Il paradosso dell’assenza: l’abrogazione dell’art. 323 c.p. tra vincoli internazionali e Costituzione
Sommario: 1. Premessa – 2. Dal codice Rocco alla legge n. 114/2024: itinerario normativo e parabola decostruzionista – 3. Il sindacato in malam partem tra legalità e tutela multilivello – 4. I vincoli internazionali derivanti dalla Convenzione ONU contro la corruzione – 5. La Direttiva UE 2017/1371 e il principio di penalizzazione obbligatoria – 6. Osservazioni conclusive: il ruolo del Giudice delle leggi nel ripristino dell’equilibrio costituzionale
1. Premessa
L’abrogazione, tanto repentina quanto controversa, del delitto di abuso d’ufficio, operata dall’art. 1 della legge 9 agosto 2024, n. 114, ha riacceso con vigore il dibattito, sia in ambito dottrinale che giurisprudenziale, circa i limiti della discrezionalità legislativa in materia penale e sulla possibilità che il potere giurisdizionale intervenga, anche in malam partem, per ripristinare strumenti sanzionatori volti alla salvaguardia di beni costituzionalmente garantiti.
Tale opzione normativa, com’è facilmente intuibile, si colloca all’interno di un quadro ordinamentale intrinsecamente complesso, connotato da un’intensa osmosi tra diritto interno, principi costituzionali e obblighi scaturenti da fonti convenzionali e sovranazionali, rispetto ai quali l’ordinamento statale è tenuto a conformarsi.
Il presente contributo si propone, dunque, di indagare i potenziali profili di incostituzionalità derivanti dalla soppressione dell’art. 323 c.p., alla luce degli artt. 11, e 117 della Costituzione, soffermandosi, altresì, sui presupposti teorico-sistematici che, in situazioni eccezionali, legittimano un sindacato in malam partem da parte del Giudice delle leggi, con particolare riguardo all’interazione tra gerarchia delle fonti, principio di legalità penale e garanzia dell’effettività della tutela giuridica.
2. Dal codice Rocco alla legge n. 114/2024: itinerario normativo e parabola decostruzionista
La riconduzione della figura delittuosa dell’abuso d’ufficio all’interno dell’egida punitiva ha tradizionalmente assolto a una inedita funzione di chiusura del sistema dei reati contro la pubblica amministrazione, configurandosi, al contempo, come lo snodo cruciale attraverso cui si è riflessa la irrisolta questione della latitudine del sindacato giurisdizionale sull’attività amministrativa.
La “inesorabile” parabola normativa dell’abuso d’ufficio testimonia, in maniera emblematica, le menzionate criticità.
Ed invero, nella sua configurazione primordiale, risalente al codice penale del 1930, la delimitazione applicativa dell’art. 323 c.p. si caratterizzava per una formulazione al contempo essenziale ed estremamente inclusiva, sanzionando il pubblico ufficiale che, nell’esercizio delle proprie attribuzioni, ponesse in essere qualunque condotta non specificamente prevista da altra disposizione incriminatrice, purché finalisticamente orientata a procurare un vantaggio – proprio o altrui – ovvero a cagionare un pregiudizio ad altri.
Una formulazione volutamente ampia, che si giustificava, evidentemente, in ragione dell’essere – quanto meno all’epoca – l’abuso d’ufficio collocato tra due pilastri principali della repressione penale dell’illegalità amministrativa: il peculato per distrazione (art. 314 c.p.) e l’interesse privato in atti d’ufficio (art. 324 c.p.), figure delittuose anch’esse tutt’altro che esenti da ambiguità strutturali.
Un primo riassetto della tipicità della fattispecie incriminatrice si è avuto con la riforma operata dalla legge 26 aprile 1990, n. 86, la quale – nel chiaro intento di ricondurre il sistema sanzionatorio in materia di delitti contro la pubblica amministrazione nell’ottica di una maggiore razionalizzazione – ha provveduto ad espungere dal tessuto normativo, tanto il peculato per distrazione, quanto l’interesse privato in atti d’ufficio.
Un intervento di epurazione normativa, tuttavia, che ha comportato un inevitabile riflusso delle relative condotte all’interno della rinnovata fattispecie di abuso d’ufficio, che, nella sua rinnovata formulazione, è stata ricalibrata in chiave maggiormente selettiva.
