale ed europeo: una breve nota ricostruttiva”, in Euro-Balkan Law and Economics Review, n. 2/2020.
[47] Si veda RUGGERI A., “La dignità dell’uomo e il diritto di avere diritti (profili problematici e ricostruttivi)”, in Giurcost.org, Fascicolo n. 2/2018, pag. 395.

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