Emblematica, in tale prospettiva, è stata la scelta del Legislatore di includere tra i soggetti attivi del reato anche agli incaricati di pubblico servizio, nonché, quella di subordinare, sul piano soggettivo, la finalizzazione della condotta materiale all’ottenimento di un vantaggio o altrui, ovvero alla realizzazione di un danno a soggetti terzi, purché ingiusto.
A breve distanza temporale, tuttavia, il Legislatore, mosso dall’evidente finalismo di estromettere un controllo penetrante da parte della magistratura penale sull’operato dei pubblici funzionari, è intervenuto nuovamente in materia, dando luogo a una seconda riscrittura della norma incriminatrice, mediante l’art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234.
L’intervento riformatore ha inciso, in maniera significativa – ancora una volta – sul piano della tipicità della condotta penalmente rilevante, delineando due distinti e alternativi profili di illiceità: quello della violazione di norme di legge o di regolamento; nonché, quello involgente l’omessa astensione in presenza di un interesse proprio, di un prossimo congiunto, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge.
Ma v’è di più. Oltre a richiedersi, sul piano soggettivo, il più pregnante coefficiente del dolo intenzionale, la fattispecie dell’abuso d’ufficio viene ridisegnata quale reato di evento, essendo la sua consumazione inestricabilmente subordinata alla concreta produzione di un vantaggio patrimoniale ingiusto, ovvero, di un danno ingiusto.
Benché l’intentio legislatoris – alla luce del riferimento testuale alla “violazione di norme di legge o di regolamento” – fosse, indubbiamente, orientata a una più stringente delimitazione dell’ambito operativo della fattispecie incriminatrice, l’applicazione giurisprudenziale della riforma si è rivelata tutt’altro che lineare, dando luogo a interpretazioni non sempre omogenee, né sistematicamente coerenti.
Superata una prima fase di conformismo interpretativo, infatti, ha finito progressivamente per imporsi, presso la giurisprudenza di legittimità, l’orientamento ermeneutico secondo cui all’interno della nozione di “violazione di norme di legge” dovessero ricomprendersi non soltanto l’inosservanza di precetti puntuali, ma anche la lesione di principi costituzionali generali, primo fra tutti quello di imparzialità enunciato dall’art. 97 Cost.
Nell’ottica della rimarcata tendenza estensiva, la giurisprudenza ha finito, altresì, per recuperare all’interno della tipicità dell’abuso d’ufficio anche l’eccesso di potere nella forma dello sviamento, così ampliando nuovamente il perimetro applicativo della norma.
Emblematico, in tal senso, è l’indirizzo esegetico solcato dalle Sezioni Unite “Rossi” del 2011, in base al quale “ai fini della configurabilità del reato di abuso d’ufficio, sussiste il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge poichè lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l’attribuzione” (v. Cass. Pen. Sez. U., n. 155 del 29 settembre 2011).
Un ulteriore (disperato) tentativo di ricondurre la norma incriminatrice entro ragionevoli canoni di certezza applicativa si è avuto, infine, con il D.L. 76/2020 (convertito in Legge n. 120/2020).
Tale modifica, ha significativamente inciso sul versante oggettivo della fattispecie: da un lato, escludendo il riferimento alla violazione di norme regolamentari; dall’altro, àncorando la “residua” tipicità delittuosa alla sola violazione di “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.
Neppure l’estromissione dal circuito penale di violazioni di norme costituzionali, regolamentari e legislative con margini di discrezionalità, tuttavia, è riuscita – complice, ancora una volta, l’inarrestabile tendenza espansiva della giurisprudenza della Suprema Corte – a soppiantare il fenomeno della “burocrazia difensiva”.
Di qui, dunque, la determinazione, assunta dal legislatore del 2024, di procedere alla “definitiva” espunzione dall’ordinamento della fattispecie di abuso d’ufficio.
La parabola dell’art. 323 c.p. si è così chiusa – almeno per adesso – con una scelta che, pur collocata formalmente entro l’orizzonte della discrezionalità legislativa, solleva importanti questioni di coerenza sistematica e conformità ai valori costituzionali, soprattutto in relazione all’effettività della tutela degli interessi pubblici e alla conformità dell’ordinamento interno rispetto ai vincoli internazionali e unionali.
3. Il sindacato in malam partem tra legalità e tutela multilivello
La integrale soppressione dell’articolo 323 c.p., ha suscitato vistosi interrogativi circa la sua conformità all’attuale assetto ordinamentale, catalizzando, in particolare, l’attenzione della giurisprudenza di merito sul piano della violazione degli obblighi sovranazionali (art. 11 e 117 Cost.).
Il tema appena evocato – costituente il “leitmotiv” della moltitudine dei provvedimenti di rimessione al Giudice delle leggi – impone una propedeutica riflessione circa la pregiudiziale questione involgente l’ammissibilità, in materia penale, del sindacato di costituzionalità in malam partem.
Ebbene, sul punto, la giurisprudenza costituzionale ha storicamente adottato un atteggiamento di estremo rigore, in ossequio al principio di legalità sancito dall’art. 25, comma 2, escludendo, dunque, in assenza di espressa previsione legislativa, la possibilità di una reviviscenza di fattispecie delittuose abrogate.
Tale regola, tuttavia, non è esente da alcune eccezioni, avendo la medesima Corte, in più occasioni, riconosciuto la sindacabilità costituzionale di norme penali di favore, nella misura in cui ciò risulti necessario ad assicurare la conformità da parte dell’ordinamento giuridico interno ai vincoli assunti sul piano sovranazionale (v. in tal senso, ex multis Corte Cost. n. 28/2010).
L’interrogativo da porsi, allora, non è se il Giudice delle leggi possa o meno sindacare in malam partem una norma penale favorevole, ma piuttosto quando – e in che misura – tale sindacato sia giustificato da esigenze superiori, quali il rispetto di obblighi internazionali assunti in sede ONU e UE, ovvero la salvaguardia di beni costituzionalmente protetti che verrebbero altrimenti sacrificati.
4. I vincoli internazionali derivanti dalla Convenzione ONU contro la corruzione
Positivamente risolta la questione involgente l’ammissibilità del sindacato in malam partem delle norme penali di favore, occorre adesso trasporre il focus della presente disamina sul tema la compatibilità dell’abrogazione dell’art. 323 c.p. con gli obblighi assunti dallo Stato italiano a livello internazionale, in forza della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata a Merida il 31 ottobre 2003, e ratificata dall’Italia con legge 3 agosto 2009, n. 116.
Il principale referente normativo al riguardo è costituito dall’art. 19 della menzionata Convenzione, rubricato “Abuso d’ufficio”, il quale espressamente recita: “ciascuno Stato Parte esamina l’adozione delle misure legislative e delle altre misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando l’atto è stato commesso intenzionalmente, al fatto per un pubblico ufficiale di abusare delle proprie funzioni o della sua posizione, ossia di compiere o di astenersi dal compiere, nell’esercizio delle proprie funzioni, un atto in violazione delle leggi al fine di ottenere un indebito vantaggio per se o per un’altra persona o entità“.
Ebbene, è da escludersi – almeno ad avviso di chi scrive – che tale disposizione normativa possa costituire una solida base dalla quale inferire uno specifico obbligo di criminalizzazione dell’abrogata fattispecie.
Ed invero, a una disposizione così formulata, tanto più se letta alla luce della regola generale di interpretazione enunciata all’art. 31, par. 1, della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati – alla cui stregua “un trattato deve essere interpretato in buona fede, seguendo il senso ordinario da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto e alla luce del suo oggetto e del suo fine” – sembra soltanto “suggerire” agli Stati contraenti la possibilità di indirizzare la discrezionalità politica verso determinate scelte punitive, lasciando, tuttavia, impregiudicata la libertà di darvi o meno attuazione normativa.
Analoghe considerazioni, valgono anche in relazione all’art. 65 della Convenzione, anch’esso assunto quale possibile parametro di incostituzionalità (1. Ciascuno Stato Parte adotta le misure necessarie, comprese misure legislative ed amministrative, in conformità con i principi fondamentali del suo diritto interno, per assicurare l’esecuzione dei suoi obblighi ai sensi della presente Convenzione. 2. Ciascuno Stato Parte può adottare misure più strette o severe di quelle previste dalla presente Convenzione al fine di prevenire e combattere la corruzione).
Lungi dall’assumere efficacia dimostrativa circa l’esistenza di un incondizionato divieto di decriminalizzazione dell’abuso d’ufficio, l’unico obbligo discendente dall’art. 65 della Convenzione sembra, semmai, esaurirsi – sul piano eminentemente internazionalistico – nella possibilità di radicare una “supplementare” responsabilità internazionale dello Stato in caso di mancata o inesatta esecuzione delle obbligazioni derivanti dal trattato, senza che ciò implichi, di per sé, l’obbligatorietà di includere una specifica previsione delittuosa.
5. La Direttiva UE 2017/1371 e il principio di penalizzazione obbligatoria
Considerazioni di diverso tenore s’impongono, viceversa, (almeno prima facie) sul piano della possibile interferenza della riforma abrogativa con il quadro giuridico sovranazionale di matrice unionale.
Sotto tale specifico angolo visuale, il principale ostacolo alla sopravvenuta abrogazione dell’art. 323 c.p. è rappresentato dalla Direttiva (UE) 2017/1371 (c.d. Direttiva PIF), adottata nell’ambito della protezione degli interessi finanziari dell’Unione, e che impone agli Stati membri l’obbligo di incriminare talune condotte lesive delle risorse economiche dell’UE, tra cui, in particolare, le appropriazioni indebite, le frodi e le distrazioni di beni.
Significativo, al riguardo, è il contenuto dell’art. 4 della Direttiva in discorso, il quale espressamente recita: “Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché, se intenzionale, l’appropriazione indebita costituisca reato. Ai fini della presente direttiva, s’intende per «appropriazione indebita» l’azione del funzionario pubblico, incaricato direttamente o indirettamente della gestione di fondi o beni, tesa a impegnare o erogare fondi o ad appropriarsi di beni o utilizzarli per uno scopo in ogni modo diverso da quello per essi previsto, che leda gli interessi finanziari dell’Unione”.
Ebbene, ai fini di una maggiore intelligibilità del significato espresso della cennata disposizione, risulta imprescindibile coniugare la soppressione dell’art. 323 c.p. all’introduzione dell’art. 314-bis c.p. (“Indebita destinazione di denaro o cose mobili”).
Tale fattispecie, benché introdotta con il palese l’intento di colmare il vuoto derivante dalla soppressione dell’abuso d’ufficio, presenta un ambito applicativo significativamente circoscritto, giacché limitato alle sole ipotesi di distrazione aventi ad oggetto “denaro o cose mobili”; rimangono, viceversa, escluse dall’area di rilevanza penale le condotte concernenti beni immobili, in precedenza pacificamente riconducibili entro l’alveo applicativo dell’art. 323 c.p..
Tale carenza normativa, almeno secondo quanto efficacemente lumeggiato dai primi commentatori della neo introdotta disposizione incriminatrice, contrasterebbe con l’art. 4, par. 3, della Direttiva PIF, traducendosi, dunque, in una evidente violazione dell’art. 117, co. 1, Cost., nella parte in cui impone allo Stato il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea.
6. Osservazioni conclusive: il ruolo del Giudice delle leggi nel ripristino dell’equilibrio costituzionale
L’abrogazione dell’art. 323 c.p., se letta alla luce dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale e dei vincoli derivanti dal diritto internazionale ed europeo, solleva questioni che travalicano, evidentemente, il piano della politica criminale.
La scelta legislativa di sopprimere una figura delittuosa che storicamente ha rappresentato – almeno sul piano formale – uno dei principali strumenti di tutela dell’imparzialità amministrativa, appare, in effetti, difficilmente conciliabile, tanto più se si considera la circostanza del non avere il Legislatore approntato (ad esempio, sul piano amministrativo) adeguate misure compensative.
In tale prospettiva, laddove la Corte costituzionale dovesse rilevare l’esistenza di un’incompatibilità strutturale tra la scelta abrogativa operata dal legislatore e gli obblighi internazionali assunti dallo Stato, si renderebbe, nondimeno, auspicabile un ponderato equilibrio tra il rispetto della riserva di legge e della discrezionalità legislativa in materia penale, da un lato, e l’esigenza di assicurare la coerenza sistemica dell’ordinamento rispetto ai suoi presupposti costituzionali e agli impegni internazionali, dall’altro.
Solo attraverso tale sintesi, infatti, sarà possibile assicurare la tenuta complessiva del sistema, nella sua duplice dimensione, interna e sovranazionale.
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Gabriele Ferro
Laureato in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Siena, attualmente praticante avvocato, con predilezione per il settore del diritto penale sostanziale e processuale.
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